A night in Kinshasa — Intervista a Federico Buffa

Crampi Sportivi
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6 min readMar 22, 2018

È il primo marzo e mentre fuori nevica a Manerbio, nel teatro Politeama, c’è grande curiosità per il secondo spettacolo teatrale di Federico Buffa, intitolato “A night in Kinshasa”, che ripercorre gli snodi principali che hanno portato allo scontro sul ring di Muhammad Ali e George Foreman. Federico Buffa è uno di quei personaggi in grado di cambiare forma e dotato di una grande voglia di imparare cose nuove, tanto da trovare un suo posto nel nuovo lavoro in cui si è calato.

Avvocato, telecronista e attore teatrale. Le tre professioni che ha svolto in ordine cronologico, con un’unica grande costante come punto di incontro: lo sport. Prima di indossare i panni di attore, mi concede alcuni minuti per poter scambiare alcune parole riguardo allo spettacolo e allo sport.

Per rompere il ghiaccio gli domando che cosa ci si debba aspettare dal suo “A night in Kingshasa”. La risposta è probabilmente una di quelle che fornisce più spesso ai suoi intervistatori e lo capisco dalla fluidità con cui parla:

«Lo spettacolo ascolta cosa è stato quel match. La location è Kinshasa in Africa, la prima volta nella storia. Non solo a Kinshasa, ma in Africa in generale: per vederne un altro occorrerà aspettare i mondiali di calcio del 2010. Nello spettacolo sono presenti le percussioni, il più antico suono della storia dell’uomo. Le percussioni sono la sezione ritmica dello spettacolo, le suonano Alessandro Nidi insieme a suo figlio Sebastiano Nidi».

Buffa spesso nel corso di altre interviste ha definito l’incontro tra Ali e Foreman come l’evento sportivo più importante del XX secolo. Proprio per questo, provo a domandargli quale sia, a suo parere, l’evento sportivo più sottovalutato che meriterebbe di essere approfondito:

«Questa è la prima volta che me lo chiedono (attende qualche secondo prima di iniziare a parlare, ndr)… questa è una bellissima domanda! Non saprei dirti al momento. Credo che si sottovaluti molto il continente africano in generale, quindi dovrei cercarlo in Africa da qualche parte.

Posso solo dirti che secondo me ci sono due sport nel mondo che hanno una grande attenzione in una determinata parte del mondo e nel resto del mondo non sono tanto visti: sono il rugby e l’hockey sul ghiaccio.

Ho letto recentemente la descrizione di una partita di hockey sul ghiaccio dei mondiali del 1969 tra la Cecoslovacchia e la ex Jugoslavia. Per quelle nazioni, in particolare per la Cecoslovacchia fu un momento che non aveva eguali, ma non solo per il momento storico, perché per loro l’hockey sul ghiaccio è lo Sport. C’è una marea di gente che non sa quando si giocano i Mondiali e, se si giocano, fai appena in tempo a vedere chi ha vinto l’ultimo oro olimpico, tra l’altro vinto dalla Russia dopo tanti anni. L’altro sport è il rugby perché possiede una liturgia che non ha nessun altro sport, però poi ci sono intere parti del mondo che non lo seguono. Sono i media oggi che determinano l’importanza dell’evento sportivo prima ancora che l’evento sportivo si qualifichi».

Dato che abbiamo toccato il tema dei media in riferimento all’influenza che hanno sulle gare sportive, non posso esimermi dal chiedergli cosa pensi dell’incontro che ha visto combattere sullo stesso ring Mayweather e McGregor: «L’incontro in questione è esattamente l’opposto di quello che ha visto contrapporsi Alì e Foreman. È un match che negli USA definirebbero overhyped, cioè che ha raggiunto una risonanza mediatica spaventosa in relazione alla qualità». Successivamente lancia una suggestione:

«Pensa ad Alì versus Foreman oggi, in Africa. Sarebbe una cosa in grado di cambiare l’orizzonte del cielo.

