In coda verso Lidice

Racconto di Lorenzo Calvetti

L’autobus bianco, rosso e blu con l’insegna “Kladno” deve ancora avvicinarsi alla pensilina numero 1 della stazione di Nadrazi Veleslavin che le poche persone con noi in attesa (perlopiù giovani studenti e massaie con piccole sportine di stoffa in mano) si mettono silenziosamente in coda lungo il marciapiede. Seguiamo anche noi diligentemente questo rituale quasi intimoriti dal non rispettare il preciso ordine di arrivo che tutti qui sembrano aver scrupolosamente memorizzato. Stiamo andiamo a Lidice, un minuscolo villaggio a pochi chilometri a nord-ovest di Praga. Vogliamo andare a vedere dove la sera del 10 giugno 1942 l’esercito nazista sfogò la sua ira vendicativa come rappresaglia per l’assassinio del Reichsprotektor Reinhard Heydreich. Sono gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Con la conferenza di Monaco del 1939 la giovane repubblica cecoslovacca si è dissolta, ufficialmente inglobata nel Terzo Reich come protettorato di Boemia e Moravia. Prima a Parigi e poi a Londra sopravvive un simbolico governo in esilio presieduto dal dimissionario presidente della Prima Repubblica Cecoslovacca, Edvard Benes. A Praga Adolf Hitler nella primavera del 1941 ha inviato come governatore del protettorato Reinhard Heydrich, il terzo in grado nella gerarchia nazista. Heydrich assolve il compito di governatore con ferocia, mettendo in atto sanguinose repressioni per annientare la resistenza ceca e rendere finalmente efficiente ai fini bellici tedeschi il sistema industriale della Boemia-Moravia. Come reazione, il governo cecoslovacco esiliato a Londra prende la decisione di inviare un’unità di paracadutisti per provare a compiere un’azione clamorosa ed esplicitare al mondo libero la vitalità della nazione e la scelta di campo antinazista.

E così il 27 maggio 1942 Jozef Gabcik e Jan Kubis feriscono mortalmente Heydrich mentre viaggia sfrontatamente senza scorta e a vettura scoperta dalla sua residenza di Panenske Brezany, fuori città, al Prazsky Hrad, il castello sulla collina di Praga, sede del governo nazista. Nei giorni successivi alla morte, il 4 giugno, la Gestapo scatena in tutta la regione una violenta caccia all’uomo che almeno inizialmente sembra a non portare a nulla. I paracadutisti sono infatti al sicuro, rifugiati grazie al sostegno della tutt’altro che dissolta resistenza ceca nella cripta sotto la chiesa dei Santi Cirillo e Metodio, tra le tombe dei monaci. Verranno stanati solo il 18 giugno per il tardivo tradimento di Karel Curda, un membro secondario di quell’armata venuta da Londra che in cambio dei 5 milioni di corone ceche offerti come taglia per la cattura dei responsabili dell’attentato il 16 giugno entra a palazzo Petschek, il quartier generale della Gestapo, per spifferare nomi e luoghi della resistenza.

Nel frattempo Lidice finisce insensatamente per essere la vittima sacrificale. Una banale per quanto criptica lettera d’amore indirizzata a Anna Maruscakova, una giovane e bella operaia di Slany, cittadina industriale anch’essa poco a nord di Praga, viene intercettata dal direttore della fabbrica Palaba dove lei lavora e porta le indagini della polizia locale su una pista palesemente falsa che però conduce all’accusa di complicità con l’attentato alcuni ignari cittadini del vicino villaggio di Lidice. Nella tarda sera del 9 giugno 1942 il silenzio della piccola borgata che si sta addormentando viene rotto dalle urla tedesche. Uomini con l’uniforme della Schutzpolizei venuti apposta da Halle an der Saale, la città natale di Heydrich, circondano le case. Gli abitanti sono strappati al sonno con violenza. I 173 uomini vengono radunati in una fattoria e subito uccisi a turno, a gruppi di 10, fino al mattino. Le 198 donne vengono separate dai propri figli e inviate nei campi di concentramento polacchi. I bambini sono condotti al campo di sterminio di Chelmno. Solo i 17 (dei 99 totali) giudicati idonei alla germanizzazione verranno salvati e adottati da famiglie tedesche. Su tutta la zona, chiusa da un filo spinato, verrà cosparso del sale sul terreno e il nome Lidice scomparirà dalle mappe geografiche ufficiali.

