A Sarajevo, prima della guerra, i conflitti si risolvevano giocando a calcio
Mi ricordo, di Lituania-Bosnia dell’ottobre 2013, l’inganno. I ragazzi di Sušić che si qualificavano al loro primo Mondiale, aggirando il pericolo degli spareggi già un paio di volte fatali (sempre contro il Portogallo), quella partita che non si sbloccava, l’innesco d’azione di Dzeko, il goal semplice e storico di Ibiševic, Pjanic che piange nel dopopartita e non smette di guardare la festa grande delle tribune, come a dire Quindi siamo questa cosa qui, una nazionale di calcio. È un buon requisito per essere un Paese, molto spesso. Una lingua una moneta una bandiera una nazionale di calcio. Quasi sempre vero, per la Bosnia è più complicato.
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Quando nel novembre scorso quella nazionale ha perso la qualificazione a Euro 2016 contro l’Irlanda, ho pensato che il calcio dice la verità, perché stare nel mondo — partecipare a un Mondiale — ma non riuscire a stare in Europa, per un Paese affacciato sull’Adriatico che si chiama Bosnia Erzegovina, è soprattutto una verità politica.
La prima città di cui ho avuto coscienza è stata, com’è per tutti a qualunque latitudine, la mia. La seconda è stata Sarajevo, e qui invece c’entrano molto l’essere nati negli anni Ottanta e la televisione. Ho solo sfiorato la consapevolezza che fosse caduto un muro, da qualche parte, ma la guerra nei Balcani l’ho saputa, certe notti me la sognavo e aveva il volto di un dittatore estraneo a quell’area geografica, ma io registravo le brutte notizie tutte assieme, la geopolitica sarebbe arrivata solo più tardi a cercare di spiegarmi le cose, spesso non riuscendoci.
A Sarajevo, prima della guerra e come in molti altri luoghi, i conflitti venivano risolti giocando a calcio. I bambini — lo racconta Aleksandar Hemon nel suo Libro delle mie vite — erano divisi in raja, parola che da noi starebbe per “gruppi”, “bande” contrapposte tra loro (per intenderci: il più famoso raja della letteratura è quello dei Ragazzi della via Pál). C’è un ragazzino, nel libro di Hemon, che si chiama Zeko (aggiunga pure, chi vuole, una d a piacere) e sta a capo di un raja imbattibile, perché Zeko ha il potere di stabilire cosa costituisce o non costituisce un fallo, di attribuirsi goal che non lo sono e di annullare quelli validi degli altri. Ma a un certo punto i goal finiscono, finiscono i falli e i raja vengono sciolti: interviene la guerra; arriva un conflitto che non solo non si risolve con il gioco del calcio, ma dal calcio — da uno stadio — comincia (dopo, a guerra terminata, tutti gli stadi saranno distrutti).
È il maggio 1990 e già da qualche tempo le curve sono diventate il vivaio dei violenti, il focolaio dei nazionalismi repressi, il luogo di formazione di raja diversi: adulti, paramilitari; i capi non sono più ragazzini che si chiamano Zeko (quello con la d è nato a Sarajevo 4 anni fa, tra tre anni sua madre gli salverà la vita grazie a un presentimento, non mandandolo a giocare al solito campetto di calcio in un giorno sfortunato per tanti — in seguito la loro casa sarà distrutta dalle granate); adesso i capi sono criminali che hanno alle spalle delitti e prigionia.
Il calcio dice la verità ma sul calcio si dicono molte bugie: che unisca, per esempio, non è del tutto vero. Il 13 maggio 1990, allo stadio Maksimir si gioca la partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa. La parola Maksimir è una crasi tra il nome del vescovo Maksimilijan e la parola mir, pace; letteralmente vuole anche dire “il massimo della pace” — questa è una storia piena di paradossi. Oggi, al Maksimir di Zagabria c’è una targa che ricorda quella giornata: non la partita — che non ebbe neanche il tempo di cominciare — ma l’inizio della guerra. Il 13 maggio ’90 le due tifoserie ormai sono due eserciti, i calciatori sono costretti a scappare negli spogliatoi anche se ce n’è qualcuno che rimane a difendere i tifosi caricati dalla polizia. Ce n’è uno anzi, un ragazzo della Dinamo di ventidue anni, che passa all’azione: con un calcio, come se davanti a sé ci fosse il pallone, come se ci fosse la normalità del gioco, frattura la mascella di un agente. Il giocatore si chiama Boban, Zvonimir Boban. Anche lui ha mir, la pace, dentro al nome (tradotto letteralmente sarebbe: campanello di pace), ma il gesto gli costa caro: dovrà saltare i Mondiali in Italia (poco male, arriverà comunque, e sarà una storia lunga).
