5 centimetri al secondo

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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15 min readDec 18, 2015

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Si lancia rapidamente nel vento che soffia dal monte Rokko
Come il grande Sole che sorge nel chiaro cielo blu
Lo spirito potente della giovinezza mostra la grazia della vittoria
Il nome degli Hanshin Tigers risplende nella gloria.

Il vento del Monte Rokko è l’inno dei tifosi degli Hanshin Tigers, la squadra di baseball della regione del Kansai. E’ presente in tutti i karaoke-bar di Osaka.
Quello che state per leggere è il resoconto di un’intensa giornata ad Osaka, attraverso gli incontri — reali o immaginari — con 5 personaggi strettamente legati alla città giapponese e (apparentemente) del tutto scollegati tra loro.

Il colonnello Sanders

Il ponticello Ebisu-bashi è il centro del mondo. Nel cuore di Osaka, era stato costruito nel Seicento per favorire l’accesso al tempio di Ebisu, protettore dei pescatori, una delle sette divinità giapponesi della fortuna. Oggi il ponte è esso stesso un tempio, santuario della vita mondana nella terza città del Giappone. Collega Shinsaibashi-suji e Ebisubashi-suji, i quartieri dello shopping più sfrenato. Neon psichedelici, odori penetranti, ubriaconi da birra superdry, burattinai nostalgici, geishe ondeggianti. Ragazzi e ragazze si danno appuntamento a tutte le ore del giorno e della notte sulle graziose scalinate laterali: il ponte è stato ribattezzato Nampa-bashi. Pickup Bridge per i turisti.

Si passeggia e si mangia su Ebisu-bashi, il ponte che sembra una piazza. Fu restaurato la prima volta nel 1935. L’ultima solo pochi anni fa, quando la struttura è stata ripensata in modo alternativo. Motivo? Rendere più complicato tuffarsi nel fiume.

Nel 2003, infatti, un 24enne era morto dopo un tuffo nel Dōtonbori. Stava festeggiando, con migliaia di altri tifosi, la vittoria degli Hanshin Tigers nella Central League, la super competizione — roba da oltre 100 partite stagionali — che qualifica alle Japan Series. Parliamo di baseball, uno dei vizietti dei ghiottoni che abitano Osaka.

Un’esultanza sfrenata da parte dei tifosi dei Tigers — va detto — è sempre più che giustificata. La squadra, pur essendo tra le più seguite della NPB (la Nippon Professional Baseball), soffre di un atavico complesso di inferiorità nei confronti dei Giants di Tokyo: il team del Kansai è riuscito a conquistare il titolo nazionale solo una volta, nel 1985.

Quella volta la gioia a Osaka era stata incontenibile: migliaia di tifosi si erano riversati a Dōtonbori, sul ponte Ebisu-bashi. I nomi degli eroi della squadra venivano scanditi a gran voce ad uno ad uno e, a ogni nome, un tifoso dall’aspetto simile all’atleta acclamato — non è dato conoscere i criteri di somiglianza — si tuffava nel canale. Arrivato il momento della stella della squadra, l’americano Randy Bass, per ovvi motivi non si trovò nessuno che gli somigliasse: Bass aveva barba e tratti caucasici. I tifosi giapponesi pensarono allora di gettare nel canale la statua in plastica del colonnello Harland Sanders che era esposta all’esterno di un KFC: L’iconico fondatore di Kentucky Fried Chicken, infatti, era barbuto e americano, proprio come Randy Bass.

Quello che i tifosi non sapevano era che quella bravata avrebbe rappresentato l’inizio di una lunga maledizione per i Tigers: si disse che la squadra non avrebbe vinto più nulla fino al recupero completo della statua dal fondo del fiume, uno dei più inquinati della città. Nei 18 anni successivi, ovviamente avari di soddisfazioni, i tentativi di recupero furono numerosissimi; furono impiegati invano persino dei sommozzatori, e i tifosi si scusarono ufficialmente con la KFC. Ma la squadra rimase maledetta.

