Capire il tracciamento

L’illustrazione è di Marzia Munafò.

«Il Giappone di Abe teme quasi più i tamponi della pandemia» così titolava un articolo comparso il primo aprile in un quotidiano italiano. In quei giorni, il Giappone stava vedendo il numero di contagi salire, e nonostante le richieste degli esperti di prendere misure più restrittive e aumentare il numero di test effettuati, una chiusura vera e propria non c’è mai stata e i tamponi, gestiti dal governo, sono stati effettuati con il contagocce. Eppure, a distanza di sette mesi, vediamo che le previsioni catastrofiche di quei giorni non si sono mai avverate. Perché? Le motivazioni sono tante e complesse, ma una ci interessa particolarmente, ossia il metodo di tracciamento implementato. Infatti, così come nel resto del mondo, anche in Giappone i tamponi scarseggiavano e così il Paese ha cercato di ottimizzarli: invece di test di massa, si è deciso di testare solo casi gravi e, attraverso il tracciamento, ci si è concentrati sul contenimento tempestivo di piccoli focolai.

È ormai fatto consolidato che il tracciamento sia un mezzo fondamentale per bloccare il diffondersi dell’epidemia. Inseguendo il virus, l’obiettivo è quello di arrivare al prossimo potenziale contagiato prima che lo faccia un positivo, o meglio prima che il virus abbia modo di spostarsi verso un’altra persona attraverso i comportamenti del positivo asintomatico, perché ancora i sintomi non sono manifesti o perché il virus ha deciso di rimanere silenzioso nel suo corpo. Vinta questa corsa contro il virus, il contagiato può essere isolato e messo in condizioni di non infettare.

Poi c’è ancora un altro aspetto che rende il tracciamento fondamentale, di cui non parliamo qui, ma che è giusto menzionare. Il tracciamento ci fa capire la dinamica di diffusione del virus e così è d’aiuto nel prendere decisioni mirate per bloccare l’epidemia: ci permette di conoscere quali posti, quali corpi e anche quali comportamenti, sono più favorevoli alla trasmissione.

FARE DI PIÙ CON MENO

Dunque, se si riuscissero a tracciare tutti i contatti con tempestività, riusciremmo a bloccare la catena dei contagi. Ma a che prezzo? Quante risorse e forza lavoro sarebbero necessari per tale impresa? Assistiamo oggi a quello che da molti viene definito il ‘fallimento del tracciamento’, ma queste sono cronache di un fallimento annunciato, forse. Con 10mila casi giornalieri, ammettendo che una persona abbia in media una trentina di contatti settimanali, sarebbe necessario contattare e testare giornalmente circa 300mila potenziali positivi. Ma le cose potrebbero peggiorare. Se ipotizziamo un tempo di raddoppio di 7 giorni per l’epidemia, questi numeri raddoppieranno dopo una settimana. Inoltre, durante il periodo di incubazione del virus, il positivo inconsapevole potrebbe aver già contagiato molte persone prima di aver ottenuto i risultati sulla sua positività. La richiesta di forza lavoro dovrebbe essere altissima per riuscire a sostenere tale sistema e dovrebbe aumentare con la stessa velocità della curva epidemica.

Se anche fosse possibile, è questa la migliore strategia che possiamo utilizzare? Questo tipo di tracciamento non tiene minimamente conto della conoscenza che abbiamo oggi dell’epidemia e potrebbe andare bene per qualsiasi tipo di virus. Perché non usare un approccio mirato alla Covid-19?

LA LEGGE DI PARETO

Ancora poco si sa sulla dinamica di diffusione del Sars-COV-2, ma una cosa sembra sempre più evidente: il virus non si diffonde uniformemente, ma a grappoli. Della sovradispersione dell’epidemia da Sars-Cov-2 abbiamo già parlato (https://bit.ly/2I8Vnnp) e in breve consiste nella presenza di pochi individui che da soli riescono a infettare molto più di altri, i cosiddetti super-diffusori. Detto utilizzando il principio di Pareto: la maggior parte degli effetti è dovuta a un numero ristretto di cause. Che effetto pratico ha questo? In presenza di super-diffusori, l’epidemia cresce più velocemente e questa crescita è dunque soggetta a una forte componente stocastica, cioè casuale: ancora poco si sa del perché una persona sia più contagiosa di un’altra e dunque la nascita di un focolaio viene lasciata al caso. Sicuramente, il luogo e i tipi di contatto svolgono un ruolo essenziale per la sovradispersione: ambienti chiusi, poco ventilati, dove le persone parlano a voce alta o cantano senza mascherina sembrano essere elementi favorevoli per “l’obiettivo” del super-diffusore, cioè infettare. Al contrario dell’influenza, la Covid si muove per focolai.

