10 cose che ci portiamo dietro da Indianapolis

Crampi Sportivi
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12 min readApr 9, 2015

The Road Ends Here

Come un fiume in piena, nella prima settimana di Aprile le strade del basket collegiale raggiungono tutte un unico estuario. Le storie di una stagione sui parquet di tutta l’America giungono finalmente in una sola, enorme arena nella quale scrivere l’ultimo capitolo.
Quello intitolato Final Four, a cui spetta l’ingrato compito di decidere chi sono i vinti e chi è il vero vincitore. Perché se la conquista di quell’agognato posto tra le ultime quattro squadre suggella il coronamento di una stagione indimenticabile, ricordato ai posteri da un bel banner appeso a cascata dal tetto dello stadio di casa, la distanza tra la gloria locale e l’immortalità nazionale è misurabile in due partite. Una nel weekend e, se si resiste, una il Monday Night. Quando poi queste sfide si svolgono in un impianto come il Lucas Oil Stadium affollato da più di 70.000 spettatori, nello Stato che ha sostituito i simboli indiani con una palla a spicchi, in una città che è perfetto baricentro tra i quattro atenei rimasti in vita, ecco che lo sport diventa un rito, una religione.

E come ogni culto pagano, quando termina ci lascia in un vuoto sconfortante, un’elettrica sensazione di trance in procinto di abbandonare il nostro corpo mortale a cui possiamo supplire solo rivedendoci le partite già giocate ingurgitando tonnellate di gelato alla crema o risognando nostalgici questo ultimo weekend di follia.

Ecco quindi le 10 cose che abbiamo imparato a Indianapolis, nella speranza che questi sette mesi senza college basket possano passare veloci come un coast to coast di Justise Winslow (i playoff NBA potrebbero aiutare n.d.r.)

10. Indy è sempre Indy

C’è poco da fare, Indianapolis è sempre la casa del basket, e ancora di più di quello collegiale. Le Final Four nello stato dell’Indiana hanno sempre un sapore particolare al quale non ci abitueremo mai. La passione dei semplici cittadini sommata alle varie tifoserie convogliate dai quattro angoli degli States formano un’atmosfera difficilmente replicabile altrove. L’Ncaa ha stabilito qui i suoi uffici non senza ragione e l’intero complesso del Lucas Oil è stato costruito per giocarci una serie interminabile di sfide da titolo. Per ora sono sette negli ultimi venti anni e il trend non trova interruzione di continuità. Finché va così va benissimo.

9. Dejavù

Avevamo già brevemente ricordato in precedenza come i dejavù sono sempre all’ordine dl giorno durante un torneo Ncaa. In queste Final Four ce ne sono stati almeno due degni di nota.

Kentucky — Wisconsin è stato il rematch della scorsa edizione, la stessa sfida tra i freshmen di Calipari e gli Upperclassmen di Bo Ryan. Due modi di vedere il basket e la vita che si scontrano nuovamente nello stesso spot del torneo per arrivare al Title Game. Questa volta però non sono bastate le magie dei gemelli Harrison a spingere i Wildcats verso la Storia e i movimenti orchestrali di Kaminski hanno mandato in frantumi il sogno della perfezione a Lexington.

Altro inquietante dejavù è quello che si è materializzato davanti agli occhi dei Blue Devils per i primi cinque minuti della sfida contro gli Spartans di Tom Izzo. I ragazzi in verde hanno segnato le loro prime quattro triple tentate aprendo la sfida con un bel 16–4 di parziale. A Durham hanno iniziato a credere che il tempo è un cerchio piatto, anche per colpa di queste cose che hanno cominciato ad essere virali.

Poi, nonostante tutte le profezie augurassero il contrario, dopo la sfuriata iniziale Duke ha dominato la sfida andando a vincere con ampio margine.

Se avete notato bene, tutti questi dejavù sono finiti con una netta inversione rispetto alla loro precedente apparizione. Attenti, stanno cambiando il codice.

8. La perfezione non esiste

Ora di Storia. Nel 1991 UNLV entrava nel torneo avendo vinto ogni singola partita giocata nella stagione. I Runnin’ Rebels di Tarkanian erano imbottiti di giocatori d’elite (tre finirono al primo giro quell’anno, compresa la prima assoluta Larry Johnson) e arrivavano dal successo dell’anno precedente. Quella che però doveva essere la stagione dell’acclamazione terminò però alla prima partita delle Final Four giocate a Indianapolis (guarda caso) contro Duke che poi andrà a vincere il titolo (altro dejavù?).

