1993 — Ogni rivoluzione ha il suo pezzo

Simone Pierotti
Crampi Sportivi
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10 min readJun 7, 2017

Stretto nella morsa tra lo scoppio di Tangentopoli e la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi di due anni dopo, il 1993 sembra apparentemente un anno di transizione. E invece sono stati, se possibile, i dodici mesi più bui: il boss Totò Riina viene arrestato dopo una latitanza di oltre 24 anni; in estate si tolgono la vita in circostanze misteriose il dirigente d’azienda Gabriele Cagliari in carcere e l’imprenditore Raul Gardini; Cosa Nostra fa scoppiare un ordigno in via dei Georgofili a Firenze, un altro in via Palestro a Milano e ben due (senza vittime) a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio a Roma, dove oltretutto fallisce l’attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro. Era l’anno cruciale della trattativa Stato-mafia: le istituzioni avrebbero negoziato la fine delle stragi in cambio dell’abrogazione delle misure sul carcere duro previste dall’articolo 41 bis e, secondo alcuni collaboratori di giustizia, fu escogitato un piano eversivo per spaccare in due l’Italia. A quel tempo ci si scatenava in discoteca con “The rhythm of the night” di Corona, “Living on my own” di Freddie Mercury e “What is love?” di Haddaway, gli UB40 scalavano le vette mondiali con il rifacimento di “Can’t help falling in love with you”, al cinema guardavamo meravigliati “Jurassic Park” e ci commuovevamo con “Philadelphia”. E nello sport, beh, successe questo e molto altro.

Coppa parmigiana
C’è un dato che più di tutti testimonia lo strapotere del calcio italiano negli anni ‘90, dettato dalla maggior disponibilità economica (e in verità nessuno si preoccupò d’indagare a fondo, eravamo i più ricchi e andava bene così): in Europa le squadre della Serie A arrivavano spesso in finale e quasi sempre le vincevano. Solo che per Milan e Juventus era ordinaria amministrazione giocarsi la Coppa dei Campioni — anzi, la Champions League — e la Coppa UEFA: la grande sorpresa, semmai, era il Parma che il 12 maggio 1993 calpestava l’erba di Wembley e alzava la Coppa delle Coppe. I ducali di Nevio Scala, saliti appena tre anni prima dal campionato cadetto, avevano eliminato Sparta Praga e Atlético Madrid: l’Anversa, che pure schierava il capocannoniere della competizione Alex Czerniatynski, non faceva paura. L’appuntamento con la storia è già scritto e così quindicimila tifosi parmigiani vanno in pellegrinaggio in uno dei santuari del pallone. Dopo lo spettacolare vantaggio segnato da capitan Minotti i belgi pareggiano con l’ex Pisa Severyns, ma Melli gira in rete un traversone del “sindaco” Osio e nelle battute finali arriva il più volte sfiorato 3–1 col pallonetto di Cuoghi. È il primo trofeo internazionale dell’era Tanzi, finita rovinosamente undici anni dopo con il crac della Parmalat e con la squadra costretta a sbarazzarsi dei suoi gioielli più preziosi.

Marsiglia, trionfo e scandalo
Un gol che entra nella storia. Un trionfo che rimane un mistero del calcio europeo. Il 26 maggio 1993 Sebastiano Rossi subisce il secondo gol in tutta la stagione in Europa. Quella che sembrava una finale scontata si trasforma in una delle più grandi sorprese della storia recente: il Marsiglia conquista la prima edizione della Champions League. Le ombre, però, continuano a venire fuori. Il centrocampista Jacques Eydelie scriverà anni dopo nella sua autobiografia cdi pratiche di doping diffuse in spogliatoio. Non solo. Quattro giorni prima della finale di Monaco, il presidente Bernard Tapie e altri dirigenti della squadra avrebbero promesso a tre giocatori del Valennciennes (Jacques Glassman, Jorge Burruchaga e Cristophe Robert) dei soldi per non opporre troppa resistenza nell’ultima giornata di Ligue 1. L’OM nel 1994 verrà retrocessa d’ufficio.

