Toglimi tutto ma non il mio pollo

Racconto di Federica Racioppi

“Ti ho mai raccontato di quella volta in cui per salvare la cena ho quasi perso la vita?”

Era una bellissima domenica di settembre e io vivevo da poche settimane a Dodoma con Sara, una sconosciuta entrata nella mia vita in punta di piedi ma con voce squillante.

Lavoravamo come caschi bianchi presso una NGO locale e implementavamo vari progetti sociali che mi rendevamo molto felice e appagata.

Non conoscevamo ancora molto bene la città ma sapevamo che a 400m da noi c’era un locale famoso per cucinare il pollo più buono della Tanzania e, dopo una giornata piuttosto stancante, godercelo sul divano di casa era l’unica cosa che desideravamo.

Ritorno con la mente a quel momento e riassaporo il sogno prima dell’incubo.

Ero lì dove volevo essere, la luna piena illuminava tutto, la mia quotidianità era piena di bambini, donne e semplicità. Ero grata e convinta che niente potesse andare storto.

“Fede che ne dici se andiamo a prendere il pollo di Calabash e lo mangiamo a casa?” mi chiede Sara già con il languorino in bocca. L’idea è allettante e lo stomaco inizia a brontolare. Sappiamo di non dover uscire la notte perché potrebbe essere pericoloso ma in fondo sono soltanto le 20. Cosa può mai succedere?

Mentre rientriamo a casa, ripenso a quante volte ho sognato questo momento, alle parole di mio padre quando gli ho detto che me ne sarei andata per un anno in Africa, all’orgoglio di mia madre quando mi ha vista mollare tutto per inseguire un mio sogno…

Sorrido ripensando al “Sei nata per volare in alto” del mio papà e poi vedo un motorino venirci incontro ondeggiando.

Noi, ancora ignare di quanto sarebbe successo da lì a poco, gli urliamo contro “Ao, ma ci hai viste?” ma è bastato un attimo a capire che non solo ci aveva viste ma stava cercando proprio noi.

Sono trascorsi solo pochi attimi ma sono sembrati interminabili: la luce che ci acceca, il ragazzo seduto dietro che salta giù dal motorino, il machete addosso a Sara e lei che crolla per terra.

Io non capisco più nulla ma so che siamo in pericolo. Che faccio? Sara è assalita dal terrore ma reagisce. Le sue urla rimbombano in tutto il quartiere, probabilmente in tutta l’Africa.

Urlo anche io, urliamo in italiano, gli urliamo addosso. Non ci interessa farci capire, vorremmo soltanto che qualcuno accorra a salvarci.

Io stringo forte a me il tanto desiderato pollo e mi fiondo su di lui. Sono incapace di trattenere la rabbia e la paura, sono un calderone in ebollizione che esplode con coraggio e incoscienza. Lui ha un machete, io ho il pollo: lo prendo a pugni.

Il mio atteggiamento lo innervosisce, si alza. Non faccio in tempo a pensare “Evvai, Sara è libera” che il machete è su di me. Lo sbatte sulla mia testa mentre io gli urlo addosso.

Penso che stia per finire tutto, rido istericamente capendo che dopo 3/4 colpi in testa ancora non sono morta.

“Sta per finire tutto così?”

Mi sembra tutto tragicomico e surreale. Nel dubbio noi continuiamo ad urlare. Lui mi blocca, afferra il mio telefono e scappa via.

“Sara, hanno preso il mio telefono!” lei si è toccata e ha capito che non avevamo più alcun mezzo per comunicare.

Corriamo a casa: sangue, vediamo tanto sangue.

Si precipita tutto il quartiere a casa nostra. Tra il guerriero masaai e la signora del negozietto all’angolo della strada, c’è Sidney, un giovane ragazzo con un bajaji( la versione africana dei tuktuk indiani ). Ci accompagna in ospedale, prova a tranquillizzarci, ci chiede scusa come se fosse colpa sua.

Io pensavo andasse peggio: siamo vive, siamo insieme.
Mi sento inarrestabile: avviso i miei genitori che va tutto bene, recupero la posizione del mio telefono tramite il collegamento con il telefono di Sabrina, affido Sara nelle sapienti mani di un dottore amico e vado con Francis e Fabiano dalla polizia.

