“Brutalismo: quando il cemento aspira all’arte”

Mausoleo Brion

“Ora pronobis”. In lontananza un mormorio indistinto con il prossimo santo esce metallico da un megafono e il coro di vecchine non tarda ad arrivare…

“Oraaaa pronobiiiis”.

Una croce dondola in testa alla processione al ritmo della cantilena delle preghiere.

Folti cipressi e una stretta via di campagna disegnano una cornice perfetta: è l’accoglienza che ci riserva il mausoleo Brion.

Vecchia entrata al cimitero del paese

San Vito d’Altivole, luogo disperso nella campagna trevigiana, tutt’intorno campi di mais e zone industriali, sullo sfondo il Monte Grappa e le colline di Asolo.

Strana terra questa, che negli anni ha dato rifugio a molti artisti: Canova, Eleonora Duse, Freya Stark, tutti nel giro di poche manciate di chilometri.

Il paesino sarebbe rimasto un puntino qualsiasi in una mappa se Giuseppe Brion non l’avesse scelto per venirci al mondo quel maggio del 1909 e, se poi, non avesse deciso di andarsene per cercar fortuna altrove, come molti suoi coetanei nel dopoguerra. Questo gli permise di creare quel sentimento di nostalgia che l’ha legato in modo indissolubile alla sua terra e alle radici.

Brion era quello che potremmo definire un mecenate industriale, fondò insieme alla moglie Onorina la Brionvega, con l’idea ben precisa di applicare il design emergente italiano ai prodotti elettronici di uso comune. Si attorniò di un circolo di menti creative, architetti e designer che lo aiutarono a realizzare, bozzetto dopo bozzetto, il suo sogno.

Quando nel 1968 fu improvvisamente colpito da un malore, la vedova Onorina non ebbe alcuna esitazione: ritornò ad Altivole e fece in modo che il marito fosse ricordato anche nel trapasso come il mecenate innovatore che era stato in vita, facendo costruire un mausoleo in sua memoria. La sua scelta per il progetto non poteva che ricadere sull’architetto Carlo Scarpa, una delle menti più avveniristiche di quegli anni e grande amico del defunto marito.

“Scusi, vorrei sapere, lei ha intenzione di risposarsi?” fu l’unica domanda di Scarpa alla vedova Brion.

“No, certo che no!”, la sua risposta fulminea.

“Meno male, perché mi era venuta un’idea e se lei si risposava non sarei riuscito a disegnare la vostra tomba.”[1]

Una semplice domanda e 1500 fogli di minuziosi schizzi danno il via ad un complesso monumentale che si estende per oltre 2000 mq, la cui costruzione è durata quasi dieci anni ed ha inglobato tutti gli elementi architettonici e stilistici dell’architetto Scarpa.

Arcosolio, dettaglio esterno

Può un ammasso di blocchi di cemento avere un senso senza conoscere in profondità le intenzioni del suo autore? Come spesso accade, nelle opere brutaliste c’è sempre l’intenzione di trasmettere un messaggio, sia esso la potenza, come per i palazzi dell’ex blocco sovietico, o l’utopia sociale dietro le costruzioni di Le Corbusier.

Nel caso di Scarpa il mausoleo diventa la necessità di celebrare un’idea di amore duraturo e indissolubile. Vuole trasformare il cemento armato in opera d’arte, lasciando testimonianza di anni di lavoro che si esprime nella cura dei minimi dettagli disseminati ovunque.

Acquasantiera a scatto. Gradini e anelli intrecciati, simboli tipici dell’architettura di Carlo Scarpa

Mentre aspettiamo la guida del FAI, due ragazze arrivano trafelate dal viale di cipressi, sulle loro spalle due zaini colmi. Entrano nel cimitero e si intrufolano in una delle tombe di famiglia. Al loro seguito alcuni ragazzi con appese al collo macchine fotografiche e obiettivi lunghi come piccoli cannoni pronti a sparare.

“Cominciamo dai propilei” sussurra la guida accompagnandoci nel luogo più iconico del mausoleo, due enormi anelli in metallo decorati con mosaico blu e rosso si intersecano a simboleggiare l’amore coniugale dei coniugi Brion: rosso per Giuseppe, a raffigurare il fuoco, e blu, simbolo dell’acqua che fluisce, per Onorina.

Propilei: due anelli che si intrecciano, simbolo dell’amore duraturo dei coniugi Brion

La tomba Brion ha un aspetto alieno. Un complesso di quattro edifici disposti ad L, ognuno con una funzione ben precisa: i propilei e la chiesetta delimitano l’area esterna, mentre arcosolio, tombe di famiglia e spazio per la meditazione all’interno, protetti da un enorme muro di calcestruzzo inclinato. Un percorso labirintico nel quale i simboli geometrici e i canali d’acqua si rincorrono, quasi a voler indicare ai visitatori la via da seguire.

Il pavimento rimbalza e suona ad ogni nostro passo, altro giochetto architettonico che Scarpa introduce per intrattenere il visitatore e coinvolgerne tutti i sensi.

Di fronte a noi una porta scorrevole di cristallo si inabissa nella vasca d’acqua sotto i nostri piedi piena di fiori loto e carpe koi, rivelando il padiglione della meditazione: un giardino di ispirazione giapponese, cultura di cui Scarpa era ossessionato.

Padiglione della meditazione

Un luogo creato per immergersi nel silenzio e ammirare in lontananza l’arcosolio, una sorta di piccola caverna che si ispira alle costruzioni paleolitiche, nella quale dimorano i sarcofagi dei coniugi Brion, due enormi sculture inclinate che protendono l’una verso l’altra.

Arcosolio. I sarcofagi sono poggiati su basi concave inclinate una verso l’altra

D’un tratto, due abiti svolazzanti di chiffon appaiono nel giardino. I veli blu elettrico e rosso fuoco creano un contrasto acceso con il verde dell’erba. Le due ragazze si mettono in posa di fronte agli anelli intrecciati e fanno svolazzare leggeri nell’aria gli strascichi in chiffon mentre gli amici sparano click e flash a raffica.

Il mausoleo, infatti, è recentemente ritornato alla ribalta grazie al genio del regista Denis Villeneuve, che ha girato qui alcune scene di Dune 2. Turismo instagrammabile lo chiamano: arrivi, fotografi, filtri, posti, geolocalizzi e via. Un veloce superficiale timbro nel passaporto del “ci sono stato”.

Set di Dune 2: muro all’interno della chiesetta con intaglio ad Omega

Al di là del muro, nel cimitero del paese, continuano le cantilene delle preghiere della processione, in questo surreale momento di estraneazione tra vita e morte, apparenza e concretezza.

Il mausoleo rimane uno spazio ermetico, denso, alienante. Il cemento ricorda il peso della vita terrena, in contrasto con tutta la leggerezza che lo circonda: i mosaici d’oro, i pesci che fluttuano nell’acqua, le foglie degli alberi che ondeggiano nella brezza leggera.

Un luogo dove si percepisce l’importanza di riappropriarci di spazi nei quali rimaniamo sospesi, in cui tutto un po’ si ferma e diventa quasi irreale.

Speriamo solo che nei prossimi anni riesca a mantenere questa sua identità eterea anche quando il turismo cinematografico aumenterà l’afflusso di visitatori.

Le ultime prefiche abbandonano il campo santo, è tempo anche per noi di tornare nel mondo dei vivi.

[1] Tratto da “Carlo Scarpa 1968–78. Quasi un racconto” (G. Pietropoli)

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