Quando si impara a usare ciò che si ha, non è detto che ci sia bisogno di più risorse o più capacità. Se l’epidemia galoppa a forza di super-diffusori e focolai, concentriamoci su questi due aspetti. Gli esperti suggeriscono due modi per farlo: il tracciamento a ritroso e l’azione tempestiva di isolamento dei focolai. Nel primo caso, ripercorrendo a ritroso i movimenti del positivo, si cerca di risalire al super-diffusore, e da questi si fa ripartire il tracciamento in avanti. In questo modo, anche eventuali asintomatici possono essere osservati. Ne abbiamo parlato qui (https://bit.ly/2I873H3). Bloccare i focolai sul nascere, è altrettanto essenziale: qualora si dovesse scoprire la presenza di un positivo — e ne basta uno solo — in un luogo a rischio (un bar, una chiesa, un ufficio, una scuola o qualsiasi altro luogo al chiuso e con scarsa ventilazione), questo dovrebbe essere chiuso e sanificato e chiunque si sia trovato lì in contemporanea al positivo o nei giorni successivi, isolato e testato.

E se confrontando le risposte che i diversi Stati hanno avuto all’epidemia notiamo che l’Asia ne esce sempre vittoriosa, ricordiamoci che in Asia questi due tipi di tracciamento sono stati messi in atto sin da subito.

LA RISCOSSA DEI TAMPONI RAPIDI

Isolare completamente un focolaio non si fa con leggerezza: un negoziante si troverebbe costretto a chiudere il suo negozio aspettando il risultato del suo tampone, o un ufficio dovrebbe chiudere un intero piano e far testare decine (o anche centinaia) di persone prima di poter riaprire. E i tempi necessari per effettuare tamponi molecolari e riceverne i risultati sappiamo essere significativi. Una soluzione è però offerta dai cosiddetti tamponi rapidi, per i quali i risultati si ottengono già dopo pochi minuti. Questi test, poco apprezzati per la loro bassa capacità di individuare i positivi, potrebbero invece risultare molto utili per identificare l’insorgere di un focolaio e per comprendere se siamo in presenza di un positivo super-diffusore o no.

Facciamo un passo indietro, l’affidabilità di un test viene giudicata sulla base della sua capacità di identificare positivi, ossia la sensibilità, e su quella di identificare negativi, cioè la specificità. Trovate il nostro approfondimento sui test qui: https://bit.ly/368Eilt.

Mentre i tamponi molecolari hanno sensibilità e specificità entrambe alte, e per questo sono considerati più affidabili, i tamponi rapidi hanno alta specificità, ma bassa sensitività: riescono abbastanza bene a dirci quando siamo negativi, ma possono sbagliare più facilmente nel riconoscere la nostra positività (possono dirci dunque che siamo negativi anche se non è vero). Ma questo non significa che siano completamente inutili.

I risultati dei tamponi rapidi sono utili quando vengono esaminati nel loro insieme e in relazione alla sovradispersione. Se siamo in presenza di un super-diffusore che abbia contagiato molti dei suoi contatti e il tampone rapido ne riesce a indentificare solo alcuni, è possibile che gli altri siano falsi negativi, frutto della bassa sensitività del test. Invece, se dal tampone rapido emergono esclusivamente risultati negativi, questa potrebbe essere vista come evidenza che l’infetto non è un super-diffusore, dato che sarebbe un caso molto sfortunato (e poco probabile) quello in cui TUTTI i tamponi riconducibili allo stesso ceppo di contagio producano un errore. L’incertezza di un risultato può essere quantificata guardando a un insieme di risultati. Pensiamo a quanto prevedibile sia il comportamento di un gas — formato da miliardi di molecole — e quanto imprevedibile sia quello di una singola molecola: l’incertezza della molecola svanisce guardando al loro insieme, cioè al gas.

LA METAFORA DELLA FORESTA

La sovradispersione dell’epidemia è un fattore che potrebbe offrire diversi spunti nella scelta delle strategie da intraprendere per sconfiggere il virus. In questo articolo abbiamo parlato di tracciamento, ma in realtà la conoscenza di questa fondamentale caratteristica del virus andrebbe utilizzata per supportare qualsiasi altra scelta messa in campo, come è stato fatto in Giappone con la chiusura temporanea di teatri e stadi e il divieto di concerti, tutte situazioni che avrebbero potuto provocare eventi di superdiffusione. Ed è proprio il virologo giapponese dell’Università di Tohoku, Hitoshi Oshitani, membro della commissione scientifica giapponese per la gestione della pandemia, a spiegare che confrontando i risultati dei Paesi occidentali, appare evidente come le misure prese in Giappone siano state più efficaci: «La differenza sta nell’approccio al contagio. Per dirla in poche parole: l’approccio giapponese è stato quello di guardare al quadro complessivo osservando la foresta, quella di New York e dell’Occidente è stata quella di guardare al singolo albero».

*Martina Patone è ricercatrice in Statistica ed editor della pagina.La redazione di questo articolo è a cura di Monica Murano.

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