Addio, middle class

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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4 min readSep 27, 2017

La sparizione delle squadre di fascia media della NBA “non è avvenuta in una data precisa. Sono cose che misteriosamente accadono, come la comparsa dei biscotti Togo al cioccolato. Tutto è cambiato.” Se diamo un’occhiata alla NBA di qualche anno fa, vediamo come ogni anno erano numerose le contender più o meno accreditate o accreditabili a poter lottare per la conquista dell’anello. Un’aggiustatina qui, una puntellatina lì; un rimbalzista in meno, un tiratore da fuori in più ed ecco che una squadra con una superstella nel roster si trasformava in una potenziale squadra da titolo.

Poi c’erano gli infortuni, la sfiga, l’annata storta del play e chi più ne ha più ne metta, ma tutto sommato bastava poco. Relativamente poco, però la squadra da titolo si costruiva su un tipico asse: superstella, secondo violino, terzo e quarto titolare solidi, nonché funzionali al sistema di gioco. In più, un quinto titolare che non faccia troppi danni e almeno un cambio specifico per ruolo (per le guardie, le ali e il pivot). Per arrivare a 15 in rosa, poi, si lavorava di fantasia. A un certo punto, però, lo schema ha cominciato un po’ a scricchiolare, senza mai incrinarsi davvero: quando qualche giocatore a fine carriera arrivava a firmare al minimo salariale per una squadra da titolo, in genere le cartucce migliori le aveva già sparate. Comunque a volte funzionava (Payton, per dirne uno), ma più spesso no (Karl Malone e Charles Barkley solo per citare i due più noti).

Forse il turning point sono stati i Boston Celtics di Garnett, Pierce e Ray Allen. Tre giocatori nel pieno della propria maturità agonistica (Allen aveva 32 anni nel 2007, Garnett 31, Pierce 30), con contratti pesanti — oltre 56 milioni di dollari in tre — che accettano di guadagnare un po’ meno di quanto avrebbero potuto per portarsi a casa l’anello. Che infatti arriva al primo anno. Al terzo arriva di nuovo la finale NBA, persa in sette gare contro i Lakers. Finita l’era dei Big 3 di Boston, inizia quella degli Heat: a Dwyane Wade, in un’estate Pat Riley porta a South Beach anche Chris Bosh e soprattutto LeBron James. Risultato? Quattro finali in quattro anni, due titoli vinti.

Ma è con la firma di Durant ai Golden State Warriors che il banco salta definitivamente: a una squadra che aveva già tre All-Star (Steph Curry, Klay Thompson e Draymond Green), si aggiunge uno di quelli che è considerato uno dei 4–5 migliori giocatori al mondo. Non c’è neanche da dirlo: Golden State, che aveva vinto un titolo NBA due anni prima e l’aveva buttato via l’anno precedente, diventa una squadra ingiocabile, vince le prime 15 (QUINDICI!) partite di play-off consecutivamente e chiude la campagna per il titolo con un eloquente 16–1.

Ma com’è stato possibile tutto ciò? Gli innalzamenti che via via sono stati fatti al salary cap hanno fatto sì che i Warriors abbiano potuto elargire 26,5 milioni a Durant, 16,6 a Thompson, 15,3 a Green, 12,1 a Curry, 11,1 a Iguodala. Se la cosa vi sembra abbastanza grossa giù così, beh, diventa ancora più grossa quest’anno con il rinnovo di Curry. Golden State infatti ricompenserà il suo numero 30 con 34,7 milioni, a cui vanno aggiunti 25 a Durant, nonché i ritocchi a Thompson, Green e Iguodala. Se volete la cifra esatta di quello che guadagnerà il quintetto dei Warriors quest’anno, Basketball Reference ci informa che ammonta a 108.723.515 dollari. E ne avanza per firmare Nick Young a 5 milioni, Pachulia a 3,5, David West e Omri Casspi sopra i 2 ciascuno.

È qui che si setta il nuovo standard per la NBA che verrà. Ok, Durant avrebbe potuto ri-firmare con i Thunder per cifre più alte, ma — scusate il francesismo — ‘sti cazzi: stiamo parlando di un contratto da 25 milioni di dollari, più le sponsorizzazioni che cresceranno, visti gli anelli al dito.

Così, ecco che gli altri team si muovono di conseguenza: il backcourt di Houston con Chris Paul e James Harden, Paul George e Carmelo Anthony che raggiungono Westbrook a Oklahoma City, Jimmy Butler e Jeff Teague che si uniscono ad Andrew Wiggins e Karl-Anthony Towns a Minnesota, Gordon Hayward a Boston insieme a Kyrie Irving, Rudy Gay a San Antonio con Leonard, Aldridge e Pau Gasol… e così via.

Tutti che provano — chi meglio, chi peggio — a costruire il proprio super team. Col solo risultato visibile, a oggi, di avere almeno 10 squadre che non sperano neanche minimamente nei play-off e altrettante che sanno già di avere pochissime chance — che ci arrivino o meno — di fare strada.

Mettiamoci comodi, sarà una regular season lunghissima.

Articolo a cura di Roberto Gennari

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