Nel 2003, appunto, la svolta. I Tigers conquistano il titolo di conference, e tutti — compreso tale Masaya Shitababa — sono convinti che l’incantesimo sia finalmente spezzato. In vista dei festeggiamenti, i punti vendita KFC decidono di spostare all’interno dei negozi le statue del Colonnello Sanders, e quella sostitutiva nel negozio di Dōtonbori viene fissata al suolo con dei chiodi. Sono oltre 5300 i tifosi che si tuffano nel canale: il povero Shitababa perde la vita, inducendo le autorità a programmare un ripensamento strutturale del ponte. Superfluo dire che la maledizione del colonnello sarebbe continuata e i Tigers avrebbero poi perso le finali per il titolo nazionale.

Sei anni dopo, un sommozzatore credette di aver rinvenuto un cadavere nel Dōtonbori. Invece era proprio lui, il baffuto colonnello Sanders. Gli mancavano però un paio di pezzi: occhiali e mano sinistra sono tuttora dispersi. E il palmares degli Hanshin Tigers recita ancora oggi “Titoli nazionali: 1”.

Glico Man

Mi trovo proprio sul ponte Ebisu-bashi e come molti cerco di rimanere immobile, braccia in alto e gamba sinistra sollevata, nell’attesa che uno sconosciuto mi scatti una foto. Su una delle pareti luminosissime ai lati del ponte c’è il neon di Glico Man, uno dei simboli di Osaka e tra i testimonial pubblicitari più famosi della storia. Si tratta di un non meglio specificato atleta che corre i 300 metri e che taglia, esultante, il traguardo. La Ezaki Glico, da noi nota come Mikado, l’ha issato lì nel lontano 1935 per sponsorizzare il suo snack al caramello. Lo snack contiene 15.4 kilocalorie, la quantità di energia necessaria a correre esattamente 300 metri. Mikado è diventata famosa in tutto il mondo per i suoi pokkin, i biscotti a forma di sottile bastoncino ricoperti di cioccolato. In Giappone sono un’autentica mania tra i giovanissimi, nei bar vengono regolarmente serviti insieme a un bicchiere di acqua ghiacciata.

Lo sconosciuto che mi ha scattato la foto con Glico Man alle spalle me ne ha appena offerto uno al gusto di fagiolo azuki. Il giovane fotografo si chiama Masatoshi e, con la fidanzatina Yari, si sta godendo un pomeriggio di shopping in centro. I due, non più di 25 anni a testa, sono disponibilissimi: mi hanno scattato qualcosa come trentasei o trentasette foto, nella speranza di aver indovinato almeno uno scatto che mi aggradi. Come quasi tutti i giapponesi, non parlano granché bene l’inglese, ma sanno scriverlo dignitosamente.

Stiamo provando a comunicare digitando domande e risposte su una schermata del mio iPhone, ripassandoci il telefono a vicenda. Io gli scrivo che sto cercando di arrivare all’Osaka-jo, il castello di Osaka, che è l’enorme pagoda che si intravede alle spalle di Glico Man. I due parlottano per un paio di minuti, poi Yari ride e infine mi ripassa il telefono: “We can not explain very well. If you want, we go with you to the castle.

Arigatò, ho due guide d’eccellenza.

Yasuhito Endō

Se ti capita di nascere in Giappone e di essere un tipo preciso e ordinato, non è detto che il tuo destino sia quello di lavorare in un’azienda di alta ingegneria elettronica. Potrebbe succedere di diventare un formidabile lanciatore di baseball, ad esempio. E potresti pure vincere, se non finisci a giocare nei maledetti Hanshin Tigers.

Un po’ più raramente, invece, succede che a casa tua non ci siano giocattoli che non abbiano forma sferica, che i tuoi fratelli preferiscano il sakkā (calcio), che diventino professionisti e che tu decida di imitarli, anche se sei vagamente pingue e non esattamente un fulmine di guerra. Ebbene, Yasuhito Endō — detto Yatto — non si è limitato a superare in grandezza calcistica i suoi due fratelli: è diventato la leggenda più splendente del pallone nipponico. Il geometra più creativo di Kagoshima. Lo Xavi dagli occhi a mandorla.

