È meglio fare la storia che scriverla

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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5 min readJun 20, 2016

Per carità, non vogliamo ergerci a giudici, perché tutti pensavamo che sarebbe finita presto. Ma in momenti come questo, di fronte alla storia che si compie, ci tocca citare chi ha notevolmente contributo al racconto del Beautiful Game in questi ultimi anni come Bill Simmons.

Dopo gara-1, proprio Simmons su The Ringer — la nuova testata dopo la chiusura di Grantland da parte della ESPN — si è concentrato sulla possibile dipartita di Kevin Durant da Oklahoma in seguito alla sconfitta nella finale di Western Conference contro i Warriors. Nel mezzo, Simmons butta lì qualche nefasta considerazione sulle Finals:

«Gradualmente sono tornato a Durant, solo perché il suo futuro è più interessante dello scontro nelle Finals (scusami, Cleveland)».

«Kevin Durant deve capire se la risicata sconfitta di Oklahoma City (nelle Western Conference finals, ndr) è stata un caso… o qualcosa di più infausto. Ha quattro settimane. E mi dispiace dirlo, ma quelle quattro settimane saranno probabilmente più drammatiche delle NBA Finals 2016».

Se da una parte questo fa capire quanto tutti ci siamo sbagliati sull’esito di questa sfida lunga sette gare (tanto da interessarsi più al futuro di Durant che al presente), dall’altra emerge con forza l’impresa compiuta dai Cavs, unico team nella storia delle NBA Finals capace di ribaltare un deficit di 3–1. GLI UNICI.

Premessa: non tifo Cleveland e non tifo Golden State. Non tifo Lebron, né tantomeno Steph. Ma tifo il basket, nella sua massima espressione. E tutto ciò che scrivo potrà essere usato contro di me. «Lo giuro».

Leggerete da qualsiasi parte che Cleveland è stata la prima squadra nella storia a rimontare da 1–3, che questo titolo alla città di Cleveland arriva dopo 52 anni, che i Cavs hanno vinto il loro primo titolo della storia, che sono stati la quarta squadra della storia del giochino a vincere gara-7 in trasferta, e chi più ne ha più ne metta.

Sapete che c’è? Ma chi se ne frega, anzi ma chissenefrega!

Ognuno di noi, amante del gioco più bello del mondo, si è goduto il livello più alto di questo sport lungo sette gare assurdamente meravigliose, per cui parlare di statistiche, di record, ridurre il tutto ad un’elencazione, o peggio ancora, di una somma di numeri, personalmente lo ritengo una perdita di tempo e di significato.

Partiamo dai fatti: a 1:08 dalla fine questa serie era 699–699. Nonostante i +20, i -15 o i +33, la serie a poco più di un minuto dalla fine era pari in tutto e per tutto. Già questo dovrebbe far capire, in parte, di cosa stiamo parlando: di una onesta quanto selvaggia lotta ad armi pari fino all’ultimo minuto.

Un altro tiro che si meriterà il soprannome di “The Shot”.

Poi, arriva Kyrie, in punta, contro Curry, palleggio in mezzo alle gambe mano sinistra-mano destra, poi ancora destra-sinistra e di nuovo sottogamba da dietro a davanti, riportando la palla sulla mano destra, da cui fa partire un palleggio con step-back sul piede destro e BANG (citando tutti quelli che su quel canestro hanno urlato questa parola…)!

Uno squarcio: 92–89 a 53 secondi dalla fine. Erano quattro minuti che nessuno segnava e la partita è rimasta su quell’89–89 (o se volete 699–699) che nessuno sembrava volesse ritoccare. E invece, no, Irving ha voluto firmare, a modo suo, il “Larry O’Brien Trophy”, che ha legittimato con prove fantascientifiche, come quella di gara-5.

Come una firma pesante in questa gara-7 è stata messa da JR Smith, che ad inizio terzo quarto ha ricucito — da solo! — una leggera spallata dei Warriors, capaci di mettere 8 punti di distanza sugli avversari. Il buon JR, allora, in quel frangente, ha pensato bene di risvegliarsi dal letargo di un primo tempo evanescente e ha piazzato due triple consecutive per i Cavs, chiaramente determinanti per l’esito della partita e della serie.

E poi, ok, nominiamolo. Credo che ciascuno di noi, amante del gioco più bello del mondo, debba ringraziare la propria mamma e il proprio papà, perché hanno avuto la folgorante idea di farci vivere l’epoca in cui Lebron James ha dominato la National Basketball Association. Sì, perché di dominio si tratta. Dominio mentale, fisico, tecnico, emozionale, atletico e iconografico.

E questo a prescindere da questa gara-7, che non fa altro che farlo entrare “di più” nella storia, nella leggenda. Ma lui ne faceva già parte, con tutti e due i piedi. Questa vittoria era più un suo bisogno personale, piuttosto che una dimostrazione di superiorità sul mondo degli umani. Lo si è visto dal modo in cui ha gioito: un pianto liberatorio di cui, giustamente, non si è vergognato neanche un po’.

Lo si è visto dal diverso modo di alzare il Larry O’Brien Trophy rispetto al Bill Russell NBA Finals MVP Award. Era assolutamente privo di interesse nell’essere stato per la quarta volta in carriera il miglior giocatore delle finali: voleva “solo” portare a Cleveland il titolo.

E l’ha fatto. Giocando, a parer mio, le finali al livello più alto e completo della sua carriera. Di nuovo, non mi interessa l’ennesima tripla doppia in finale (uno degli unici tre giocatori a farla in gara-7) o i 41 di gara-5 e gara-6.

È stato il completo controllo sulla serie, sui singoli passaggi della serie, sui singoli momenti delicati della serie; l’assoluta arroganza tecnica usata per rendere ciò che passa (a velocità supersonica) nella sua mente, delle giocate di stordente bellezza; la leadership sui suoi Cavs, dimostrata in ogni momento di sofferenza, caricandosi sulle spalle il peso di tutte le scelte da lui fatte in passato e di una città intera che bramava questo titolo.

Estasi. LeBron è stato un’estasi continua, durata 336 minuti in queste finali. Siamo stati tutti testimoni.

Da Ozzy Osbourne, che in una sua celebre canzone avverte mamma che sta tornando a casa, ora il Re assomiglia più a Jack Nicholson che minaccia Wendy di essere tornato a casa. Eh già, è tornato a tutti gli effetti.

He’s home.

Articolo a cura di Matteo Confalonieri

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