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L’Italia e due nazionali ai capi della guerra — la jugoslava, prima; la costola bosniaca poi: è una storia intrecciata che parte proprio dal Mondiale delle notti magiche, un Mondiale che parla la lingua della geopolitica e dice soltanto la verità, anche con ironia: l’albergo che a Montecatini ospita gli jugoslavi guidati da Ivica Osim (ct dall’86 allo scioglimento della squadra nel 1992) è l’Hotel della Pace, come dire che la squadra è lontana, è protetta dall’inferno della sua terra. Recentemente un Gigi Riva (il giornalista, non il calciatore) ha riscritto la storia della Jugoslavia e di Italia 90 nel libro L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra. È il racconto di una nazionale che in quei giorni si scopriva a pezzi e faceva eco da lontano a un Paese smembrato, un Paese che non esisteva più, a cui non si poteva più tornare.
Io di quei giorni mi ricordo Un’estate italiana, me la ricordo non a posteriori, mi ricordo che la cantavo, e parlava di frontiere abbattute e di follia risolta negli abbracci. Però la nazionale jugoslava mi manca, mentre quella bosniaca ce l’ho. Ho amato, della nazionale bosniaca, il fatto che per capirla, per capirci qualcosa, bisognasse usare proprio quella parola che a un certo punto dovette sembrare impossibile ai giocatori per primi: il verbo tornare. Si è, sin dall’inizio, trattato di ritorni, e l’Italia è stata la tappa intermedia, lo scalo, persino mentre laggiù, a destinazione, ancora proseguivano gli spari.
Nell’aprile 1994 — da qui a un mese scompariranno Senna, Di Bartolomei, mi cambia volto l’album delle leggende viventi — la nazionale bosniaca gioca un’amichevole contro il Bologna. La Bosnia vince per 2 a 1, uno slogan improvvisato recita “Una nazionale contro la guerra” e Fifa e Uefa cominciano a pensare a quel riconoscimento ufficiale che arriverà solo, rispettivamente, tra due e quattro anni. Ma è già incredibile che questi ragazzi esistano, che esistano insieme.
Li sono andati a recuperare in tutta Europa, la guerra li ha disseminati ovunque, si è trattato di convincerli a tornare per una cosa che vale quanto una lingua una moneta una bandiera: essere una nazionale di calcio. Haris Skoro, attaccante che negli ultimi tre anni è stato in Italia, al Torino, e Faruk Hadžibegić, l’ultimo capitano della Jugoslavia, l’autore del rigore sbagliato nel quarto di finale di Italia 90, hanno lavorato assieme per radunare una ventina di giocatori bosniaci sparsi ai quattro angoli. Hanno reclutato Slišković, la cui storia è legata a quella del Pescara tra passione e addii, Omerović dalla Turchia, Peštalić dal Portogallo, Kodro dalla Spagna, tre giocatori dalla Germania, altri tre dalla Francia. È troppo presto per fare la conta di quelli che potevano esserci e hanno preso altre strade, per adesso si riparte da chi c’è.
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Il 6 novembre 1996, poco dopo la fine degli spari, tocca all’Italia attraversare l’Adriatico. È la prima partita di calcio internazionale a Sarajevo dallo scoppio della guerra. Prima di giocare, la nazionale italiana va alla caserma Tita a salutare i soldati, poi all’ospedale pediatrico. Lo stadio è al centro di due cimiteri di guerra; il palazzo del ghiaccio, lì accanto, è diventato a cielo aperto per colpa delle bombe. I parà della Folgore, sugli spalti, sono scatenati; l’Italia non va, questa sarà l’ultima partita di Sacchi commissario tecnico, ma Zola esprime così il sentimento di tutti: «Vorrà dire che abbiamo regalato un pomeriggio di gioia alla gente di Sarajevo». Da uno stadio si erano aperte le ferite, a uno stadio si torna per sanarle. Là erano esplose le tensioni, qua si tenta una riunificazione difficile. Difficile? Impossibile. Infatti, è un’illusione.