Tra il 2003 e il 2012 è stato inserito per dieci volte consecutive nella formazione ideale della J-League, un record assoluto. E sempre con la maglia nerazzurra del Gamba, la squadra di Osaka dal nome tutto italiano. Sì, Gamba sta ad indicare l’arto da cui idealmente partire per fondare una squadra. Il colpo di genio tutto giapponese è l’assonanza con la parola ganbaru che vuol dire qualcosa tipo “fa’ il tuo meglio.”

467 presenze e 93 gol, quasi tutti su calcio piazzato. Endō ha legato indissolubilmente la sua figura di direttore d’orchestra talentuoso e raffinato al team fondato dalla Panasonic nel 1980. Era stato prelevato nel 2001 dai Purple Sanga di Kyoto, divenendo ben presto il fulcro del gioco della squadra giovane e ambiziosa guidata in panchina da Akira Nishino; sarebbe diventato leggenda conquistando uno scudetto, due coppe dell’Imperatore e soprattutto una Champions League asiatica in soli cinque anni.

È il 2008, i nerazzurri superano in finale l’Adelaide United con un 5–0 complessivo. Al mondiale per Club del dicembre successivo, il Gamba si arrende in semifinale al Manchester United, ma torna a Osaka con un prestigiosissimo terzo posto dopo la finalina contro i messicani del Pachuca: è il punto più alto della storia della giovane franchigia. Ma l’idillio con la buona sorte non durerà troppo a lungo.

Solo quattro anni dopo la conquista della Champions, il Gamba retrocede in J.League 2 al termine di un campionato concluso al 17° posto nonostante un attacco più prolifico persino di quello dei campioni di Hiroshima, il Sanfrecce (la conoscete la storia del nome “Sanfrecce”, vero?).

A fine 2013 Endō e i suoi sono di nuovo in Division 1. Yatto c’è sempre stato. Come Del Piero e Buffon, non ha esitato a seguire la squadra di cui è icona immortale nella seconda serie nazionale. Certo, nemmeno ha mai nascosto il legittimo desiderio di tentare l’avventura europea: nel 2006 e nel 2008 è stato vicinissimo ad un trasferimento oltreoceano, ma un principio di epatite C prima e un virus poi hanno trattenuto in patria il blue samurai, che nel 2009 si è consolato vincendo il pallone d’oro asiatico.

L’unicità della storia di Endō sta proprio nel fatto che sia riuscito a diventare leggenda pur non avendo mai varcato i confini nazionali. Icona globale, come Kagawa, Uchida e Honda, pur rimanendo nel giardino di casa. Simbolo di un Giappone nuovo, ambizioso, non più adagiato sugli allori del benessere accumulato dalla generazione dei corporate samurai, che avevano rinunciato alla propria vita privata pur di garantire un futuro roseo al Paese.

Il Giappone, oggi, è un paese vecchio, con un’economia stagnante e una crescente delusione sociale. Nel 1979 Ezra Vogel aveva pronosticato che il Giappone sarebbe stato, negli anni 2000, la potenza che avrebbe guidato il mondo insieme agli Stati Uniti. Trentacinque anni dopo, la storia è molto diversa. Anche sportivamente le cose non vanno granché bene. La J.League, ad esempio, sembrava essere la nuova frontiera del pallone negli anni ’80, ma non è mai riuscita ad accrescere più di tanto il suo appeal. Tornei come la MLS americana o la Super League indiana attraggono, oggi, molti più capitali. Il calcio del Sol Levante, senza campioni di grido, ha scoperto di avere un disperato bisogno di personaggi come Nagatomo, lo studente di Tokyo divenuto campione, che ha destinato i ricavi della sua autobiografia alle vittime dello tsunami del 2011.

Yasuhito Endō ha dichiarato che invece non scriverà nessun libro, ma non ha alcuna intenzione di mollare. Dopo la malinconica fine del ciclo di Alberto Zaccheroni e la tanto breve quanto contestata gestione di Javier Aguirre, le apparizioni di Yatto in maglia blu sono diventate sempre più rare. Il nuovo selezionatore Halilhodžić non l’ha mai convocato, e la sua ultima presenza da capitano del Giappone risale alla Coppa d’Asia dello scorso gennaio. Il coach bosniaco è convinto di poter prescindere dall’essenziale precisione di Endō, 152 presenze in nazionale. Il diretto interessato, in purissimo Yatto Style, non sembra pensarla allo stesso modo. “Non ho intenzione di lasciare la Nazionale. Non esiste. Voglio continuare a giocare per il Giappone, e spero che me ne venga data la possibilità. Anzi, ne sono sicuro”.