I Wildcats quest’anno si sono ritrovati nella stessa condizione e anche loro sono caduti dove i loro predecessori erano inciampati. Nella sfida conto i Badgers hanno rivelato tutti i loro difetti trasformando una campagna gloriosa in un disastroso naufragio. Dopo UNLV, St. Joseph e Wichita State, anche Kentucky ha visto crollare il Aprile tutto ciò che aveva costruito durante l’anno. Ancora una volta la perfezione è rimasta un miraggio statistico, a ricordarci ancora la spietatezza e la bellezza del basket collegiale, in cui una singola partita può condizionare un intera stagione o carriera.

7. I Badgers non finiscono qui

Ecco perché dopo un biennio esaltante a Wisconsin, l’avventura di Bo Ryan non può dirsi di certo al capolinea. Sicuramente dopo la dolorosa sconfitta contro Duke, quando aveva finalmente il titolo a portata di mano, ha dovuto dire addio a molti dei giocatori con cui ha fatto due viaggi consecutivi alle Final Four. Kaminsky, Gasser e Jackson hanno concluso il loro percorso accademico, Sam Dekker dopo l’incredibile torneo si dichiarerà eleggibile per il Draft.
Sarà molto difficile per Bo resettare un programma così vincente e tornare nuovamente a giocarsi il titolo, ma se c’è un allenatore che ha messo in prima linea il gruppo e lo sviluppo dei giocatori è sicuramente di casa a Madison. Non abbiamo dubbi che Bo Ryan sarà ricordato come uno dei più grandi coach dell’epoca corrente anche senza vincere nessun anello NCAA così come siamo sicuri che avrà ancora la possibilità di portarselo a casa. Diamo il tempo ai Badgers di ritrovare qualche altro talento impronosticabile in giro per il Wisconsin e di ricostruire il sistema di gioco che ha dominato l’America. Non sarà facile come reclutare tra i top100 prospetti dall’High School ma spesso the hardest way è la migliore. Chiedere ad Arizona o Kentucky per ulteriori conferme.

6. One and Done vs. Old School is da nu feud

“All the seniors that I’ve had — hard to say the word. But every player that’s played through the program, okay, we don’t do a rent-a-player. You know what I mean? Try to take a fifth-year guy. That’s okay. If other people do that, that’s okay. I like trying to build from within. It’s just the way I am. And to see these guys grow over the years and to be here last year and lose a tough game, boom, they came back.”
Così Bo Ryan subito dopo la sfida per il titolo persa contro Duke rinvigorendo quello che, da quando l’Ncaa ha cambiato le regole sull’eleggibilità, è diventato il trending topic del basket collegiale. Se sia più giusto creare un programma basato sulla crescita di un gruppo che arrivi coeso e affiatato alla partita della carriera o costruire una squadra attraverso un recruitment selvaggio e facendo coesistere tutto il talento in un unica annata.

Le Final Four hanno radiografato questa discrasia in modo eccellente, dividendo salomonicamente le contendenti. Da una parte Wisconsin e Michigan State, dall’altra Kentucky e Duke. Negli starting five delle prime due c’era solo un freshman, in quelle delle altre sette. A pensarla come Bo Ryan però, si rischia di cadere nello stereotipo del buono ma povero e del cattivo ma ricco. Invece qui si tratta di una rinverdita riproposizione delle infinite vie in cui si snoda la propulsione competitiva. Se i più forti giocatori vanno nelle squadre più forti (mica tanto vero perché il più grande talento delle high school l’anno prossimo giocherà per i Tigers di LSU, mica una superpowerhouse), le altre devono attrezzarsi e costruire negli anni con saggezza e competenza un sistema di gioco che si adatti al materiale umano che si ha in mano. E Wisconsin e MSU ci hanno regalato un saggio durante questo torneo. I Badgers avevano l’attacco più efficiente della nazione, e non ci stiamo riferendo solo a quest’anno, senza i vari Okafor o Russell, gli Spartans hanno spiegato cosa significa competere superando continuamente i propri limiti.

D’altronde i prospetti più dominanti da qualche parte dovranno pure finire ed è difficile che rimangano più del dovuto stabilito dalla lega, per cui chi ha la fortuna di attirarli nel proprio ateneo costruirà la stagione su di loro. E gli altri si adegueranno. Non è poi detto che tutti facciano semplicemente un anno poi. Gli Harrison sono tornati a Lexington per il loro sophomore year, WCS è un senior, Booker e Ulis forse resteranno un’altro anno, Tyus Jones potrebbe imitarli così come altri talenti in giro per gli States.
Poi via Bo, pensa se Anthony Davis fosse ancora a Kentucky, magari insieme a Randle e Noel. Davvero saresti riuscito ad andare due volte consecutive alle Final Four?

