Abby’s Road
Vancouver, 5 luglio 2015. Qualche settimana fa, una signora con molteplici battaglie alle spalle si presenta ai microfoni dopo l’ultima partita in nazionale. Sta festeggiando un alloro importante, atteso da più di un decennio. Quando la intervistano, lei stenta a crederci: «Nei primi 16 minuti siamo state fenomenali. Anche le giocatrici che non hanno passato il taglio sono state importanti per questo successo. Questa è follia, non posso crederci che possiamo finalmente chiamarci campionesse del mondo. This isn’t real life!».
Abby Wambach ha 35 anni e ha deciso di smettere dopo il Mondiale conclusosi in Canada. L’ha fatto da vincitrice, lei che ha vinto tanto ma aveva un’unica grande mancanza nella sua carriera: il titolo di campionessa del mondo. Strano a dirlo, ma gli Stati Uniti — con la nazionale femminile più famosa e spesso più forte sul pianeta da vent’anni — non vinceva il Mondiale da 15. Solo una straordinaria finale al BC Place ha permesso alla USWNT di chiudere la competizione da trionfatrici. E Abby non ci credeva neanche.
Soccer is the (feminine) way
Quando parliamo di calcio femminile, è facile associare l’immaginario collettivo a quello degli Stati Uniti. Se il soccer (noi europei facciamo ancora fatica con questo termine) ci ha messo un trent’anni ad avere un certo successo in campo maschile, con le donne è stato amore a prima vista. Il primo match della USWNT è del 12 agosto 1985, quando le ragazze statunitensi giocarono in un Mundialito proprio contro l’Italia (vincitrice di due edizioni su quattro e sempre in finale).
Nel 1991, la Fifa decide finalmente di organizzare il primo Mondiale femminile di calcio. A ospitarlo è la Cina, a vincerlo — come diverse volte dopo quella — saranno gli Stati Uniti, che possono vantarsi del loro Triple-Edged Sword, ovvero un trio d’attacco formato da Carin Jennings, April Heinrichs e la famosissima Michelle Akers. Quest’ultima, insieme a Mia Hamm (di cui qualche romanista avrà sentito parlare), è stata una delle due uniche donne nominate da Pelé nel 2004 per il FIFA 100, la lista dei 125 giocatori più forti del XX secolo.
Non solo: il calcio femminile si prende uno spazio strabordante negli Stati Uniti non solo a livello di risultati, ma persino d’immagine. Dopo aver vinto la medaglia d’oro ad Atlanta nel 1996, bastano tre anni perché gli Stati Uniti organizzino il Mondiale a casa loro. La Coppa del Mondo femminile del 1999 è il momento di svolta definitivo per l’USWNT. Ogni volta che giocano, le ragazze guidate da Tony DiCicco hanno allo stadio ALMENO 50mila persona a sospingerle.
Nell’ultimo atto del Rose Bowl di Pasadena (lo stesso teatro di Italia-brasile del ’94), ci sono 90,185 spettatori per assistere a un trionfo annunciato. In realtà, la Cina è un avversario più duro del previsto e ci vogliono i rigori. Quando Brandi Chastain mette dentro il penalty decisivo, si toglie la maglia ed esulta con il reggiseno sportivo addosso. Forse è l’immagine per eccellenza del calcio americano, tanto da meritarsi la copertina di Sports Illustrated, Newsweek e persino del Time.
Almeno 40 milioni di persone guardarono anche per poco quella gara. Per battere questo record, il calcio maschile ha dovuto attendere la sfida contro il Portogallo dell’ultimo Mondiale. Da quel momento in poi, gli Stati Uniti saranno come condannati a vincere, sempre e comunque. In questo quadro di “trionfo a tutti i costi” delle donne, si inserisce la storia di Abby Wambach. Forse la più grande di tutti.
Le stimmate del talento
Abby è nata nel 1980 a Rochester, una città nello stato di New York. Cresciuta in una famiglia in cui è la più giovane di sette figli, a soli quattro anni decide che la sua vita sarà il calcio. Una decisione così netta che la porta a stupire tutti: quando la piccola Abby entra nella squadra femminile a cinque anni, segna 27 gol in sole tre partite. Sono letteralmente costretti a portarla nella squadra maschile, altrimenti straccerà tutti.