Il dolore di Seles, il trionfo di Sampras
Il 29 aprile 1993 il tennis perde la sua innocenza. Alla Rothenbaum Arena di Amburgo il pubblico assiste un po’ distratto al quarto di finale di Monica Seles che domina 6–3 4–1 Magdalena Maleeva. Gli spettatori non si accorgono che al cambio campo un tornitore di 38 anni estrae da una borsa verde un coltello da cucina con la lama da 16 centimetri. Non si accorgono che Gunther Parche, ossessionato da Steffi Graf tanto da accarezzare l’idea del suicidio quando Seles le ha strappato il posto di numero 1, si sporge oltre la ringhiera e affonda quei 16 centimetri di metallo gelato nella schiena della protagonista delle sue manie. Seles si è piegata un po’ in avanti per bere un sorso d’acqua: un gesto che le salverà la vita. La polizia lo arresta mentre sta per vibrare un secondo colpo. Parche confessa subito. “Non volevo ucciderla, ma solo ferirla. Non sarebbe mai più stata in classifica davanti alla mia Steffi”. Parche viene condannato solo a due anni con la condizionale per lesioni gravi. Seles promette che non giocherà mai più in Germania, e niente le farà cambiare idea.

Il regno di Pete Sampras a Wimbledon è nato il 4 luglio. È il giorno del primo dei suoi sette trionfi nel torneo più ambito del mondo (nessuno l’ha mai vinto più volte). Sampras, numero 1 al mondo, non vinceva uno Slam dallo Us Open del 1990. In finale, forte di 22 ace, supera 7–6 7–6 3–6 6–3 Jim Courier, che in quel 1993 ha conquistato l’Australian Open e raggiunto la finale al Roland Garros. Courier diventa così il 14mo giocatore a giocarsi il titolo in tutti i quattro tornei dello Slam. Quel giorno, davanti alla tv, in Serbia un bambino decide che vuole diventare un grande campione: è un certo Novak Djokovic.

Il dramma dello Zambia
La storia del calcio è costellata, purtroppo, anche di autentiche tragedie che nulla hanno a che vedere con i risultati sportivi. In Italia il Grande Torino perì sulla collina di Superga, nel disastro aereo di Monaco persero la vita otto dei Busby Babes del Manchester United e analoga sorte è toccata al Pakhtakor in Uzbekistan, all’Alianza Lima in Perù, al Green Cross in Cile e alla Chapecoense in Brasile. Ma il 27 aprile 1993 fu un intero Paese, lo Zambia, a piangere i suoi beniamini: un velivolo dell’aeronautica militare che trasportava la nazionale a Dakar per un incontro di qualificazione ai Mondiali in America s’inabissò al largo della costa del Gabon. Il motore sinistro prese fuoco poco dopo il decollo da Libreville e il pilota spense per errore quello destro, facendo così precipitare l’aereo: morirono tutti i 30 passeggeri, non si salvò nessuno. Su quel volo doveva salire pure Kalusha Bwalya, spauracchio dell’Italia ai Giochi olimpici del 1988: per fortuna, verrebbe da dire, era impegnato in Europa col PSV Eindhoven e avrebbe raggiunto il Senegal con mezzi propri. Diciannove anni dopo, in occasione della Coppa d’Africa giocata proprio in Gabon, andò a tributare un omaggio agli ex compagni assieme ai giocatori della nazionale. Che onorarono la memoria dei caduti vincendo per la prima volta l’ambitissima Coppa. La storia, in qualche modo, restituiva allo Zambia il maltolto.