Johnny Mason

-Do you want otafuku sauce on your okonomyaki?
-Of course I do.

Non so cosa sia la salsa otafuku né tantomeno che aspetto abbia un okonomyaki. Ma mi trovo a Osaka. Kyō nokidaore, Ōsaka no kuidaore: a Kyoto ti vesti fino a star male, a Osaka mangi fino a star male. Si dice così da queste parti.

Gli intellettuali della vecchia Edo hanno contribuito a creare lo stereotipo — tutt’altro che infondato — di Osaka come città della perdizione. Se nella capitale l’aspirazione principale è da sempre la cultura samurai (poveri ma generosi, casti e ricchi di qualità morali), a Osaka ha sempre contato un po’ di più l’apparenza. Gli osakans sono considerati avidi, gretti, ingordi.

La gola è il peccato-simbolo di Osaka ancora oggi: il Guardian ha recentemente eletto la città giapponese capitale mondiale del cibo. Nessuna sorpresa, dicono storia e geografia: città di mercanti, oceano vicinissimo, ingredienti di alta qualità, tra cui un’acqua pura come poche, gentilmente offerta dalle montagne circostanti.

Masatoshi e Yari, prima di condurmi finalmente al castello, hanno voluto guidarmi in cima all’Umeda Sky Building, uno degli edifici più alti della città. Dall’osservatorio del giardino pensile si può godere di una vista niente male sull’infinita distesa di grattacieli che è la downtown. Contestualmente si può gozzovigliare in allegria nel ristorante adiacente.

L’okonomyaki è una delizia. Una specie di pancake agrodolce, una frittata di grano e uova cucinata direttamente sul teppan, la piastra calda posta in mezzo ai commensali. Il papà di Licia, quella di Kiss me Licia, ve lo ricordate? Ecco, lui gestiva un negozio di okonomyaki. Wikipedia dice sibillina che la loro preparazione richiede “abbastanza tempo”. Piccoli negozi di okonomyaki si trovano dappertutto, nei pressi del fiume Dōtonbori. Sono diventati una delle attrazioni principali della zona, da quando, nel ’45, gli ultimi teatri rimasti nel distretto furono bombardati.

Mentre Masatoshi usa con maestria una spatola in legno per offrirmi una fetta di questa cosa buonissima, io non posso non notare il suo portachiavi. Ha la forma di una divisa da calcio, nerazzurra del Gamba, con il numero 7 sulle spalle. E chi è il numero 7 del Gamba Osaka, secondo voi? È Yasuhito Endō, praticamente da sempre.

Masatoshi mi racconta che la sua è una specie di vocazione adulta. È diventato tifoso del Gamba a fine 2005, quando Endō e compagni vinsero il campionato più incredibile della storia del Giappone. Prima dell’ultima giornata, c’erano cinque squadre in lotta per il titolo. Di più: il Gamba, a 11 minuti dal termine della stagione, era soltanto quinto. Mentre molti cominciavano a chiedersi quale potesse essere la soluzione tutta giapponese per assegnare lo scudetto in una situazione in cui in testa c’erano quattro squadre a pari punti, Endō trasformò il calcio di rigore più importante della sua carriera: i nerazzurri espugnavano Kawasaki proprio mentre la più accreditata delle ormai ex capolista — il Cerezo — faceva harakiri in casa, pareggiando con una squadra di metà classifica. Il Gamba era campione nazionale per la prima volta.

Il mio nuovo amico mi mostra raggiante alcune foto dei festeggiamenti di quel giorno, ovviamente sul ponte Ebisu-bashi. All’epoca non aveva ancora conosciuto Yari, il calcio era il suo unico amore.

L’anno scorso la storia si è ripetuta, se possibile, ad un livello più alto: il Gamba, neopromosso, ha vinto il suo secondo titolo. Sempre all’ultima giornata, sempre grazie a un’incredibile serie di risultati favorevoli. Niente di nuovo, direte. Il punto è che contemporaneamente i rivali del Cerezo, l’altra squadra di Osaka, sono riusciti nell’impresa di retrocedere, nella stagione in cui potevano sfoggiare una coppia d’attacco scintillante: Forlan-Cacau.

