Le foto dei Macachi in Cina e la sperimentazione animale
L’altro ieri sono stati proclamati i vincitori del Sony World Photography Awards, uno dei più importanti concorsi fotografici al mondo. Tra reportage in luoghi incredibili e storie di straordinaria normalità, mi è stato segnalato un progetto, The research monkeys ‘Made in China’, secondo classificato nella categoria “Environment”. Il fotografo cinese Li Feng, dell’agenzia Getty, è entrato in uno enorme stabulario che “produce” ed esporta macachi ai fini della sperimentazione animale.
La struttura ospita circa 700 macachi in 101 gabbie e, come spiega il trafiletto che accompagna le foto, vengono utilizzate delle procedure standardizzate (di incroci riproduttivi e organizzazione interna) in modo da limitare le differenze tra i vari macachi: l’uniformità dei soggetti evita variabili fuori dal controllo degli sperimentatori.
Vedendo le immagini, mi è tornato alla mente un articolo scritto circa due anni fa, in cui parlavo dei macachi dell’Università di Modena e del corteo animalista che intendeva “liberarli” (andò diversamente: terminati i fondi per gli esperimenti, dovevano essere dati in affido: la LAV ancora non ha individuato una struttura ottimale, quindi sono ancora a Modena). In quell’articolo tratteggiavo alcuni successi della Sperimentazione Animale dovuta all’utilizzo di primati e cercavo di spiegare cosa significa la “ricerca di base” e la sua importanza: a distanza di due anni rimango pienamente convinto di tutto ciò che scrissi, ma una nuova riflessione mi nasce osservando le foto del reportage.
L’attuale legge sulla sperimentazione animale (Decreto Legislativo del 4 marzo 2014, n. 26, recepimento della Direttiva Europea 2010/63/UE “sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici”) intende
vietare l’allevamento nel territorio nazionale di cani, gatti e primati non umani destinati alla sperimentazione
impedendo di fatto stabulari simili a quello fotografato da Li Feng sul nostro territorio.
Questo punto (come altri) è stato inserito in aggiunta rispetto alla Direttiva Europea, rendendo di fatto la legge più restrittiva rispetto alla Direttiva stessa: le modifiche espongono l’Italia al rischio di sanzioni dovute all’infrazione del testo originario, nell’ordine di 150.000€ al giorno, sebbene ancora non vi sia un pronunciamento definitivo in merito.
Dobbiamo alle associazioni animaliste aver premuto su questo punto in particolare: gli accadimenti di Green Hill erano ancora freschi nella mente e si fece leva sull’emotività sollevata al tempo per impedire, a loro dire, “altri allevamenti-lager”. Chi ha buona memoria può ricordare il dibattito infuocato di quel tempo.
Tuttavia, dato il divieto, chi intende svolgere ricerche con primati è obbligato ad acquistarli all’estero, cosa che sposta il problema senza eliminarlo.
Se volete capire dove viene spostato, vi basta vedere il reportage: le immagini sono crude (ed a rischio decontestualizzazione). Se vi fanno impressione, riflettete un attimo: la Direttiva Europea è molto stringente in tema di benessere animale, codificando procedure e prassi in modo univoco e preciso. Cosa che facilmente non avviene in Cina (un paese non propriamente celebre per i diritti umani, è facile intuire che i diritti animali sono poco considerati: qualcosa si muove in realtà, ma siamo solo agli inizi). Eppure, in Italia si è scelto volontariamente (come detto, non era nella Direttiva) di privarsi della possibilità di allevare questi animali per la sperimentazione.
Se vogliamo parlare di costi, appare chiaro che importare animali dalla Cina abbia la sua convenienza (che, in un momento di riduzione di budget alla ricerca, ha il suo peso): prendendo i dati riportati dal reportage (sulla cui affidabilità non metto la mano sul fuoco, ripromettendomi una verifica) capiamo che il costo per un macaco in Inghilterra varia tra 4000 e 16000 sterline (tra i 5000 ed i 20000 euro, in base alla dimensione), mentre per un macaco in Cina si spendono cifre che partono da 8000 yuan (circa 1000 euro). La convenienza è evidente anche tenendo conto delle spese di trasferimento, ed in tema va segnalata la difficoltà logistica del trasporto, dovuto a campagne di dissuasione (anche con sabotaggi ed atti vandalici) nei confronti delle compagnie aeree che effettuano tale servizio: ad oggi solo Air France-KLM e Air Mauritius hanno resistito alle pressioni.
La strategia è semplice: da una parte con la legge si impedisce l’allevamento di determinati animali, dall’altra con giochi lobbystici (qui sì, se ne può parlare) si tende a rendere impossibile l’importazione degli stessi animali. Il risultato è bloccare la ricerca che necessita di tali animali, di certo non secondaria: come segnalato, i macachi sono fondamentali nello studio del funzionamento del sistema nervoso (proprio sul macaco furono individuati per la prima volta i neuroni specchio).
Come accade di frequente negli ultimi tempi, ci troviamo innanzi ad un comportamento NIMBY (not in my back yard, non nel mio cortile): ci si pulisce la coscienza del proprio orticello, indifferenti a ciò che succede fuori da questo: abbiamo rinunciato agli allevamenti in Italia, creando la necessità di comprare gli animali all’estero. Gli sperimentatori di gran lunga preferirebbero utilizzare animali allevati nel nostro paese, in modo da essere sicuri sia del loro stato di salute che della loro storia clinica, evitando lo stress dovuto ad un trasferimento aereo così lungo ed all’adattamento ai nuovi locali, e questo pur a fronte dei costi maggiori.
Una legge buona in origine si è trasformata in una serie di paletti contrari persino al buon senso, e dove portano le decisioni prese sotto l’onda emotiva e frutto di pressioni adesso è un po’ più chiaro. Chi tiene davvero al benessere animale guarda un po’ più in là del proprio steccato: da noi si è scelto di essere animalisti coi macachi degli altri.
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Originally published at www.controversomagazine.com on April 23, 2016.