5. Il Draft è già iniziato

Quando meno te lo aspetti, quando ancora si gioca per la gloria e l’onore, ecco spuntare come la gramigna i primi discorsoni sulle prossime scelte al Draft. E’ certo però che poche rassegne come il torneo Ncaa hanno la capacità di far risplendere il talento di certi giocatori come di oscurarne altri. Ecco quindi un borsino poco ragionato su chi sale e chi scende in attesa di settembre.

algono: sicuramente Justise Winslow e Sam Dekker, i due presunti secondi violini che hanno trascinato le rispettive squadre fino al Title Game. Winslow ha mostrato un atletismo sui due lati del campo che ha impressionato tutti gli addetti ai lavori, lasciando ancora aperto uno spiraglio per una prima chiamata assoluta che farebbe sensazione. Più cautamente potrebbe invece andare terzo dopo Okafor e Towns, anche se la concorrenza di Russell e Mudiay è forte. Dekker durante le partite chiave dei Badgers ha fatto un salto di qualità che ha Madison si aspettavano da tempo. Ha riscritto i career high sia contro North Carolina e subito dopo nelle Elite Eight contro Arizona, ne ha segnati sedici per sconfiggere Kentucky ma è scomparso nel secondo periodo nella sfida contro Duke. Le sue prestazioni realizzative e soprattutto la sua capacità di far male da fuori potrebbe convincere qualche squadra tra la 12 e la 15 a fare il suo nome.

Anche Kaminsky, da Naismith Player of The Year, potrebbe rosicchiare qualche posizione, così come Jerian Grant e Delon Wright potrebbero aver visto le proprie quote lievitare durante il torneo. Due playmaker esperti e dotati sia di frame sia di talento distributivo. Potrebbero far comodo a chi cerca un backup solido e affidabile intorno alla ventesima posizione.

Scendono: Cliff Alexander e in complesso i giocatori di Kansas. Il nativo di Chicago è stato impossibilitato a giocare nel torneo conclusivo a causa di un divieto della lega per un’indagine riguardo accordi sottobanco tra parenti ed agenti. L’incompiutezza della sua stagione unita alla necessità di sgrezzare il suo talento potrebbe farlo sprofondare a metà secondo giro, non la posizione che si sarebbe aspettato ai tempi del suo commitment alla corte di Bill Self. Kelly Oubre risentirà della campagna sfortunata dei Jayhawks ma dovrebbe comunque atterrare ai piedi della lottery. Anche i giocatori di Syracuse hanno subito il ban accademico che gli ha impedito di disputare una stagione completa e quindi di impressionare a Marzo. Tra i prospetti più interessanti figura Chris McCullogh, ala grande moderna e dinamica, che però ha sofferto un grave infortunio al ginocchio che ne ha compromesso la stagione. Il talento c’è, è mancato il tempo di farlo scintillare.

Un’altra ala grande che poteva essere la sorpresa dell’anno ma è stata risucchiata nella mediocrità di squadra è Myles Turner, lungo con range capace di interpretare il ruolo dello stretching forward sempre più richiesto in Nba. Se cade verso la metà del primo giro potrebbe essere un affare.

4. Kentucky tornerà alle Final Four anche il prossimo anno…

Se solo si purificherà dal peccato di hybris commesso quest’anno. Quando la Big Blue Nation si sveglierà dalla bruciante (in tutti i sensi) delusione di non aver completato la più grande stagione nella storia dello sport amatoriale americano, si renderà conto di non aver dato abbastanza importanza allo studio dei propri avversari. Sia contro Notre Dame e soprattutto contro i Badgers, Kentucky ha dato l’impressione di sottovalutare gli altri contendenti, rivolgendosi continuamente solo su se stessa. “It’s all about our guys”, andava ripetendo Calipari prima di ogni match, sicuro che se i suoi avessero portato il proprio A-game in campo non ci sarebbe stato avversario che sarebbe stato capace di opporre resistenza. Invece si è dovuto scontrare con l’amara verità che il modo migliore di giocare è quello di conoscere a menadito un gameplan elaborato per exploitare la squadra rivale. Così hanno fatto i Badgers, senza che Calipari avesse alcuna intenzione di cambiare le carte in tavola, tipo non cambiare sistematicamente sui blocchi di una squadra che ha come mantra quello di attaccare i missmatch(!!!).

Il talento dei Cats e di Calipari non è in discussione e sono certo che anche la prossima stagione saranno competitivi fino in fondo. Uk avrà per la terza volta consecutiva la miglior classe di freshmen della nazione, che sommati a qualche giocatore che rimarrà a Lexington durante l’estate, potrebbe formare un’altra invincibile armata. Calipari poi da quando è a capo del programma ha mancato le Final Four solo due volte. Anche l’anno prossimo potrà essere l’anno dei Cats.