Un episodio particolare lo racconta il fratello della Wambach, Matthew: «Mi ricordo che era competitiva più che mai. Una delle prime volte in cui capì che sarebbe arrivata lontano fu durante un match di football. Lanciai la palla a uno dei vicini e Abby lo placcò: quando lei si rialzò, lui era ancora a terra che si lamentava dal dolore. Lei avrà avuto 11–12 anni… non penso che quel ragazzo fosse pronto a esser atterrato in quella maniera».
Alla Our Lady of Mercy High School, le sue medie-gol sono spaventose: in quattro anni segna 142 gol e di lei si accorgono anche in nazionale giovanile. Una volta passata alla University of Florida, il suo contributo è tale che ancora oggi è nella Hall of Fame dell’accademia. Viene scelta a Washington e gioca quattro anni con la maglia dei Freedom. Il problema è però un altro. Se la nazionale ha grande seguito, i club non hanno la stessa fortuna: la squadra della capitale, ad esempio, gioca nel campionato professionistico per poi dedicarsi a dei match amichevoli.
Wambach continua a seguire la sorte dei Freedom, trasferendosi in Florida con la squadra, diventata proprietà di Dan Borislow, magnate della compagnia telefonica hi-tech magicJack. Stesso nome per la squadra, in cui Abby non è solo una giocatrice o la capitana, ma anche manager del club. L’idillio dura poco, perché alla fine la Women’s Professional League chiude i battenti della franchigia e costringe la Wambach a cercarsi un’altra squadra.
Quando nasce la nuova National Women’s Soccer League, Abby torna nella Grande Mela per giocare con i Western New York Flash. Ora si trasferirà a Seattle dopo aver iniziato la stagione 2015 in ritardo: tutto per prepararsi al meglio per il Mondiale con la nazionale. Del resto, lei è sempre stata una che ha dato tutto per gli Usa.
Being a legend
Dopo aver esordito nel 2001 con l’USWNT, la Wambach ne diventa un punto fermo. Specie dopo i ritiri della Hamm, della Akers e di Kristine Lilly, la Wambach diventa una dei leader della Nazionale. Non solo punto di riferimento emotivo della squadra, ma anche molti gol importanti. Come quello che regala l’oro olimpico ad Atene (2–1 al Brasile ai supplementari — link: ) o quelli che portano gli Stati Uniti alla finale di Londra 2012. Sono due ori olimpici che sarebbero potuti esser tre: a Pechino 2008 la Wambach non c’era per un grave infortunio.
Tuttavia, l’appuntamento con la storia è previsto per il 20 giugno 2013: alla Red Bull Arena del New Jersey, l’USWNT ospita la Corea del Sud. Sanno tutti che potrebbe esser una serata magica, perché la Wambach è a due gol da Mia Hamm, la donna con più reti segnate non solo con gli Stati Uniti, ma anche nella storia del calcio internazionale. In mezz’ora prima la raggiunge, poi la supera. Due incornate, tanto per cambiare. La panchina esulta e il mondo la esalta: lei, intanto, mette a referto un poker.
Alla fine di quell’anno, la Wambach è nominata nella top 11 di tutti i tempi del calcio americano. A questo riconoscimento, ne va aggiunto un altro, arrivato nel gennaio di quell’anno: mentre Messi alza il suo quarto Pallone d’Oro, la Wambach vince il suo primo.
Eppure, essere una leggenda non basta. Aver tante medaglie d’oro, segnato come se non ci fosse un domani, combattuto come una leonessa… no, tutto questo non può bastare. Manca qualcosa, manca il Mondiale.