Sono avvolta da mille emozioni. Sono arrabbiata ma resto positiva. Abbiamo localizzato i telefoni, adesso i poliziotti andranno a prenderli e domani sarà tutto finito.

“Subiri kidogo”, “Aspetta un po’ ” che poi diventa un altro po’ e poi si prolunga ancora.

“Tell me what happened” mi ha chiesto dopo soltanto mezz’ora Daniel, il poliziotto in turno quella notte. È giovane, sorridente e sembra sia l’unico che abbia voglia di ascoltarmi. Sembra interessato più a me che alla mia storia. Tremo, sono nervosa e voglio fumare.

Mi chiedono di aspettare. Lui mi scruta e prova a calmarmi, gli altri invece iniziano a giocare a carte. “Perchè stanno temporeggiando così spudoratamente? Cosa ci è appena successo?”

Rivivo nella mia mente tutto l’accaduto per almeno un milione di volte. Cerco dettagli e spiegazioni, trovo rabbia. “Perchè a noi? perchè così presto?” non riuscivo a farmene una ragione.

I poliziotti mi chiedono di salire in macchina e andare con loro a recuperare i telefoni.

“Si stanno prendendo gioco di me?”, chiedo a Francis preoccupata. “Mi vogliono consegnare ai ladri e far sparire così?”

Mille brutti pensieri affiorano la mia mente mentre Francis bisbigliando mi confessa che i poliziotti hanno bisogno di me perché loro non hanno idea di come funzioni il GPS. “Vengo anche io con te” dice Fabiano provando a consolarmi mentre io ho gli occhi sbarrati su tutte le armi che i poliziotti stanno indossando.

Sto per avere un attacco di panico, sento il cuore che pulsa forte. “Chissà come sta Sara, chissà come sta andando in ospedale, chissà cosa le passa per la mente. Riusciremo a superare tutto ciò?”

Guardo fuori dal finestrino, cercando di comprendere meglio ciò che mi circonda, dove sono e dove sto andando. È tutto buio: c’è una prostituta sulla destra e qualche drogato a bordo strada.

“Federica, respira” continuo a ripetermi ma ormai la tachicardia si è impossessata di me e mi sembra sempre più impossibile stare calma. Nel covo dei ladri, i poliziotti fanno avanti e indietro alla ricerca della giusta direzione e io resto in macchina da sola con tutto ciò che mi resta: il pollo.

Un motorino si avvicina a noi, rallenta, ci osserva e poi accelerando va via.

Dopo qualche minuto, inizio a sentire i rombi di diversi motorini. “Ma quanti sono?”
Sono in 7, mi hanno accerchiata. Mi incappuccio e abbasso la testa provando a non farmi riconoscere. Loro sgommano via e i poliziotti tornano alla macchina. “Go out, we need you”.

Tra fili spinati, buio pesto e tende che si muovono creando un gioco di luci terrificante li accompagno davanti la casa segnalata da iPhone. Inciampo, mi faccio male, mi sembra un incubo.

Non mi interessa più recuperare il telefono. Vorrei solo tornare a casa, sono sfinita.

Sento delle urla, “Ma quanto urla?” le urla si fanno più vicine e le lacrime ricominciano a sgorgare dai miei occhi.

Vorrei vomitare. Lo sento implorare qualcosa che non capisco. I poliziotti chiedono a Francis di aprire il cofano. “Ma stiamo scherzando?” Francis obbesisce. Fanno salire il presunto ladro e adesso in macchina siamo io e lui.

Daniel mi dice che dei nostri telefoni non c’è traccia ma mi promette che avrebbe continuato a cercarli. “Ma allora questo in macchina chi è?”

Basta domande, recuperiamo Sara in ospedale e torniamo a casa.

Le hanno messo 6 punti, è stata fortunata.

Sono le 4 del mattino. “Meno male che abbiamo richiesto l’asporto per tornare presto a casa” Ridiamo, fumo, ripensiamo a quello che è successo e a quello che sarebbe potuto succedere.

Mangiamo finalmente il pollo tanto atteso, fumo ancora.

Ci abbracciamo, chiudiamo la porta a chiave e dormiamo insieme. Chiudiamo gli occhi, domani andrà meglio.

“Quel che ieri è stato disavventura, oggi è storia. Sono felice che tu sia qui a raccontarla. Ma toglimi una curiosità: ancora mangi pollo?”

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