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Racconto di Davide Fivizzani

“Mi chiamo Davide, scusi il disturbo, questo sono le mie figlie, ci inviterebbe a pranzo?”

Lei scoppia in una risata incredula e guardandoci come fossimo alieni torna dentro senza salutare.

“incredibile! esclama Sophia, non si trattano cosi delle bambine, un piatto di pasta non si nega a nessuno”.

Tutto ha inizio da un profumo che si leva a mezzogiorno da una finestra di un qualche paesello, durante un certo viaggio di ciascuno di noi.

Arriva e ti sorprende, all’apice della fame, come un incantesimo ammaliatore,.

Un’onda invisibile d’aromi ti avvolge e ti attrae, una scia di fragranze, impalpabile fluido tentatore di golosità,.

Vorresti seguirlo a ritroso, ti immagini alla tavola del suo sconosciuto creatore, e pensi :

“adesso suono al citofono e mi imbuco per pranzo, altro che trattoria!”

Ma prosegui la tua ricerca del miglior ristorante recensito e abbandoni l’idea di scovare l’artefice di quel pranzo immaginario che nel frattempo perde nel vento i suoi profumi.

Ma oggi, su questo treno che porta a Sud prende vita un viaggio unico nel suo genere.

La missione: riuscire nell’impresa farsi invitare a pranzo da sconosciuti alla ricerca dei profumi delle cucine d’Italia, varcare la soglia dell’intimità famigliare, essere accolti dal calore della gente che ci ospiterà più che dal cibo che ci verrà offerto.

Quale migliore occasione per un piccolo esperimento sociale, vestire i panni del viandante per misurare il grado di fiducia e accoglienza di chi si incontra sul cammino.

Il tema del cibo ha un ruolo importante; il bisogno primario di sfamarsi rende l’essere umano sensibili e propenso all’aiuto verso il prossimo, in ogni cultura e in ogni epoca.

Senza contare lo sconfinato scenario di opportunità ed esperienze che si presentano per il solo fatto di condividere il pasto con persone sconosciute.

Tra un boccone e l’altro si intrecciano rapporti, si ascolta, si conosce e spesso ci si ravvede.

L’ empatia si genera con un piccolo gesto di fiducia incondizionata, di comprensione, di accoglienza.

Il treno si muove, il ripasso del programma è stato fatto nei minimi dettagli, ognuno conosce i propri compiti alla perfezione: chi alle foto, chi alle riprese, chi nel supporto o nella presentazione del progetto. Alla fine siamo solo in quattro, e in un certo senso professionisti della comunicazione, penso tra me e me, sorridendo mentre la stazione fuori prende a scorrere all’indietro.

Sophia mi sfiora il braccio: papà, tocca a te! pesca una carta o buttane giù una. Stiamo giocando a “Uno”, ricordi le regole?

  • Perfettamente, dico io, mentre scruto Aurora davanti a me che già pensa a come rifilarmi quattro carte per il solo gusto di battermi.

Mi guarda con quei suoi occhi grandi e quel suo visino sempre allerta. Mi domando cosa pensi di ciò che stiamo per fare.

Ha 9 anni, è la più piccola ed è già eccitata all’idea di scorrazzare per una città suonando campanelli in cerca di un pranzo e nuove amicizie.

Pepi invece è ancora assonnata e se ne sta accovacciata sul sedile, il cappellino abbassato sugli occhi scrutando le carte. Mi chiede:

-sei proprio sicuro di volerlo fare? E se nessuno ci inviterà? sai che i pisani odiano gli spezzini.

-tu cosa ne pensi? faccio io

-che moriremo di fame, e scoppiamo a ridere.

Pepi è l’amichetta di Sophia, 12 anni vissuti mille volte, un copricapo a proteggere i postumi di un mostro sconfitto, sopra un folto manto di capelli biondi in ricrescita.

Nonostante i brillanti nuovi germogli che le donano l’aspetto di piccola canaglia lo toglie raramente, come a tenere solo per se la sua nuova vita, perchè non le scivoli via. Incontro i suoi occhi azzurri tra i cambi di carte.

Mi sento ottimista ma molto agitato; sarà stata una buona idea portarle con me? Farò un buco nell’acqua?

A Pisa arriviamo in un mezzogiorno di fuoco, la primavera è esplosa all’improvviso, le piccole si incamminano impigrite, nei loro zainetti dei taralli e una bottiglietta d’acqua, nella loro testa chissà cosa.

Il primo citofono non si scorda mai! Il bello dei centri storici è che dopo lo squillo la gente si affaccia, e la signora Anna, subito stupita dalla mia domanda bizzarra, si incuriosisce e saliamo da lei; con tre bambine al seguito, la mia barba lasciata appositamente incolta fa sicuramente meno paura. Lungo la via vanno e vengono gruppetti di turisti mentre alcune persone del posto lanciano occhiate interrogative.

Anna è ospitale, per nulla intimorita, con lei parlo di fiducia, tolleranza, di cibo e di accoglienza. Il marito è malato e purtroppo hanno già terminato di pranzare; ci saluta con rammarico.

Penso che il primo tentativo poteva essere vincente!