(E il Cerezo languirà almeno per un’altra stagione in J.League 2: solo pochi giorni fa ha perso lo spareggio-promozione contro il Fukuoka; il Gamba, invece, è andato vivissimo al titolo anche in questo 2015, sconfitto solo in finale dal Sanfrecce. Le ultime due stagioni di Yasuhito Endo, in tutto questo, parlano di 12 gol segnati e oltre 20 assist serviti ai compagni: Yatto è ancora tra i migliori del campionato. Un suo compagno di squadra ha detto recentemente di lui “Con quella personalità, non mi stupirei se vivesse e giocasse a pallone fino a 200 anni.”)

Nel frattempo il mio incantevole okonomyaki è ormai un piacevole ricordo. Masatoshi e Yari hanno deciso che adesso mi porteranno a Den Den Town, il quartiere-paradiso dei fumetti.

Lungo il tragitto io non riesco a pensare che all’orribile destino del Cerezo, la faccia perdente di Osaka, assurto di diritto nell’olimpo delle squadre del mio cuore. Yari invece riflette su una notizia che pare averle rovinato la giornata: incalzato sul tema, le ho confessato di non avere una fidanzata. Si è intristita, non riesce a darsi una spiegazione: “It’s a tragedy, I feel so bad”, ha digitato sull’iPhone.

Beh, bisogna dire che il Cerezo in realtà non è esattamente “l’altra squadra di Osaka”. Fondato dalla Yanmar nel 1957, ha assunto la denominazione attuale nel 1993, quando fu un contest tra i tifosi a decidere come si sarebbe chiamata la più antica franchigia di Osaka nella nascente J-League. Vinse Cerezo, e non c’entrava nulla il mitico Toninho, brasiliano ex Roma e Samp. Cerezo significa ciliegio, in spagnolo. La parola semplicemente “suona molto bene”, dice il sito ufficiale della squadra. E in più il ciliegio è l’albero-simbolo di Osaka.

In tutto il Giappone, a partire dal periodo Nara, i mesi da marzo a maggio coincidono con l’hanami. Alla lettera significa “contemplare i fiori”. Sotto gli alberi dipinti di rosa pallido, da oltre un millennio si è soliti comporre poesie e bere sake, a primavera. Il fiore di ciliegio rappresenta insieme la bellezza e la caducità della vita; simbolo di tutte le arti marziali, è il migliore tra i fiori, esattamente come il samurai è il migliore tra gli uomini. L’ufficio metereologico giapponese ogni anno annuncia con cura quali saranno le probabili date della fioritura in tutto il Paese, e le tv seguono con speciale attenzione lo spostamento del fronte della fioritura da Sud verso Nord.

Nello stemma del Cerezo, accanto a un lupo danzante, c’è un fiore di ciliegio. Sotto, l’orgogliosa dicitura Osaka Fc. La vera squadra di Osaka. Gli altri, d’altra parte, quelli del Gamba, nacquero solo quando le riserve dello Yanmar decisero di trovarsi un’altra sistemazione: da allora, il derby è uno degli eventi più attesi della stagione. La rivalità è accesa, le coreografie spettacolari, gli stadi pieni. Spesso e volentieri si contano oltre 6.000 spettatori anche per un Gamba — Cerezo under 18.

Shinji Kagawa è cresciuto nel Cerezo; Keisuke Honda, invece, ha vestito il nerazzurro fino al 2001. Masatoshi mi fa notare che in realtà il calciatore più famoso della storia dei suoi rivali lo posso incontrare molto facilmente, qui a Den Den Town, in tutti i negozi di manga che colorano le strade. Basta sfogliare un numero qualsiasi di Captain Tsubasa, l’epopea che noi conosciamo come Holly e Benji: tra i protagonisti c’è Johnny Mason, numero 9 della mitica New Team. Divenuto professionista, fu acquistato proprio dal grande Cerezo.

