Budasimov

Racconto di Veronica Bertassi

Racconto di un week end tra Lampugnano e Seul. Budasimov la città del futuro, tra il seguire la massa, il futuro di AI che ci aspetta e ricordi di unicità di un luogo.

L’ immagine di un cervello disegnato come fosse un labirinto è rappresentato sulla copertina del libro del passeggero accanto a me, cerco di guardare oltre, allungando lo sguardo fuori dal finestrino per vedere se riesco a riconoscere il paesaggio andando a memoria della cartine geografica, ma nulla, da quassù non riesco a capire cosa stiamo sorvolando, volgo lo sguardo intorno a me, devo essermi addormentata durante il volo, sembra trascorso poco tempo, ma le hostess, iniziano già a passare tra i passeggeri a ritirare eventuali rifiuti, alla mia destra il sedile ora è vuoto, solo un mucchio di briciole mi ricordano chi fosse il passeggero seduto qui, stava mangiando dei cracker alla partenza, osservo il mucchietto di briciole cercano di trovare un’ immagine familiare in alcune di esse, come si fa per le nuvole, nulla, nessun immagine sensata, provo allora a comporre un Puzzle, come se i pezzettini di cracker fossero tutti parte di uno stesso pezzettino, anche questo passatempo non dà risultati. Una Hostess ora mi è vicino e mi distoglie dalle briciole “Any trash?” nego con il capo. Aisha è scritto sulla targhetta dorata, ne osservo il trucco perfetto, il rossetto rosso non è nella sua palette, preme le labbra un paio di volte, e mi sorge il dubbio di aver espresso il mio pensiero verbalmente.

La voce allo speaker sta parlando in inglese, capisco solo la temperatura all’ atterraggio, 12 Gradi, mi avvolgo la sciarpa gialla intorno al collo come a voler iniziare a preparami alle intemperie, lo speaker continua l’annuncio in una lingua a me sconosciuta, alla quale non riesco a collegare nessuna lingua Indo- europea, mi rivolgo al passeggero accanto, “Sorry, Sir, lei sa in che lingua sia”? -L’uomo solleva il volto, dal libro, volgendo l’orecchio destro leggermente verso l’alto, come se fosse un sonar, “ I think is Corean” , “ ah, Thanks” rispondo annuendo con il capo,” sembrava fosse corano anche a me!”

Clare è atterrata ore prima, e mi manda per messaggio tutte le informazioni sui trasporti e come incontrala, seguo il flusso di gente che scende dall’ aereo con me, confido sempre che il primo della fila sappia dove andare, raggiungere la biglietteria del bus all’ esterno è il mio punto d’arrivo, lo raggiungo senza intoppi, mostro alla bigliettaia la foto del Ticket del bus scritto in lingua locale per quello che dovrebbe essere dalla durata di 3 giorni, la conversazione è minima, io parlo in inglese e la donna dai capelli corti e neri , risponde in una lingua che non capisco, non sorride e non ha nessuna espressione sul viso, mi soffermo a osservarla cercando un minimo di inflessione tra una ruga degli occhi e l’ altra, nel suo colorito di una perfetto rosa antico, il velo di cipria ne esalta i pori, trattengo l’impulso di toccarle il viso per vedere se indossa una maschera troppo reale, per un attimo i nostri occhi si incontrano, e mi sorge il dubbio che sia lei a scrutare me, pago con la carta di credito, ignorando quanto abbia speso, la valuta ha troppi zeri per permettermi una conversione immediata.

La tratta che mi conduce in centro percorre palazzoni molto alti, al piano terra ci sono negozi e locali, non si capisce molto bene dove inizia uno e comincia l’altro, le insegne sono colorate in plastica, con delle scritte a luce intermittente sulle vetrine, per un attimo mi sembra di essere nello squallore economico di Lampugnano.

Anche qui seguo la massa di persone con le valige che scendono alla stessa fermata del centro, ho indovinato, Clare è li che mi aspetta. Un odore dolciastro mi avvolge, è il profumo del Chimney, dolce tipico locale, un enorme cannoncino ricoperto di zucchero, non ne capisco la tipicità data la banalità.