La morte di Petrović
Nel 1992–93 Drazen Petrovic gioca la sua miglior stagione NBA, gioca 70 partite con i New Jersey Nets, con una media di 22.3 punti. Il campione croato è una macchina da punti. Ne segna 112 al debutto al Cibona Zagabria, 62 con il Real Madrid nella finale di Coppa delle Coppe 1989 contro la Snaidero Caserta, 2380 in 135 partite con la nazionale jugoslava, quarto record di sempre. Vince i Mondiali ma litiga con l’amico fraterno Vlade Divac, che durante i festeggiamenti butta via una bandiera croata che un tifoso aveva portato a Petrović. È proprio con la nazionale che gioca la sua ultima partita. Partecipa con 30 punti al successo sulla Polonia a Wroclaw ma non torna con la squadra. Si concede un giorno di riposo a casa di amici in Germania. Petrović decide di tornare in macchina. C’è lei al volante della Golf, Petrović vuole riposare. Probabilmente non si accorge nemmeno dell’impatto con il camion che arriva dalla direzione opposta. A 28 anni muore una stella, inizia la leggenda.

Nasce la Premier League
L’11 maggio 1993 il campionato inglese si chiude con l’ottavo titolo del Manchester United, sospinto dai gol di Hughes, dal carisma di Cantona e dall’entusiasmo di un giovanissimo Giggs. Nulla di cui meravigliarsi, se non fosse per la nuova dicitura assunta dalla massima serie: Premier League. Quel banale cambio di denominazione, in realtà, rivoluziona il destino del calcio d’Oltremanica. Per sempre. La parola magica è “diritti televisivi”: l’accordo con BSkyB e BBC per la trasmissione in diretta di 60 partite sui canali satellitari porta nelle casse dei club 304 milioni di sterline, in quel momento il contratto più remunerativo di sempre nella storia dello sport britannico. Impossibile dire di no, tanto più che è stato lo stesso Rupert Murdoch a mettere sul piatto l’offerta. La Premier League non solo arriverà a soppiantare la Serie A come campionato più bello del mondo, ma diverrà anche un brand spendibile sui mercati esteri grazie alla conoscenza della lingua inglese a tutte le latitudini. Lo show più richiesto, insomma, nell’era dello sport come industria del divertimento. Per ripulire la brutta immagine degli anni Ottanta, poi, l’allora primo ministro Margareth Thatcher aveva varato tra il 1989 e il 1990 una serie di misure ferree: niente barriere tra tribune e campo e solo posti a sedere allo stadio, sorveglianza affidata a steward privati pagati dai club, vendita di alcolici vietata dentro gli impianti e prezzi dei biglietti alle stelle. La violenza degli hooligans, almeno all’interno dello stadio, era definitivamente estirpata ma, di contro, le radici popolari del football andavano a farsi benedire.

Il primo posticipo
Fino all’estate del 1993, una regola vigeva su tutte nel calcio italiano: si giocava tutti alla stessa ora, che variava tra le 14.30 e le 16 a seconda delle stagioni. Poi tutti a vedere i gol durante “90° minuto”. Quell’estate lo “sportivo da poltrona” deve introdurre un nuovo termine nel suo personalissimo vocabolario: posticipo. La Lega Calcio, infatti, per la prima volta vende i diritti tv criptati a Telepiù che paga 44,8 miliardi di lire l’anno per tre anni per trasmettere 28 partite di serie A e 32 partite di serie B. L’era dei posticipi inizia alle 20,30 del 28 agosto 1993: Lazio-Foggia 0–0, con la telecronaca di Massimo Marianella. Il calcio non sarà più lo stesso.

“Quelli che il calcio”
Insieme ai posticipi, il tifoso italiano nel 1993 riscopre anche in tv il lato più leggero, goliardico del pallone. Il 26 settembre su Rai 3 inizia “Quelli che il calcio”. L’allora direttore Angelo Guglielmi approva un progetto, seppur abbozzato, di Marino Bartoletti che ne parla con il capostruttura Bruno Voglino. Il programma vuole portare in tv le radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto, e insieme gli appassionati da rendere un po’ personaggi (Idris o Suor Paola), le mogli dei calciatori e i personaggi dello show business. Tutti dentro una jam session nel segno della passione che unisce l’Italia. Il tassello più difficile è trovare il conduttore. Bartoletti va perfino a Spoleto per tentare di convincere Dario Fo, che ha allestito “Mistero Buffo”, ma l’opposizione di Franca Rame fa naufragare l’idea. Così Gugliemi finisce per accettare il nome di Fabio Fazio. E non se ne pentirà.