3. Tom Izzo

Sulla strada dei Wildcats però potrebbe finire l’unico coach che ha vinto più partite di Calipari al Torneo, Tom Izzo. Abbiamo già detto tutto su questo personaggio straordinario ma è impossibile non rimarcare nuovamente il miracolo tirato su dal nulla quest’anno. L’anno scorso MSU era una delle squadre da battere e, nonostante numerosi problemi durante la stagione, arrivò a Marzo pronta per prendersi ciò che le spettava, invece una prodezza di Napier gli negò l’accesso alle Final Four. Dalla ceneri di quella squadra che aveva perso i primi tre realizzatori, Harris, Payne e Appling, gli Spartans hanno ricostruito un folle viaggio fino ad Indianapolis, sconfiggendo nell’ordine la testa di serie n2, la n3 ed infine la n4, andando a conquistare l’East Regional. Contro Duke non c’è stata praticamente partita ma la semplice capacità di riuscire a conquistarsi il diritto di giocarla quella partita, pone automaticamente Izzo tra i più grandi di sempre di questo sport e testimonia che anche nell’era buia dell’one and done nulla è precluso a chi mette l’amore per il gioco prima di ogni altra cosa. Specialmente in Marzo. Specialmente con Izzo.

2. 5K

Tra Izzo e la beatificazione si è intromesso un signore di mezza età, con la riga immancabilmente a destra e le maniere compute da valletto ottecentesco. Questo signore dal cognome impronunciabile è l’allenatore più vincente del college basket. ll 25 Gennaio di quest’anno rimontando contro St. Johns ha vinto la millesima partita come capoallenatore. Nessuno prima d’ora aveva abbattuto tale traguardo in Divison I. Lunedì scorso battendo i Badgers ha tagliato per la quinta volta la retina a fine stagione, staccando in una speciale classifica Adolph Rupp e lanciandosi in solitaria nell’impossibile inseguimento di John Wooden. Mike Krzyzeswki, nonostante non arriverà mai alla doppia cifra come il coach di quegli storici Bruins, è e sarà il più grande allenatore di college basketball della storia. Period.

Nessuno ha mai vinto tante partite di regular season, nessuno ha vinto tante partite di Torneo. Nessuno ha vinto tanti titoli da quando il Torneo si è allargato a 64 squadre. Se a questi sommiamo anche i due ori mondiali e i due olimpici con la nazionale americana otteniamo il profilo del coach perfetto.

Chiunque ha avuto il privilegio di essere allenato da coach K ammette di aver avuto la fortuna di aver lavorato con uno dei migliori. Ecco perché appena finita la sfida contro Wisconsin i primi a congratularsi con l’allenatore di Duke sono stati i superpro della nazionale a stelle e strisce.

E l’ennesima cavalcata vincente dei Blue Devils ha testimoniato esattamente tutte le qualità sia dell’uomo, sia dello sportivo. All’inizio dell’anno Duke era come al solito una delle candidate più autorevoli al titolo, ma ha faticato non poco a prendere il ritmo giusto, stretta in un Acc molto competitiva. Alla squadra di Durham non è riuscito ne di vincere la regular season, ne il tournament, sconfitta da Notre Dame in semifinale. Una stagione altalenante, fatta di grandi vittorie (in trasferta contro Virginia e Wisconsin, in casa contro Notre Dame e North Carolina) e inquietanti sconfitte, soprattutto quelle consecutive contro Miami e NC State. Ad una squadra straripante offensivamente troppo spesso si accompagnava una distratta e pigra in difesa.
Tutto ciò è improvvisamente cambiato durante il Torneo. Guidata dall’attività di Winslow e Cook i Blue Devils hanno mostrato una delle difese più performanti della nazione, capace di pressare sempre la palla sul perimetro e nascondendo il più possibile la congenita indolenza di Okafor nella fase di non possesso. Poi il talento offensivo dei freshman ha fatto il resto dall’altra parte del campo. Contro Wisconsin tutti i 37 punti segnati dai Blue Devils nel secondo tempo sono stati autografati da giocatori al primo anno. Prima Winslow, poi Okafor e a chiudere Jones. Ma il vero asso nella manica di Coach K è stato Grayson Allen, il McDonald All American che aveva visto poco il parquet durante l’anno ne ha segnati sedici quando c’era in ballo la stagione, chiudendo da solo il buco che i Badgers avevano provato a scavare a metà secondo tempo. L’ennesimo trucco di prestigio dell’allievo di Bob Knight, che finalmente può dire con certezza di avere superato il maestro.

1. Ci si rivede l’anno prossimo

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