Io sono Fumegai

Sento dei passi sul selciato. Qualcuno si avvicina con le sue scarpe da trekking e la Reflex pronta a cogliere i dettagli di questa vecchia casa. Io so cosa cercano tutti loro, gli avventurieri. L’attenzione di un momento, la dimostrazione della propria abilità nell’ aver visto un luogo insolito, unico nel suo genere. Ma Fumegai è molto più di un semplice insieme di case abbandonate; è un mosaico di vite, di sogni, di storie mai raccontate e non del tutto dimenticate.

C’è ancora la moka da due tazze sul fornello. La ciotola del latte e un canovaccio a righe bianche e azzurre. Il ragazzo con la Reflex entra in cucina e inizia a far ticchettare l’otturatore della macchina fotografica. Poi scrive su un taccuino, annotando tutto ciò che vede entrando in casa. È così che io prendo vita. Chissà se, salendo dalla vecchia mulattiera costellata di lastre di pietra si è fermato a sentire la natura che mi avvolge. Quando l’ultimo pastore ha riportato su le capre dopo il pascolo, il ticchettio costante del suo bastone sul selciato e le sue ginocchia doloranti hanno rimarcato un’ultima volta la fatica di una vecchia mulattiera tutt’altro che dritta. Io mi presento così. Dal basso mi annuncio con un logoro cartello e un piccolo pozzo in pietra. E silenzi e natura.

È un giorno d’autunno e quel ragazzo con la Reflex ha appena varcato il confine invisibile che separa Fumegai dal resto del mondo. Lui è qui per catturare le vestigia di un tempo che non è il suo. Avrà lasciato la sua auto alla periferia del borgo, vicino al ponte sospeso della Vittoria, e ora si aggira tra le mie strade silenziose. Le case qui, con le porte spalancate, sembrano voler attendere il ritorno degli abitanti che hanno promesso di tornare.

Quando c’erano le famiglie nel borgo si respirava un’aria di comunità. I bambini si alzavano all’alba per raggiungere la scuola più vicina a valle. Le campane del Paese lontano riecheggiavano fin qui, scandendo le ore del lavoro e quelle del risposo. I muretti a secco erano un intimo luogo di incontri, di scambi semplici, di poche parole. Oggi anche lì la natura si riappropria dei suoi spazi violati, adornando le pietre con la sua edera e le graminacee infestanti. Il ragazzo va di casa in casa, fotografando i materassi impilati e i cuscini sgualciti. Alcune di queste abitazioni sono state elette a dimora qualche tempo fa, da un gruppo di figli dei fiori che sono venuti a Fumegai con le più rosee aspettative di contatto con la natura. Per qualche tempo l’eco delle loro risa e i canti serali mi hanno fatto rivivere momenti lontani, riportando alla mia mente il ricordo delle famiglie del borgo e dei loro piccoli riti quotidiani. Nella cucina della casa più a monte c’è ancora una giacca appesa alla parete, sgualcita, a tratti consunta da polvere e unto. Damigiane verdi, corde e cestini in vimini adornano la base del camino. Le donne e gli uomini vivevano in perenne contatto con il focolare, cercando conforto dal gelo esterno, a contatto con la fuliggine che si insinuava nelle pieghe dei loro volti. Ecco da dove nasce il mio nome. Fumegai, gli affumicati.

Da quel lontano giorno d’inverno, quando la diga ha isolato la comunità, nessuno è più salito a vivere fin quassù. Era il 1954 e il torrente a valle si è trasformato in un grande bacino artificiale delimitato dalle alte pareti rocciose circostanti. La bella valle agricola sottostante è stata sommersa insieme alla piccola frazione e ai campi circostanti.

La neve di dicembre aveva contribuito a isolare ancora una volta il borgo e l’unica famiglia di pastori rimasta era scesa a vivere nella valle dopo aver terminato le scorte di cibo.

Quel giorno ha messo fine per la prima volta alla mia storia. Ogni luogo, si sa è un luogo provvisorio per tutti. E io non faccio eccezione.

Guardo quel ragazzo aggirarsi negli anfratti dei giardini, entrare nel vecchio pollaio a fotografare i trespoli. Sento i suoi passi calpestare la nostra storia. Le voci di coloro che hanno animato questo luogo sono ancora qui. La scansione dei giorni non è la stessa che percepisco io. È lui il fantasma qui.

La polvere, sedimentata e presente ovunque, ha ridisegnato i bordi di tutte le superfici. I brandelli delle tende strappate via dal vento raccontano di serate davanti al camino, con il freddo che sale dalla valle e impregna le ossa stanche.

Ogni luogo ha una sua storia. Io rivelo il mio passato attraverso le pietre silenti e gli oggetti abbandonati. Vedo il ragazzo rovistare tra i vecchi ritagli di giornale sul tavolo di un vecchio salotto. Raccontano di anni della dolce vita e di pettegolezzi di un mondo lontano da qui.

La luce, intanto, filtra indisturbata e illumina vecchie sedie di vimini e bicchieri di vetro ingrigiti. Fuori, nel tepore di questo mattino, odo lo scalpiccio lontano del gregge e i suoi belati profondi. Il sabato e la domenica tutti si dedicavano alla raccolta del fieno e alla mungitura. D’estate poi mi animavo di suoni e di una quotidianità scandita dai ritmi del pascolo e dalle risate dei bambini che, non recandosi a valle per la scuola, accompagnavano i pastori correndo dietro al gregge con bastoncini di legno a mo’ di bastone.

Il ragazzo con la Reflex si guarda intorno, cercando di scovare altri anfratti da immortalare, ma scova soltanto le vecchie latrine esterne e l’abbeveratoio in pietra accanto al pollaio. Si avvia verso la mulattiera voltandomi le spalle e io torno ai miei silenzi. Ancora una volta la scansione delle ore si dilata e io mi accingo a ridimensionare i miei spazi. Ormai queste pietre rivivono solo qualche giorno all’anno, quando un pellegrino vi posa sopra gli occhi. Il respiro della terra e l’anima delle case prendono vita insieme a me, vestendosi dei loro ricordi migliori. Il mio degrado ispira in qualche modo i loro sogni di libertà e smorza la costante corsa contro il tempo in cui si imbattono nella loro vita quotidiana. Ispiro storie mentre torno a rivivere per qualche istante. Inquietante e incantevole insieme. Sono consumato dall’incuria e dal tempo. Io sono Fumegai.

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