Più Europeo non si può
I campionati europei degli sport acquatici sono stati istituiti nel lontano 1926, ma quelli ospitati a Sheffield dal 29 luglio all’8 agosto 1993 furono — parafrasando una celebre frase di George Orwell — più Europei degli altri. Nella (fu) città dell’acciaio, che tentava di risalire dalla depressione del decennio precedente, andarono in scena i primi campionati dopo la stipula del Trattato di Maastricht che aveva istituito l’Unione Europea. Soprattutto, erano venute a mancare due grandi potenze come Urss e Jugoslavia. Nessuno ci fece granché caso: tra gli uomini il campione da battere era ancora lo zar Aleksandr Popov — poco importava se ora gareggiava sotto la bandiera russa — e nelle tre specialità del nuoto sincronizzato le atlete moscovite e pietroburghesi fecero incetta di ori. Come, del resto, la quindicenne (sic!) Franziska van Almsick che tra staffette e 50, 100 e 200 stile libero trionfò per ben sei volte. Nella pallanuoto maschile, poi, la dissoluzione della Jugoslavia lasciava presagire nuove gerarchie: ne approfitta il Settebello di Ratko Rudić che, dopo l’oro al cardiopalma ai Giochi di Barcellona, mette al collo pure quello europeo 46 anni dopo il primo, e fin lì unico, titolo continentale. Nel torneo femminile, invece, il Setterosa si ferma ai piedi del podio: pian piano i ruoli s’invertiranno e le ragazze di Pierluigi Formiconi diverranno una nazionale pressoché imbattibile vincendo tutto. Oro olimpico incluso.

Jordan sull’altalena
Nella straordinaria carriera di Michael Jordan, il 1993 è stato forse l’anno più intenso e travolgente. Nel bene e nel male. L’8 gennaio, contro i Milwuakee Bucks, la guardia tiratrice mette a segno il suo punto numero 20mila dopo 620 gare — solo Wilt Chamberlain aveva saputo fare meglio — e pare essersi perfettamente adattato a un nuovo stile di gioco che lo vede lontano dal canestro e più operativo dal perimetro. Ma, alla vigilia di gara-due dei playoff contro i New York Knicks, viene pizzicato a fare le ore piccole al casinò di Atlantic City e la notizia suscita malumori. L’anno prima, poi, è uscito un libro, The Jordan Rules, che mette a nudo il suo vizietto per le scommesse nelle sfide di golf e per il gioco d’azzardo. Il campione non si lascia tuttavia distrarre: nella vittoriosa serie contro i Phoenix Suns fa registrare la media punti più alta nelle finali NBA (41) e viene eletto miglior giocatore per la terza stagione di fila, un privilegio mai toccato ad altri in precedenza. “Vincere tre titoli di seguito era un mio obiettivo, perché né Thomas, né Magic, né Bird ce l’hanno fatta. Non sto dicendo di essere più forte di loro, ma il fatto che solo io ci sia riuscito vorrà dire qualcosa” sono le parole di Jordan. Che tuttavia il 6 ottobre annuncia il suo clamoroso ritiro. Dice che è venuto meno il desiderio di giocare, ma la vera mazzata è stata l’assassinio del padre James da parte di due adolescenti durante l’estate. Per fortuna dei Bulls, e del basket, la sua uscita di scena sarà sola temporanea.

Articolo a cura di Simone Pierotti e Alessandro Mastroluca

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Simone Pierotti
Crampi Sportivi

Giornalista pubblicista (ex) pallanotista. Trapiantato a Viareggio ma con il cuore rimasto ad Atene