La Federcalcio mantiene per anni tre presidenze distinte, la musulmana-bosniaca, la croata, la serba. Nel 2002–2003 nel Paese si gioca il primo campionato unico nazionale, ma nel 2011 la Fifa è costretta a sospendere la Federazione — un luogo divenuto nel frattempo degno set di un film d’azione, tra personaggi ambigui e corruzione — e a pretendere un solo presidente di nuovo nel tentativo di dare unità, in nome di quella speranza — speranza, non verità — che vuole il calcio grande abbraccio collettivo. I croati di Bosnia tifano sempre più la nazionale della Croazia, e così i serbi, legati prima alla nazionale greca, poi alla Serbia (le partite della nazionale bosniaca non vengono ancora trasmesse in diverse zone del Paese, dove l’esclusione da Euro 2016 sarà festeggiata). La Bosnia fa la conta, adesso sì, di quelli che potevano essere presenti all’appello, che erano bambini durante la guerra e hanno giocato a calcio diventando adulti altrove, sparsi e riconoscenti ai Paesi che hanno dato asilo.
Della nazionale bosniaca che conquista il Mondiale 2014 e di quella che manca la qualificazione all’imminente Europeo è interessante soprattutto immaginare il volto che avrebbe potuto avere. Haris Seferović, classe 1992, gioca per la nazionale svizzera; Josip Iličič, 1988, è nato nel territorio dell’attuale Bosnia, è stato profugo di guerra, possiede passaporto croato e gioca per la Slovenia; Neven Subotić, 1988, nato nell’attuale Bosnia, esule con la famiglia in Germania e in Florida, gioca per la nazionale serba; Vedran Ćorluka, 1986, e Dejan Lovren, 1989, entrambi nati nell’attuale Bosnia, hanno scelto la nazionale croata per origini familiari. Poi c’è il caso più clamoroso, quello di Zlatan Ibrahimović: nato già in Svezia ma di origini bosniache, si dice che suo padre lo avesse proposto in prima battuta alla Federcalcio bosniaca; evidentemente, non se ne fece nulla.
Sono — tutti — ritorni mancati, a fronte di quelli — compiuti — dei ragazzi in maglia bianco e blu. Asmir Begović, 1987, ha già giocato per il Canada quando sceglie di passare nella nazionale bosniaca; Vedad Ibišević, 1984, segue la famiglia in Svizzera e negli Stati Uniti ma gioca da subito per la Bosnia; Miralem Pjanić, 1990, gioca per il Lussemburgo un Europeo under 17, salvo poi diventare un pilastro della nazionale bosniaca; Izet Hajrović, 1991, dopo un’amichevole giocata con la nazionale Svizzera chiede alla Fifa di passare in quella bosniaca; Senad Lulić, 1986, vive in territorio di guerra l’intera infanzia, si trasferisce nel 1998 in Svizzera, sceglie la nazionale bosniaca; Ermin Bičakčić, Sejad Salihović, Zvjezdan Misimović (ritirato dalla Nazionale dopo Brasile 2014), sono i “bosniaci di Germania”. E poi c’è Haris Medunjanin, 1985, che scappa da Sarajevo all’inizio della guerra con sua madre e sua sorella; suo padre avrebbe dovuto raggiungerli e muore invece durante l’assedio della città. Haris cresce in Olanda, e con l’Olanda esordisce in nazionale, salvo poi scegliere — appunto — di tornare a casa.
Ma il giocatore simbolo della nazionale bosniaca è un altro, un ragazzo del 1987, che in realtà in nazionale non ha giocato così tanto. Ervin Zukanović è nato a Sarajevo; nel 1992 la sua famiglia è salita su uno degli ultimi treni che si muovevano verso Lubiana e da lì ha riparato in Germania, dove solo sei mesi dopo le autorità hanno negato il prolungamento del visto respingendo gli Zukanović di nuovo a Sarajevo, a quel punto assediata. E qui Ervin viene salvato da Predrag Pašić, il centrocampista dell’FK Sarajevo degli anni Settanta e Ottanta, che in piena guerra e a un passo dalla più martoriata delle strade della città, apre una scuola calcio per bambini che si chiama Bubamara, “coccinella”. Ervin è uno dei duecento e oltre bambini, di tutte e tre le etnie, di tutte le religioni, che si presentano agli allenamenti sfidando l’occhio dei cecchini tutt’intorno.
La nazionale bosniaca non è bubamara, non è la squadra di tutti, è la squadra di chi ha scelto di esserci, la squadra a cui riesce questa cosa, stare nel mondo senza stare in Europa, la squadra di giocatori che sono innanzitutto storie, di un giocatore che si chiama Miralem — anche lui ha mir, la pace nel nome — che piange più forte degli altri per l’emozione, e poi due anni dopo piange più forte degli altri per la delusione, perché sa che se il calcio non sa davvero unire, i successi a volte ci riescono.
La nazionale jugoslava mi manca, quella bosniaca ce l’ho, ma per questi ragazzi — per chi ha scelto di tornare, per chi ha scelto di non farlo — in questo Francia 2016 alle porte è la prima delle squadre che mi mancheranno.