Il nostro viaggio in autobus è breve e silenzioso. Si esce rapidamente dalla periferia della città in direzione nord-ovest, oltre l’aeroporto Vaclav Havel, per raggiungere in pochi minuti una sterminata campagna verdeggiante. La fermata è all’incrocio di due rettilinei che si perdono nell’orizzonte della campagna, la statale 61 per Kladno e la piccola strada per Bustehrad. Siamo gli unici a scendere. Percorriamo a piedi il breve tragitto della deviazione che porta all’ingresso del villaggio di oggi, ricostruito alla fine della guerra vicino a dove sorgeva la vecchia Lidice. Entriamo sulla 10 cervna 1942 (10 giugno 1942), l’arteria principale del villaggio, un lungo viale alberato ai cui lati sorgono piccole ma ordinate casupole di mattoni. Non vediamo nessuno. Percorriamo tutto il viale seguendo l’unica insegna che conduce alla Lidicka Galerie, un grande edificio giallo in stile neoclassico costruito negli anni 50 per essere la kulturni dum del villaggio (la versione locale delle sovietiche “case della cultura”). Oggi ospita da maggio a ottobre esposizioni d’arte locale. Vediamo un’unica porta aperta sulla piccola palazzina alla destra dell’edificio principale. Conduce nell’unico bar ristorante. Dietro al bancone ci accoglie, sorpresa, una giovane barista. Parla solo in ceco. È ora di pranzo e a gesti ci accordiamo per sederci vicino all’unico tavolo occupato da 4 anziani del posto che se ne stanno in silenzio davanti agli immancabili boccali di Pilsner Urquell. Ce la caviamo grazie al minuscolo glossario della piccola Lonely Planet che abbiamo con noi riuscendo alla fine a ordinare un piatto di formaggio fritto e un’insalata di rape rosse. Dopo pranzo ripercorriamo il viale alberato per raggiungere all’altro capo del villaggio il memoriale dedicato alle vittime di questa vicenda, in apparenza un banale parco verdissimo costruito. Qui dove sorgeva la vecchia Lidice. Camminando sulle ceneri del villaggio di allora raggiungiamo in mezzo a un piccolo bosco il monumento dedicato ai bambini. Raffigura le 82 giovane vittime dell’eccidio i cui occhi fissano smarriti lo spazio davanti, oggi vuoto ma un tempo occupato dalle loro case. La porta per il museo si apre sul cortile del complesso principale poco sopra il parco. All’interno sorprendiamo le due impiegate mentre pranzano con una ciotola di minestra portata da casa sul tavolo della piccola biglietteria. A malavoglia, pagato il biglietto di ingresso, ci fanno segno di entrare nella stanza accanto. La prima cosa che vediamo è una grande scritta sul muro, “A nevinni byli vinni” (E gli innocenti divennero colpevoli). Anche qui siamo soli, dentro un’enorme stanzone buio in cui il villaggio ricostruito è inondato da suoni e immagini (fotografie e proiezioni) che raccontano la tragedia di quei giorni. Ci colpisce più di tutto il video trasmesso a ciclo continuo su un vecchio televisore a tubo catodico che riproduce le interviste delle madri sopravvissute mentre raccontano i tragici momenti della separazione forzata dai propri figli.

È una madre che spinge una carrozzina anche l’unico incontro che facciamo sulla strada di ritorno uscendo dal parco per raggiungere la fermata dell’autobus che ci riporta a Praga.

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