A che punto è l’hockey italiano

Crampi Sportivi
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3 min readJan 30, 2018

Quando il 13 febbraio, sul fondo della Arena di Gangneung, sul ghiaccio scivolerà il primo puck della 23° Olimpiade, la Nazionale italiana non ci sarà. A dirla tutta, se pur reduce da un ottimo Mondiale sotto il profilo della tenacia e del carattere (meno dal punto di vista dei risultati, ma questo lo vedremo), l’assenza del Blue Team — questo il nickname della selezione di hockey di casa nostra — non è una sorpresa.

Nelle qualificazioni alla rassegna a cinque cerchi, infatti, il passaggio del turno della prima fase e l’ultimo posto nel girone in quella successiva non sono bastati agli Azzurri per strappare il pass per Pyeongchang, ma l’analisi sullo stato di salute dell’hockey italiano deve andare ben oltre l’assenza ai Giochi Olimpici, nonostante quella in Corea del Sud sia la terza edizione senza la partecipazione del Blue Team. Se prendiamo in considerazione le sole edizioni del dopoguerra, un risultato peggiore l’aveva ottenuto soltanto tra il 1968 e il 1980, quando — da Grenoble a Lake Placid — l’Italia mancò l’appuntamento in quattro occasioni consecutive, comprese Sapporo 1972 e Innsbruck 1976.

La situazione dell’hockey in Italia assomiglia a quella di tanti sport minori, come per esempio il rugby: si tratta infatti di una disciplina diffusa soltanto “a macchia di leopardo” nel territorio, lontano dai grandi centri e limitata a piccole comunità, costrette quotidianamente a confrontarsi con problemi di bilancio, mancanza di sponsor e disinteresse di media e televisioni. Visto che si tratta di una disciplina invernale, inoltre, la diffusione dell’hockey in Italia è chiaramente limitata alle valli del centro-nord: fatta eccezione per Bolzano, l’assenza di club di livello in centri che tra gli anni ’80 e ’90 hanno scritto pagine importanti di questo sport, del calibro di Varese e Milano, rende la strada ancora più in salita. Negli ultimi anni, il Blue Team soffre della “sindrome del pendolo”, oscillando tra la top élite delle Nazionali mondiali e la Divisione A. Quest’ultima è diventata una sorta di seconda serie occupata dalle realtà che siedono subito dopo la top 16 del ranking mondiale.

E così, senza possibilità di confrontarsi a pari livello con altre grandi selezioni del globo e senza elementi da NHL o KHL che vestono la divisa di un club italiano, a Pyeongchang l’Italia ci andrà solo da spettatore.

La sconfitta in overtime contro la Slovacchia all’ultimo Mondiale.

Nonostante i sette k.o. in sette match incassati nell’ultima edizione del Mondiale di Colonia, il movimento non è morto. Dal punto di vista dei tornei, il trasferimento del Bolzano in Ebel (campionato internazionale che mette opposti i migliori club di Austria, Slovenia, Ungheria, Repubblica Ceca e Croazia) e l’ingresso otto società del calibro di Asiago, Gherdeina e Cortina in Alps League (medesimo torneo nel quale però si affrontano squadre italiane, slovene e austriache di seconda categoria) ha alzato il livello o, comunque, ha permesso a questa disciplina di superare gli stantii confini nazionali.

A Colonia, nonostante la debacle tecnica, dopo oltre vent’anni il Blue Team ha presentato un organico composto completamente da elementi italiani, fatta eccezione per due oriundi: una rivoluzione in confronto a quanto accadeva negli anni precedenti, quindi segno che la crescita e lo sviluppo dei talenti locali sta funzionando. La guida tecnica, al termine dei Mondiali, è intanto passata da Stefan Mair a Clayton Beddoes: un’ex conoscenza canadese dei Boston Bruins in NHL nel ruolo di centro, che — chiusa la sua carriera agonistica a Vipiteno — ha fatto poi ritorno in Italia da coach, allenando prima Cortina e sposando poi la causa nazionale nello staff tecnico del Blue Team da assistente e ora finalmente da capo-allenatore.

A lui, dunque, il compito di risollevare la sorti italiane e scrivere un futuro diverso all’hockey azzurro. Il futuro è ancora tutto da scoprire.

Articolo a cura di Andrea Dimasi

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