I profumi provenienti dalle case sono coperti dalle cucine dei ristoranti turistici, ma le bambine ora sono motivate e continuiamo a cercare. La loro gioia è già un successo e ad ogni campanello troviamo nuove persone di ogni genere e età che ci accolgono senza timore. Malgrado ciò, complice l’orario, nessuno ci ci invita.

Aldo è un signore anziano che ci fa accomodare nella sua corte interna poco lontano dalla torre. A lui chiedo:

“Non avrebbe timore di ospitare a casa un barbuto mai visto prima che le chiede un po’ di cibo?”

come potrei avere paura”, risponde indicando le bambine;

Facile in effetti, penso io.

Ho lasciato la mia barba volutamente selvaggia per aumentare la difficoltà dell’impresa, ma sembra non essere quel grande ostacolo.

Insiste per preparare di fretta un secondo pranzo, avendo anche lui terminato da tempo, ma a noi basta il suo gesto premuroso e decliniamo l’invito. Non lo disturbiamo oltre e ripartiamo.

Chiunque ci accoglie curioso, e chi non lo fa lo troviamo a sbirciare mentre ci allontaniamo cercando l’ombra di un tetto basso, domandandosi di certo che razza di idea fosse la nostra.

Dal Signor Panzelli D., dietro Via Contessa Matilde rischiamo di essere invitati subito, ma anche lui è quasi alla fine del pranzo, per giunta con ospiti e, per quanto incuriosito, si congratula per l’iniziativa ma ci lascia con un augurio, e lo stomaco vuoto.

Poi ci guarda con tutta la famiglia da dietro la tenda del salotto mentre le bambine suonano a Panzanelli A. e R.

Aurora inizia a dare segni di cedimento quando anche il Signor Neri, affacciandosi alla finestra in pigiama, ridendo si scusa dicendo di aver mangiato un panino;

“la mi moglie’ l’è fori e so solo in casa! Mi garba l’idea.”

Un ragazzo sorride e fa il tifo per noi, e malgrado tutta la stima che ci dimostra pronostica il mio inesorabile dimagrimento prima della fine del progetto.

Un anziano che si sporge alla finestra di un primo piano intona in modo inequivocabile:

la vedo dura!!!”

Un’idea d’altri tempi, dice dopo poco la Signora Maria da un balcone in una viuzza alle spalle di Piazza dei Miracoli.

Con lei e con chiunque ci apre pur senza successo la porta di casa si parla del bisogno che abbiamo di ritrovarci, anche tra sconosciuti, magari intorno ad un tavolo come vorrei fare io.

“Papà, che ne dici di un bel panino con la porchetta?” Mi chiede Sophia.

Tieni duro un altro po’, abbiamo sempre i pasticcini che abbiamo comprato, se proprio non troviamo nessuno mangeremo quelli” rispondo titubante. Non mi alletta l’idea di pranzare con bignè e sfogliatelle.

Pepi si siede sconsolata su uno scalino, è accaldata e sta scrivendo qualcosa sul telefonino.

Hai fame tesoro?” Le chiedo preoccupato,

“Scrivi alla mamma?”

“ alla nonna” risponde “ le ho raccontato cosa stiamo facendo, e si ho una fame tremenda”

Mi chiedo cosa penserà la nonna, mi aspetto di tutto, e inizio anch’io a sentire la fame. Dal furgone dei panini arriva un profumo di griglia e porchetta, che noi aiuta.

Mi chino su di lei e le sorrido.

“questa è la cosa più strampalata che hai fatto con noi, cosa ne pensi finora?”

“ che è strano, ma è bello, io mi inviterei subito.” Rido e cado col culo per terra, mentre Aurora ci chiama. Ha suonato da sola e qualcuno le ha appena aperto, la sento che parla col naso schiacciato al campanello mentre un viso di donna si sporge dal primo piano.

“Mi chiamo Davide, scusi il disturbo, questo sono le mie bambine, ci inviterebbe a pranzo?”

Scoppia in una risata incredula e guardandoci come fossimo alieni torna dentro senza salutare.

“incredibile! esclama Sophia, non si trattano cosi delle bambine, un piatto di pasta non si nega a nessuno”.

Mi volto e la guardo tra stupore e una punta di orgoglio. Le sue parole tuonano nella mia testa e su tutta la strada. Il fatto che una bambina generi un pensiero così profondo mi colma di speranza. Un pensiero semplice ma con una forza intellettiva enorme, per nulla scontato come si potrebbe pensare.

Le sue parole, e gli sguardi di intesa delle altre due mi bastano per decretare la fine dell’esperimento, almeno per oggi; dopo tutto si sono fatte le 15 e rimane poco da sperare per un pranzo. Dalle case non giunge più il profumo di cibo ma il rumore di piatti a lavare, una folla di turisti nella piazza e nei locali.

Sdraiati sul prato sbraniamo dolcetti e taralli mentre diamo il nostro contributo fotografico nel reggere la torre e nel cielo corrono nuvole bianche.

“La nonna ha detto che siamo matti, ma che lei ci inviterebbe subito”

Ridiamo e ci sentiamo soddisfatti, e per oggi non ho più fame.

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