10 ragioni per guardare la Coppa d’Asia mentre fate colazione

Crampi Sportivi
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9 min readJan 8, 2015

Melbourne Rectangular Stadium, venerdì 9 gennaio ore 9.30 italiane: signori, si fa la storia. Con l’incontro Australia-Kuwait prenderà il via la 16° edizione della Coppa d’Asia, un torneo che l’Europa guarda con molta distanza, vuoi per il fuso orario sconveniente, vuoi per la supposta inferiorità tecnica rispetto al Vecchio Continente. Tuttavia da questa competizione uscirà la prima partecipante alla Confederations Cup 2017 ed è il primo evento post-Mondiale di una certa rilevanza che riguardi le nazionali. Ecco dieci buoni motivi per passare la mattina a guardare la Coppa d’Asia

Perché gli atlanti non contano nulla

Non c’è niente di più “Oceania” dell’Australia. Un continente composto dalla terra Aussie, dalla Nuova Zelanda e da poco altro sotto la forma di isole e arcipelaghi. Tuttavia, per la Fifa la geografia è un’opzione, non una realtà. Già, perché l’Australia ospiterà la Coppa d’Asia. Sembra un ossimoro, invece è tutto giusto.

Il trofeo situato davanti alla Sydney Opera House.

Come già successo per Israele e Kazakistan (affiliate entrambe all’Uefa per motivi geo-politici), l’Australia ha beneficiato di un cambiamento di confederazione nel gennaio 2006. L’abbandono dell’Ofc fu causato dalla convinzione che l’Australia non sarebbe mai migliorata rimanendo nella zona oceanica. Infatti fino al 2006 gli australiani avevano giocato ben otto spareggi Mondiali, vincendone solo due. Gli altri risultati rilevanti erano un secondo e un terzo posto nella Confederations Cup più quattro Coppe d’Oceania.

Dopo l’inserimento nell’Afc (la zona asiatica), l’Australia ha ottenuto due qualificazioni su altrettanti tentativi. La Coppa d’Asia casalinga arriva nel momento peggiore: la squadra è al numero 102 del ranking FIFA, ma i team che ospitano le competizioni vanno sempre abbastanza avanti. L’obiettivo è vincere. Magari sperando in Tim Cahill, all’ultimo tentativo per portare a casa qualcosa.

Perché c’è Ali Al-Habsi

L’Oman è una terra mediorientale lontana e per lo più sconosciuta. Situato sul Golfo Persico, il paese ha avuto un importante sultanato per il controllo della zona dalla fine del XVII secolo al XIX. Qui è proprio il calcio lo sport più popolare, ma forse nessuno avrebbe potuto prevedere la crescita della nazionale avvenuta negli ultimi anni sotto la guida di Paul Le Guen. Si è passati dall’anonimato al quasi spareggio Mondiale.

Il simbolo di questa crescita è proprio Ali Al-Habsi: dei 23 convocati per la terza partecipazione dei Red Warriors alla Coppa d’Asia, lui è il capitano, il simbolo e l’unico giocatore che militi fuori dai confini nazionali. Dopo un’ottima avventura in Norvegia, il portiere è in Inghilterra da un decennio e ha persino vinto una F.A. Cup con il Wigan Athletic. E pensare che lui — dopo il liceo — era incamminato verso la carriera da pompiere al Seeb International Airport di Muscat…

Perché Carlos Queiroz vede e provvede

Se penso alla definizione di international manager, mi viene subito in mente il viso scafato, ma esperto di Bora Milutinović. Il tecnico serbo ha portato cinque squadre diverse ad altrettanti Mondiali: uno come lui non nascerà mai più. Però c’è chi ci si avvicina, come Carlos Queiroz. In una vita passata, il tecnico nato in Mozambico faceva l’assistente di Ferguson e allenava il Real Madrid. Oggi si “accontenta” di allenare la squadra con il tifo più caldo d’Asia.

Chi ha mai visto l’Azazi Stadium di Teheran sa bene di cosa parlo: 85mila persone che all’unisono incitano il Team Melli, ovvero l’Iran. La squadra vive un momento di rinascita e il merito è proprio di Queiroz. Arrivato nel 2011, il tecnico ha portato l’Iran al Mondiale, ma Queiroz aveva già allenato il Sudafrica al Mondiale 2002 e il Portogallo a quello del 2010. Ha rischiato di andar via dopo il Mondiale brasiliano per i pochi soldi messi a disposizione dalla federazione, ma alla fine è rimasto. E di lui rimane indelebile una traccia sulla storia recente del Team Melli.