L’ultimo atto
Il Mondiale è diventato una sorta di maledizione per l’USWNT. Da quel caldo pomeriggio di Pasadena, sono passati 16 anni. La foto di Brandi Chastain sembra più un ricordo d’antiquariato che la vera forza degli Stati Uniti. Ci sono stati tre Mondiali: la Wambach ha visto la sua squadra due semifinali con due black-out clamorosi (nel 2003 lo 0–3 con la Germania, nel 2007 lo 0–4 col Brasile). E poi c’è stata la finale del 2011, persa ai rigori contro il Giappone. La Wambach forse sognava di chiudere così) quella partita alla Commerzbank-Arena di Francoforte.
Una maledizione che è perdurata nonostante tante cambiamenti. Per chi non segue il calcio femminile, è giusto ricordare come le gerarchie siano molto diverse rispetto al mondo maschile. Nel Mondiale 2015, le squadre africane e quelle nord-centro americane erano molte di più di quelle sudamericane (appena tre). L’Asia ne portava quattro, mentre la Spagna ha esordito in Coppa del Mondo solo quest’anno.
La Wambach aveva già annunciato come questo sarebbe stato il suo ultimo Mondiale:
«Ogni delusione ti dà ulteriore motivazione per provarci. So che saremo pronti e proveremo a portar a casa la coppa. Questa è la mia ultima chance».
Una rassegna da secondo attore per la Wambach, non più protagonista indiscussa. Quando Christie Rampone — capitana di lungo corso — sedeva in panchina, Abby è partita titolare solo tre volte. A portare la fascia quindi era Carli Lloyd, poi decisiva nelle sorti dell’USWNT. Per altro, la Wambach ha segnato un solo gol in tutta la competizione (quello decisivo contro la Nigeria).
Quando gli Stati Uniti hanno cominciato a fare sul serio, la Wambach è entrata in campo a match già iniziato. È stato così dai quarti di finale in poi, quando l’attaccante veniva utilizzata dall’80° minuto in poi. È accaduto anche nell’ultimo atto di Vancouver: la partita era ampiamente decisa dopo il primo quarto d’ora. C’è stato anche l’ultimo incrocio con un’altra grande che si ritira, Homare Sawa: capitana del Giappone, è stata anch’ella giocatrice dell’anno per la Fifa ed era alla sua sesta partecipazione a un Mondiale (record).
Il finale è stato tutto per la Wambach. Bacio con la moglie in tribuna, la Lloyd che le cede la fascia di capitano una volta entrata in campo e l’alzata della coppa insieme a Christine Rampone, anch’ella al passo d’addio.
Una pesante eredità
Sempre nel dopo-gara, l’attaccante ha ammesso serenamente: «Posso lasciare tranquilla. Carli (Lloyd) è una grandissima guida per questa squadra. Sono così felice che non riesco a raccontarvelo. Questa vittoria è per tutti: porto questo piccoletto a casa con me (indica la medaglia d’oro, ndr), ma in realtà è per tutti coloro che ci hanno supportato».
In fondo, la Wambach può salutare da vincitrice. Non solo perché ha finalmente conquistato l’alloro che le è sempre mancato, ma anche perché la sua storia parla da sola. Sei volte calciatrice dell’anno, ha fatto meglio persino di Mia Hamm (ferma a cinque), Kristine Lilly (tre) e Michelle Akers (una). Non sappiamo se qualcuna potrà superarla, ma lei è riuscita a far meglio delle sue senatrici.
Abby ha chiuso la sua esperienza nell’USWNT con 249 presenze e 183 gol. Primatista assoluta tra i cannonieri, con una media-gol migliore di Mia Hamm. Ha segnato almeno un gol in 12 gare del Mondiale ed è la seconda giocatrice all-time per partite e gol in Coppa del Mondo (rispettivamente 25 gare e 14 reti). Ora magari la Wambach punterà a nobilitare il calcio femminile, perché lei stessa ha affermato ultimamente che le giocatrici vogliono solo esser trattate come i loro colleghi maschi, persino nelle critiche.
Hai ragione, Abby: questa non è vita reale, ma i risultati di una strada non facile da seguire. La Abby’s Road, che ha un’unica massima, riassunta dalla stessa Wambach: «Non ho mai segnato un gol senza l’aiuto di una compagna».
Articolo a cura di Gabriele Anello