Conversational Branding
Per un personale narrativo
Esiste un mondo in declino e Internet gli offre una medaglia a due facce: da un lato gli si prospetta una possibilità di redenzione, mentre dall’altro si affaccia una disfatta patetica e caricaturale.
Uno dei luoghi più evidenti di quest’ambivalenza è il cosiddetto “Personal Branding”!
Chi scrive, ormai troppi anni fa proprio nelle pagine di un’altro magazine da precursore dell’amico Marco Tracinà, curava una rubrica sul tema del “Personal Coaching”. Oggi la cosa è talmente all’ordine del giorno da aver perso ogni interesse, ma riportata a quegli anni aiuta a comprendere perché ci sia stato bisogno, in una cultura così corporativa come quella delle grandi imprese, di uscire dall’ambiguità per riaffermare l’autonomia del singolo a motivarsi, non come clone di un modello motivazionale prescritto, ma come imprenditore della propria persona pronto a reinvestire in sé stesso.
Oggi le cose stanno ben diversamente e troppe persone 2.0, 3.0… n.0 gonfiano il proprio profilo professionale e carismatico per esibire una merce di se stessi, invece che dietro i paracarri o al fuoco dei copertoni, sull’ormai super-inflazionato web sociale.
Stiamo parlando di Personal Branding, un tema su cui tornerò ancora, per limitarmi qui oggi ad una prima breve considerazione:
Ritenete che abbia un qualche senso usare il paradigma della condivisione in rete per esasperare la soggettività? Oppure ha, sì, un senso parlare di uno stilema personale, qui semplificato nel termine grossolano di “Brand” (marchio), ma solo come contributo di condivisione, angolatura di interpretazione delle esperienze ed espressione collaborativa di questo contributo?
In altre parole, ben venga il personal branding ma solo se contribuisce all’accensione di collaborazioni, di orchestrazioni auto-organizzative e non certo, né a fare da scudi per il trionfo di nuovi Guru da minestrone o, peggio che mai, al carnevale di altri managerini da operetta in liste nate appositamente per fare da vasche dove pescare ulteriori portaborse di facile manipolazione per executive lobbisti!
Di quali marchi personali può avere bisogno il consumatore? In primis di idraulici, di falegnami, artigiani… ma anche di professionisti della cura e del benessere. Ma quello di cui hanno bisogno è conoscere la convenienza reale e soprattutto l’attendibilità, e per fare questo si confronta con altri e lo fa in rete ma soprattutto fuori da questa, per strada, in ufficio, con gli amici. Possiamo dire che a oggi esista una vera strategia diversa dagli slogan yuppy che vada incontro ai consumatori di tutti i tipi — dalla zia Matilde al piccolo e medio imprenditore?
Allora, amico mio, cura il tuo personal branding, ma mondalo da ogni riferimento alla competitività e al mercato del bestiame (come quello dopato sotto la cacofonica etichetta di “talenti”), perché l’unico contributo innovativo che puoi offrire è solo quello che va nel segno di un declino di quella generazione e per l’accompagnamento per la lunga e difficile transizione verso l’era della sostenibilità condivisa e creativa.
Uno Shared Personal Brand, perché…
L’ “Io” è già Conversazione e (per abusare di etichette alla moda) StoryTelling