Con l’olfatto attivato entriamo in un ristorante, anch’esso con l’insegna a neon, il ristorante è piccolino, una ragazza dai capelli lilla ci saluta senza troppo entusiasmo, ordiniamo al bancone, il menù ha pochi piatti, io incuriosita prendo la frittata di Kimci e una zuppa, il ristorante è corano, il locale è addobbato con oggetti fatti in carta colorata, e la scala che porta al piano superiore è coperta di poster di cantanti di una band famosa KO-. I muri sono tappezzati di scritte, il locale deve essere qui da molto, inizio a leggerle nell’ attesa del cibo, “ Miglior hummus in città” best Falafel” riguardo il menù, non vedo hummus, Love Lebanon e scritte in arabo, mi fanno capire la vita precedente del locale, e quando assaggio la mia frittata, rimpiango un po’ non sia ancora un ristorante Libanese.

Le Terme sono la scelta perfetta per piovoso giorno seguente, la città ne è piena grazie alle conformità geotermica, aprono molto presto e alle 8 siamo già immerse nell’ acqua che odora di zolfo, ci sono già persone che lasciano i Bagni per andare al lavoro, i mosaici azzurri e verdi ci circondano e con un cenno d’assenso ringrazio la pazienza dei costruttori, i soffitti sono molto alti e il rumore della fontana rimbomba per la stanza, dalle giganti vetrate si intravede il fiume color beige che attraversa la città e che la divide in due, il suo Blu se ne è andato via con Strauss.

Seguiamo scrupolosamente il percorso, indicato con frecce gialle sul pavimento come all’ Ikea, attenendoci alla tempistica suggerita all’ingresso delle varie stanze.

La smoked room, è completamente avvolta di nebbia umida, non riesco a capire se l’odore citrico dell’ambiente mi piaccia o mi infastidisca, seduta in questa stanza, mi viene in mente un’immagine di un film, dove in uno spostamento di aria, si intravede un corpo ucciso, fortunatamente non è questo il momento, e dopo 12 minuti, lasciamo la stanza per andare nella secca sauna, 60 gradi profumati di legno.

Temprate possiamo affrontare la città, senza prima fermarci in un Cafè, siamo nel quartiere Hypster, ovviamente hanno solo il latte di piselli per il cappuccino, come dolce, tralascio le varie versioni di Pain du Chocolate, per optare per un dolce Tipikus dalle perfette sfumature di marrone che si alternano a strati noci inzuppate nel miele.

Nella via di intravedono molte insegne con le scritte Thai Massage e locali di dubbia liceità, con le solite insegne a neon, e per dare alla nostra gita un tocco di cultura visitiamo il Castello e un museo Etnografico tra storie di Gipsy e Terracotta antica, ci accoglie alla biglietteria, a mio parere, la stessa donna con maschera inespressiva color rosa antico dell’aeroporto, con uno spintone Clare mi distoglie dal mio fissare e ridendo ascolta la mia teoria complottista alla Asimov, dove il personale pubblico in questa città è sostituito da androidi.

Lasciamo il museo con una voglia di iscriverci ad un corso di ceramica e decidiamo di terminare il viaggio nella cultura del cibo, senza mostrare troppo entusiasmo per i piatti locali a base di carne, da vegetariane optiamo per un ristorante Vietnamita, rincuorata dal sorriso umano del gestore mi preparo già con le bacchette alla mano per assaporare il mio Pho, la fotografia in bianco e nero di una via è appesa di fronte a me, i petali della Bouganville sono l’unica cosa colorata “ è Hanoi, casa mia” dice l’uomo mentre ci porta il cibo, osserva la foto, e poi osserva la strada dalla vetrata. “Molto diverso da qui” gli risponde Clare “ma il suo cibo è perfetto, sembra di essere in Vietnam!” Ci ringrazia chinando il capo in avanti e unendo i palmi al petto.

La breve gita termina sotto la pioggia nella piazza delle Statue, da dove parte lo shuttle per l’aeroporto, con occhio attento monitoro il viso plastificato del controllore, anche in questo caso nessuna smorfia, sarà , ma per me questi Magyars nascondo qualche segreto, a proposito, saluti da Budapest.

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