Corea del Sud-Iran, ultima (e decisiva) gara delle qualificazioni per il Brasile. Il ct sudcoreano, Choi Kang-hee, afferma che l’Iran guarderà il Mondiale dalla tv e che spera nel passaggio del turno dell’Uzbekistan. Queiroz risponde, ma decide di tenere un profilo diplomatico. Risultato? L’Iran vince 1–0 con gol di Ghoochannejhad e conquista il primo posto nel girone. Se non fosse per un gol di troppo nella differenza reti, la Corea del Sud rischierebbe addirittura lo spareggio continentale. A fine gara Queiroz si scatena e si dirige verso la panchina dei sudcoreani con intenzioni minacciose. L’atmosfera si surriscalda e il tecnico portoghese fa dei gestacci. I tifosi di casa tirano bottigliette ai giocatori iraniani, ma per i tifosi del Team Melli (e i telecronisti) Carlos Queiroz diventa un eroe.

Perché Omar Abdulrahman ha incassato anche i complimenti del Diez

Diego Armando Maradona è una presenza fissa in quel degli Emirati Arabi: lui si trova bene e gli sceicchi lo tengono volentieri con sé. Tanto che El Diez si è presentato anche per vedere qualche gara di qualificazione della nazionale a questa Coppa d’Asia. E gli Whites hanno fatto molto bene: cinque vittorie, un pareggio e tanto bel calcio.

A guidare la squadra ci pensa Omar Abdulrahman, 23enne con il numero 10 e la fascia di capitano. Fantasista dell’Al-Ain, è uno dei giocatori da osservare nel 2015. Capelli alla Caparezza e gran tocco di palla, il ragazzo è un classico trequartista, persino Maradona si è trovato a lodarlo:

«Sono rimasto impressionato dalle sue capacità: è un giocatore che fa sembrare tutto facile. Spero possa continuare così».

Speriamo non abbia bruciato pure il buon Omar…

Perché il Giappone è una stra-potenza continentale

Per inquadrare la crescita del calcio nipponico, vi voglio citare solo un dato: fino al 1988, il Giappone non si era mai qualificato alla Coppa d’Asia. Non c’era ancora la J-League, Dragan Stojković non faceva ancora sognare i tifosi del Nagoya Grampus e Kazu Miura all’epoca non era ancora The King. Un quarto di secolo è passato e i giapponesi hanno realizzato una parte del loro sogno: they’re the Kings of Asia.

Secondo la futuristica J-League Hundred Year Vision, il Giappone si è dato l’obiettivo di creare 100 club professionali entro il 2092. Tutto sta andando secondo i piani, visto che siamo a quota 52 nel 2015. Intanto la nazionale è reduce sì da un Mondiale deludente, ma ha raccolto la quinta partecipazione di fila alla fase finale della Coppa del Mondo. E ora arriva la Coppa d’Asia, territorio di conquista per i nipponici (tre vittorie e una semifinale nelle ultime quattro edizioni).

Alla seconda partecipazione in assoluto alla rassegna continentale (1992), il Giappone vinceva la competizione. Vent’anni dopo, siamo a quattro titoli. E vista la concorrenza incerta, c’è la possibilità che i campioni uscenti possano festeggiare ancora. La Nippon Daihyo si presenta molto più forte di quattro anni fa: nel 2011 Zaccheroni aveva messo su una squadra sperimentale. Nel 2015, invece, Aguirre avrà una corazzata e dovrà tenere in panchina gente come Kiyotake e Inui, che gioca regolarmente in Bundesliga.

Perché Shinji Okazaki è il miglior nipponico in circolazione

Ok, Keisuke Honda ha la maglia numero 10 in un club chiamato Milan. Shinji Kagawa è uno dei talenti più clamorosi degli ultimi anni (anche se ora sta faticando, ma noi ve avevano parlato qui). E una valanga di giapponesi si è trasferita in Bundesliga dopo il Mondiale sudafricano. Ma nessuno — nessuno! — si sta esprimendo bene al momento come Shinji Okazaki, attaccante del Mainz.

Potremo definirlo come un altro Dirk Kuyt. Nato centravanti, evoluto in un fine esterno d’attacco, potrebbe morire terzino vista la sua duttilità tattica. Col Giappone ha una media-gol niente male: 40 reti in 84 presenze ed è il terzo marcatore all-time. Ha giocato (e segnato) in due Mondiali, ora si vuole prendere la ribalta. E la Coppa d’Asia è l’occasione giusta. Anche perché c’è qualcosa di più della stardom: Okazaki è il giapponese che ha segnato più in Bundesliga e con il Mainz ha realizzato 25 reti in un anno e mezzo alla Coface Arena. E fa queste cose a Pirlo e Montolivo.

Perché c’è Cina-Corea del Nord

Il paese più potente al mondo contro quello più temuto. Il paese più popolato contro quello più fedele. Lóngzhī Duì contro lo spirito Chollima. Pechino contro Pyongyang (ma solo nel calcio). Una ha appena firmato un super-accordo da 13 milioni di euro l’anno con la Nike dopo trent’anni con l’Adidas, l’altra veste Legea. Il fantasista Zheng Zhi contro l’eterno Ryang Yong-gi. Questa è Cina-Corea del Nord, che si sfideranno nel gruppo B al Canberra Stadium il 18 gennaio prossimo.