Nel 1974 avevi a disposizione la radio e la televisione in banco e nero. Il rovescio della medaglia, cioè la minore assistenza dai media, ha certamente un lato positivo per cui quello che vedi, e quello che vedi è poco, è quello che sai. In questo modo c’è spazio per la fantasia e per l’epicità». Sempre sul tema dei media, gli domando come vede il mondo degli articoli di approfondimento legati allo sport in Italia: «Credo sia un buon momento da questo punto di vista. Si è ritrovato il piacere della letteratura sportiva, un fenomeno che si era spento con la cultura dell’immagine che aveva assunto un ruolo dominante. E siccome tutto quello che succede è in linea di massima ciclico, ora c’è un ritorno della letteratura in un momento in cui comunque l’immagine resta dominante».

La conversazione si sposta poi sul valore dello sport in Italia: «La parola sport non viene menzionata nella Costituzione Italiana, il ministero dello sport è stato istituito qualche anno fa; lo Stato ha delegato ad altre associazioni, in particolare del mondo cattolico, la formazione dei giovani italiani dal punto di vista sportivo. La maggior parte dei calciatori fino alla metà degli anni ’70 crescevano negli oratori e poi andavano nelle società sportive. Si è pensato che lo sport, dato che proveniva da un mondo italiano che lo esaltava tanto, andasse trattato in maniera secondaria perdendoci nell’importanza capitale del valore sociale dello sport. Secondo me quel ritardo noi lo continuiamo a pagare ogni giorno in tanti aspetti, per esempio nell’educazione sportiva che i ragazzi hanno a casa loro.

C’è una frase meravigliosa di un giocatore degli anni ’70, poi diventato allenatore, Ezio Vendrame, che ha detto: “Vorrei allenare una squadra di orfani per non avere a che fare con i genitori che non hanno idea di cosa sia lo sport e pensano di saperlo”».

Gli chiedo se uno dei fattori di questa mentalità sia frutto dell’educazione scolastica: «Lo sport a scuola non c’è. Lo stato ha abdicato, cosa vogliamo pretendere? La cosa fantastica in questo Paese è che, contro tutto e contro tutti, ci sono le donne. Sono loro a portare medaglie alla nostra nazione, lo dimostrano le olimpiadi di Pyeongchang e anche le precedenti edizioni. Nonostante tutte le difficoltà che hanno, la famiglia, le circostanze climatico psichiche, o forse proprio perché si trovano in questa determinata situazione ci mettono qualcosa di più».

In seguito tocco un tema a Buffa molto caro, cioè la memoria: «La memoria è un muscolo, come i tuoi quadricipiti, i suoi bicipiti (indicando una ragazza) e tutto il resto. Se li alleni tendono a rispondere, ti danno qualcosa indietro. La memoria ha poi un valore simbolico, non soltanto fisico: è quello che ci permette o dovrebbe permetterci di comprendere quello che accade oggi guardando indietro. Ricordati che ho perso mia madre per l’Alzheimer, una persona che ha perso la cognizione di sé 10 anni prima di morire, quindi nella mia visione del mondo è morta con 10 anni di anticipo». Prima di salutarlo e lasciarlo allo spettacolo, tento di scalfire lo scudo della sua umiltà e gli domando se ha mai pensato al ricordo che lascerà di sé, dato che si stava parlando della tematica della memoria. Federico si mette a ridere e pronuncia la parola “Arrivederci” che chiude definitivamente l’intervista.

Provo a rispondere io a questa ultima domanda. Il ricordo che lascerà sarà legato ai termini chiave toccati in questa intervista: memoria, approfondimento e, come legante, la letteratura sportiva.

Federico Buffa è stato probabilmente colui che, in Italia, ha permesso che accanto alla cultura delle immagini da lui definite dominanti, si sviluppasse un modo di intendere lo sport con elementi epici.

Ha riportato all’attenzione del pubblico un certo modo di raccontare le vicende sportive e si è fatto conoscere per la sua preparazione, che non si limita allo sport, ma si estende a molti altri ambiti. Questa conoscenza, unita alla passione, rappresenta il suo tratto stilistico e lo restituisce al palco, come davanti alle telecamere delle televisione, come un autentico gigante.

Articolo a cura di Massimiliano Venturini

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