A modo suo, sul tetto del mondo

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
Published in
4 min readJul 30, 2016

Gli eroi giovani e belli a Gianni Brera non piacevano più di tanto. Preferiva i volti scavati fatalmente dalla fatica, gli sguardi pallidi della provincia, le canotte impregnate di sudore. Sarà per questo motivo che Attilio Pavesi, ragazzotto piacentino di bella presenza che aveva nella baldanza e nella spensieratezza i suoi maggiori pregi, non lo convinse mai più di tanto.

Basti pensare che nel ricordare la sua figura, quella di un doppio oro olimpico vinto partendo da riserva ai Giochi di Los Angeles del 1932, Brera non decantò mai le sue lodi, né tantomeno si mise a scrivere la storia piena di riscatto dell’undicesimo figlio di un pollivendolo che, per gli strani casi della vita, si ritrova sul tetto del mondo con vista sul lungomare di Malibu. No, si limita solamente a ricordare fugacemente il giovane ciclista come un usurpatore, un ladro che ha rubato, per fortuna sua e sfortuna altrui, il titolo al più quotato Gepin Olmo, suo compagno di squadra in Nazionale, piazzatosi in quarta posizione alla fine della gara.

Non si sa bene chi abbia ragione o meno — Brera, quando Pavesi vinceva le Olimpiadi nella città degli angeli, aveva solamente 13 anni -, ma ci fa capire come il campione olimpico nato a Caorso l’1 ottobre 1910 non abbia goduto di chissà quale fama. D’altronde pensare che la vittoria di Pavesi sia stata casuale, per quanto possa essere casuale un trionfo assoluto in una cronometro di 100 km, non è così sbagliato.

Lo dimostra la sua carriera: passato tra i professionisti nella Maino avendo come compagni di squadra gente come Learco Guerra e Costante Girardengo, Pavesi balzerà agli onori della cronaca solamente per un ultimo posto al Giro d’Italia nel 1934 e per una vittoria al Giro di Toscana. Un po’ poco per quel dilettante di belle speranze che, con la maglia azzurra e lo scudo sabaudo, aveva fatto esultare l’Italia fascista del tempo con due ori olimpici, uno nella gara individuale e l’altro in quella a squadre.

Ragazzo affabile e senza pretese, lavoratore infaticabile sin dalla tenera età (e vicino di casa di Enrico Fermi per un certo periodo), ingenuo pedalatore che ebbe modo di fare il militare anche con il grande Giuseppe Meazza, Pavesi arrivò negli Stati Uniti per le Olimpiadi a fari spenti. Scelto come riserva per i Giochi di Los Angeles del ’32 dopo un quinto posto nella gara di qualificazione preolimpica disputata a San Vito al Tagliamento, avrebbe dovuto avere un ruolo da comprimario. Fu invece il più lucido e il più fresco mentalmente e fisicamente tra gli azzurri ad approdare sul suolo americano.

Nei giorni di traversata — partenza da Napoli, arrivo a New York — si preparò al meglio sul pontile del transatlantico Conte Biancamano. Poi in un coast to coast in treno durato cinque giorni per giungere a Los Angeles, Pavesi rafforzò la sua posizione e guadagnò un posto tra i titolari, sfruttando la debolezza e la fiacchezza dovute al viaggio di un compagno, il veneto Zaramella. Il 4 agosto 1932 l’esito della gara, una cronometro il cui ordine d’arrivo stilava sia la classifica individuale che quella a squadre, stupì tutti. Partito ultimo senza alcuna speranza ma con la testa sgombra di qualsivoglia pensiero, Pavesi fu protagonista di una prova eccezionale lungo le coste del Pacifico.

La vittoria del ciclista piacentino aprì le feste per il trionfo azzurro: secondo si piazzò Guglielmo Segato, quarto il Giuseppe Olmo tanto amato da Brera, penalizzato a dire di quest’ultimo per esser partito tra i primi con un gran numero di macchine a ostruirgli la strada. I tre vinsero così anche la medaglia d’oro per la cronometro a squadre. Inutile dire che, sul traguardo posto in una Santa Monica mai così italiana, il più festeggiato in quell’occasione fu Pavesi: per lui si aprirono persino le porte di Hollywood tanto che fu accompagnato da Anita Page, a quel tempo una delle dive del cinema muto, a scoprire i set della Metro Goldwyn Mayer.

Tornato in patria con i suoi compagni, Pavesi ricevette gli elogi di un entusiasta Mussolini. Fu però lo stesso Duce, con la sua politica estera sconsiderata, a spegnere suo malgrado ogni residua velleità agonistica del ciclista di Caorso. Difatti, nel 1937, Pavesi approda a Buenos Aires per una sei giorni su pista che si prolungherà oltremodo. Nella città argentina vive una delle sue sorelle, il clima e l’ambiente popolare gli piacciono non poco e soprattutto in Italia ci sono venti di guerra che non lo convincono.

Il campione olimpico, che delle ambizioni non sa che farsene, decide così di cambiare vita: strappa il biglietto di ritorno per l’Italia, complici diversi transatlantici bloccati al porto, e si stabilisce definitivamente a Buenos Aires confermandosi un outsider vincente del ciclismo e della vita. A 27 anni, ad appena un lustro dal suo doppio trionfo olimpico, si ritira dalle corse, apre un negozio di biciclette e lì si rintana con un sorriso spensierato e i tanti ricordi dei giorni gloriosi che furono per il resto dei suoi giorni.

Morirà alla veneranda età di 101 anni, poco distante dalle sponde del Rio de la Plata non prima di esser tornato in Italia per ricevere una medaglia commemorativa dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e vedere il suo nome associato al Velodromo di Fiorenzuola.

Alessandro Buttitta — Nato per caso a Milano nel dicembre 1987, giornalista e insegnante, scrive di televisione, serie Tv e fumetti per Huffington Post e altre testate. Ha un debole per la pizza, i cavalieri dalla triste figura e i trequartisti di provincia.

--

--