Makoto Shinkai

Il ritardo medio dei treni sulla linea Shinkansen è inferiore ai dieci secondi. La metro di Osaka non funziona molto peggio, e i suoi 2,9 milioni di passeggeri giornalieri apprezzano. La linea Tanimachi si ferma nei pressi del castello di Osaka, la mia meta odierna. Simbolo dell’unificazione del Giappone, fu completato nel 1590 da Toyotomi Hideyoshi. Samurai, feudatario, uomo di cultura, Hideyoshi fu in grado di farsi costruire una sala da tè portatile, tutta d’oro, che trasportava con sé ovunque. Osaka-jo, il castello più maestoso del Paese, serviva a proteggere la via verso Kyoto. Il suo giardino, con oltre 600 ciliegi, è il posto più incantevole per celebrare l’hanami. E’ pieno autunno adesso, e di fiori rosa non v’è nemmeno l’ombra. Masatoshi e Yari mi fanno convincere del fatto che la prossima volta che verrò a Osaka — accento sulla prima o — dovrà essere in primavera.

L’oscurità si fa largo negli ombrosi fossati del castello mentre Masatoshi mi rivela, con costernazione, che la loro giornata con me sta per terminare: domattina lui ha un turno straordinario nella startup informatica di cui è cofondatore.

Questo giovincello e la sua innamorata hanno scelto di trascorrere il loro sabato insieme a uno sconosciuto italiano che gli aveva chiesto una banale foto da turista sul ponte Ebisu-bashi. Dopotutto, poco di cui sorprendersi: Masatoshi e Yari sono connazionali di tifosi che, prima di lasciare lo stadio, si accertano di lasciare gli spalti ben puliti; sono concittadini di uomini e donne che, quando sbocciano i fiori di ciliegio, sentono il bisogno di andare a contemplarli, e di verificare se davvero i petali cadono a una velocità di 5 centimetri al secondo, come nel capolavoro di Makoto Shinkai; sono cugini di Yasuhito Endō, l’uomo che ha costruito il suo mito senza tempo nonostante una famiglia che lo avrebbe preferito giocatore di baseball.

Gli uomini e le donne di Osaka affollano gli stadi e i pachinko club, i ristoranti e le fumetterie, con lo stupore di chi tenta di guardare alla vita come a un enorme gioco. Imprevedibile, misterioso, irrinunciabile. Il filosofo Eugen Fink, quando scrisse che il gioco “è l’unica attività capace di aprire un’oasi di libertà in cui l’uomo realizza la sua natura di essere intelligente”, doveva avere in mente gli abitanti di Osaka.

Pochi giorni fa Masatoshi e Yari mi hanno mandato un invito su Line, l’applicazione di messaggistica che spopola da quelle parti. Presto si sposeranno e voleranno in Europa per il loro viaggio di nozze. Vogliono sapere quanto siano distanti Roma e Venezia, e se io potrò incontrarli per un saluto e un gelato insieme.

Il Guardian, parlando di Osaka, della sua cucina e dei suoi abitanti, ha usato l’espressione “insaziabile ingordigia di vita”. La mia giornata ad Osaka, banalmente programmata a matita su un Lonely Planet tascabile e poi gloriosamente trasformatasi in una visita guidata nel cuore di quel folle luna park che può essere una metropoli giapponese, si è rivelata un incontro ravvicinato con le infinite declinazioni che può assumere la tensione vitale di un popolo che, con il suo approccio inconfondibilmente intenso rispetto ad ogni singola vicenda dell’esistenza, non può mancare di affascinare.

Tornerò, tra qualche anno. Promesso. Perché il tempo qui corre molto più rapido dei petali di ciliegio, e pure dei treni superveloci. Ma certe cose le lascia intatte. Sono certo, infatti, che le foto dei turisti sul ponte Ebisu-bashi continueranno a venire mosse, che gli okonomyaki si conserveranno gustosi come sempre, che Yasuhito Endō seguiterà a disegnare calcio ancora molto a lungo. Altre cose sono invece destinate a cambiare, e allora è probabile che prima o poi il colonnello Sanders riesca finalmente a recuperare occhiali e mano sinistra, e che gli Hanshin Tigers tornino a vincere dopo decenni. Chissà, magari anch’io avrò una fidanzata. La mia amica Yari ne sarebbe di sicuro sollevata.

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