Gibellina, il sogno mancato

La Stella del Belìce, Pietro Consagra

Seduta al Momo Cafè di Gibellina. Un sole d’ottobre con ancora il vigore dell’estate. Osservo il movimento colorato della cittadina immersa nella campagna del Belìce. Artisti al lavoro negli studi, vociare di giovani, visitatori che bisbocciano nei numerosi locali e localini, negozietti di artigiani e cooperative biologiche. Una città rinata dalle macerie del terremoto del 1968 grazie al potere e alla bellezza dell’arte.

Nessuno poteva immaginare che il sogno sarebbe stato disatteso.

La storia di Gibellina Nuova inizia all’indomani del terremoto che, nella notte fra il 14 e il 15 gennaio 1968, scuote la valle del Belìce, radendo al suolo i borghi antichi. Gibellina è nell’epicentro. Il senatore Ludovico Corrao, uomo colto e sensibile, legato alla sua terra e agli ultimi, all’indomani del terremoto cerca l’occasione per rilanciare uno dei territori più poveri e dimenticati d’Italia. Eletto nel 1970 sindaco di una Gibellina che non esisteva più, lancia un appello agli artisti, corregionali e no, per portare avanti un sogno visionario in cui l’arte possa essere l’ancora salvifica contro la morte. Immagina una città ideale che diventi luogo di raccolta di artisti, magnete per amanti della cultura, scuola aperta. In molti rispondono all’appello e donano le opere che vengono materialmente realizzate dai cittadini. Contadini e pastori si convertono in operai edili, scalpellini, maiolicari, per realizzare il sogno di una collettività.

Il Sistema delle Piazze

Di Gibellina mi parla la simpatica guida che incontro sul porticciolo di Mozia. Capelli neri corvini, berretto in testa, trascorsi di attrice, un amore viscerale per il suo territorio, che mi porta in giro recitando versi di poeti siciliani. La inserisco subito fra le tappe di un periplo della Sicilia alla ricerca di luoghi insoliti. E già per raggiungerla Gibellina è insolita: Google Maps mi guida per strade secondarie, in mezzo a riquadri bruni di terra disossata e verdi argentei di ulivi. Mi ritrovo in uno sterrato inseguita da cani. In qualche modo riesco ad arrivare. “ È crollata una strada ma Google non ha corretto il percorso” mi dirà poi Nino, il giovane proprietario del Moma cafè. Arrivo in città dall’alto, passato il cimitero, davanti al nuovo museo d’arte moderna. Il Mac è una vera sorpresa per il numero e l’importanza delle opere esposte. “Peccato che stiamo smontando la mostra di Mimmo Jodice e non si possa vedere” mi dice la gentile custode, fiera di tanta bellezza. Parliamo della struttura della città e delle opere “en plain air” disseminate in giro. Mi fornisce una mappa dettagliata. “Il cimitero l’ ho notato. Ci sono passata davanti” commento distrattamente, mentre sfoglio l’ opuscolo. “ Ma noi i nostri morti non ce l’ abbiamo lì. Noi andiamo al vecchio, di cimitero”, mi risponde. Le prime opere le vedo uscendo. Monumentali, si innalzano fra le case a schiera tinteggiate di colori pastello. Spicca la Chiesa Madre, chiusa in un abbraccio, con la grande sfera bianca al centro della gradinata circolare. Intorno è deserto di uomini e mezzi, un silenzio quasi assoluto permea l’aria, il sole abbagliante. Camminando non vedo negozi. Scendendo una scalinata arrivo al Sistema delle Piazze, un complesso di spiazzi e portici che la solitudine rende metafisico, come un quadro di De Chirico. Continuo in discesa fino alla Piazza del Comune, con la teoria bianca de La Città di Tebe di Pietro Consagra e L’aratro di Didone di Giò Pomodoro. In fondo, sull’autostrada, la Stella d’ingresso al Belìce, il doppio arco a cinque rombi di Pietro Consagra. Oltre 50 opere, un immenso museo a cielo aperto. Eppure annoto i segni tangibili della decadenza, il cemento che si sgretola, il ferro che fa ruggine, i muri che cedono.

La città di Tebe, Pietro Consagra

Il Momo Cafè sembra essere l’unica attività in giro. Esprimo a Nino le mie perplessità “ C’è poca gente qui. Quanti abitanti siete? Non vedo negozi, punti d’incontro…” “Che vuoi. Siamo 4000 abitanti, ma molti sono al nord per lavoro o studio e li vediamo solo per le ferie. E gli altri , la mattina, lavorano nei campi. I ragazzi sono a scuola e così qui è tutto vuoto. Bisogna aspettare verso sera. Il mio locale si riempie, è l’unico del circondario” “Ma vedo tante case. Molte sembrano disabitate, in decadenza” “ Gli alloggi erano stati pensati per ospitare non solo la popolazione ma anche gli artisti e i loro laboratori, studenti, turisti . Ma, come vedi, non è accaduto”. Mi guardo intorno e non trovo elementi capaci di infrangere la cristallizzazione museale dei luoghi.

La Chiesa Madre

Mi chiedo se il sogno oggi non abbia mancato l’obiettivo.

Prima di allontanarmi vado alla ricerca del Cretto di Burri, lì dove c’era Gibellina, a 18 km dalla Nuova. Passo davanti al vecchio cimitero, quello dove “ci sono i nostri morti”. Mi chiedo se il paese non abbia perso qui la sua anima. Dopo una curva una macchia bianca, abbacinante al sole, si stacca dai bruni e dai verdi degli appezzamenti lavorati. L’opera di Burri è realizzata incorporando nel cemento le macerie dell’antico borgo, a ripercorrere abitazioni e strade. Un intarsio di blocchi di cemento bianco intersecati da stretti passaggi, arroccato sulla collina. Un cimitero antico, con i tumuli senza nome, senza fiori. Il silenzio è intimo, isolato dal frinire delle cicale e dal richiamo degli uccelli.

Il Cretto di Burri, Gibellina vecchia

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