Una sfida particolare perché parliamo di due paesi geo-politicamente molto considerati, ma che nel calcio non emergono. Nonostante una popolazione di un miliardo e 350 milioni di persone, la Cina latita nel football. Un anno fa è arrivato Alain Perrin come ct, ma la storia non è cambiata. La Cina si è qualificata a questa Coppa d’Asia solo per la differenza reti come miglior terza nei gironi di qualificazione: le prospettive non sono rosee.

Se parliamo di Corea del Nord nel calcio, vengono in mente due momenti: l’incredibile avventura del Mondiale 1966 (conclusa ai quarti di finale) e il pianto di Jong Tae-se quando suonò l’inno alla prima gara del Mondiale sudafricano contro il Brasile. L’accesso alla Coppa d’Asia è arrivato dopo la vittoria nell’AFC Challenge Cup del 2012. Chance di passare poche, mistero tanto: il tecnico ha chiamato 22 dei 23 giocatori possibili, ergo un posto è libero. Ma se voleste chiamare per provarci, non c’è un numero per contattare in Australia la delegazione arrivata da Pyongyang.

Perché Server Djeparov non è potuto andare a Stamford Bridge

Due volte giocatore asiatico dell’anno (nel 2008 e nel 2011), il capitano dell’Uzbekistan guida per l’ennesima volta i White Wolves alla caccia del titolo. La squadra è migliorata parecchio nell’ultimo decennio e l’Uzbekistan non sarà una comparsa in questo torneo. Djeparov ha collezionato la sua prima presenza con la nazionale nel 2002 ed è un riferimento per i compagni, nonostante non parli benissimo… l’uzbeko. Fluente nell’inglese e nel russo, gli manca questo fondamentale.

Djeparov è uno dei simboli del calcio uzbeko. Nonostante una stagione deludente con il Seongnam FC in K-League, il ct non ha esitato a chiamarlo. Curiosità: quando vince il primo titolo come MVP asiatico, il Chelsea offre a Djeparov un provino nell’ambito di un accordo con il Bunyodkor, il club del centrocampista. Alla fine vari impegni gli impediscono di sostenere il trial e conoscere meglio Londra. In compenso, ha avuto modo di sfoggiare una pettinatura stile boy-band anni ’90.

Perché c’è la Palestina e la sua prima volta alla Coppa d’Asia

C’è un esordio assoluto in questa rassegna: quello della Palestina, che per la prima volta giocherà una competizione targata Fifa. La Coppa d’Asia sembrava un sogno irrealizzabile e invece la pattuglia palestinese ha ottenuto il pass per l’Australia tramite la vittoria nell’AFC Challenge Cup del maggio scorso. Un 1–0 storico alle Filippine, che ha regalato anche il primo trofeo in bacheca per la Palestina.

Una nazionale giovane, visto che la Fifa l’ha accolta solo nel 1998. Tanti i problemi derivanti dai contrasti con Israele, ma alla fine il calcio ha avuto la meglio.

«Tramite questa squadra speriamo di ottenere uno scopo politico: dimostrare che siamo degni d’essere uno stato e che abbiamo costruito le nostre istituzioni, nonostante l’occupazione, la separazione tra Gaza e la West Bank e la guerra contro di noi». Sono le parole del ct ad interim della squadra, Ahmed Al-Hassan, che chiude: «Noi siamo capaci di creare miracoli».

Onestamente la qualificazione sembra impossibile: inserita nel gruppo D con i campioni uscenti del Giappone, con il giovane Iraq e l’ottima Giordania, l’obiettivo della Palestina è fare esperienza. Ma sarà esaltante: l’esordio è previsto per il 12 gennaio, quando a Newcastle i Cavalieri (soprannome che più evocativo non si può) affronteranno proprio i nipponici per la prima gara della competizione.

Perché Younis Mahmoud non muore mai

Un monumento vivente non solo per l’Iraq, ma per l’intero calcio asiatico. Il numero 10 e capitano dell’Iraq è un attaccante che ha fatto del suo amore per la nazionale il centro della sua carriera. Attualmente senza squadra, Younis aveva deciso di ritirarsi, anche a causa del momento calcistico difficile e di grande involuzione dell’Iraq, ma alla fine ha deciso di restare per guidare l’Iraq in Australia.

Del resto, come si può defilare uno così, con 130 presenze e 51 gol con la nazionale? Mahmoud non è il capitano dell’Iraq, è la sua anima. Ha giocato per i settori giovanili, poi con la rappresentativa olimpica ad Atene: quella squadra arrivò quarta e perse la finale per il bronzo contro l’Italia di Gilardino. Poi la gioia del 2007, quando l’Iraq — disastrato dalla guerra e con un gruppo frazionato religiosamente — vinse a sorpresa la Coppa d’Asia. Persino “La Gazzetta dello Sport” gli diede il Premio Facchetti. La finale contro l’Arabia Saudita si concluse 1–0: il marcatore neanche ve lo dico.

Articolo a cura di Gabriele Anello

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