Africa Unite

Crampi Sportivi
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68 min readNov 4, 2016

Copertina di Fabio Imperiale

Vi prego, non toccate l’Africa. Vi prego.

Vi sentite in colpa, eh? Bastardi, lo scempio che avete combinato voi europei in quel continente. Ora lo radiamo al suolo.

Così sibilarono gli invasori, tronfi e sadici.

Nooo!

Sì, tabula rasa. Ciao. L’aveste lasciato intonso, probabilmente sarebbe stato l’unico che avremmo lasciato in piedi volentieri.

Vi prego, lasciatelo in piedi. Non avete idea dei calciatori straordinari che ho prodotto, dateci una possibilità.

Va bene, dissero loro, ma dovrete difenderlo come un unico grande Paese, e dovete trovarne almeno cento. Cento calciatori africani, cento buoni motivi per risparmiare il continente africano.

Ve ne troviamo anche di più. E iniziammo a raccontare.

Episodio 4 — Gli africani

- Qui trovate gli episodi precedenti: 1) i brasiliani; 2) gli olandesi; 3) i greci -

ABEDI PELE (Ghana)

Una maglia granata ampia e accogliente, si muove larga agitata dal movimento caracollante di un uomo dalla pelle color onice. “Un Pelè al Torino” è il brivido lungo la schiena degli anziani seduti nei vecchi bar che guardano la Mole, il desiderio mai sopito di tornare grandi a Torino, i primi. Sarà per quel nome altisonante, che grida vittoria e preme sulle spalle come un macigno da lanciare via ma Abedi Pelé, in origine Ayew (padre di Andrè e Jordan), è stato bellezza e classe in una forma pura e ammaliante. Che fosse Marsiglia o Torino ciò che resta è la pervicacia, l’ostinazione nel saltare l’avversario, l’atto irriverente di un dribbling compiuto sorridendo. Pelè è il tenore di un trio minore con Silenzi e Rizzitelli; è il cuore di un rossonero che sanguina in una notte di Monaco di Baviera. Il più grande calciatore ghanese della storia? Forse sì, lo dicono i tre palloni d’oro africani, quel soprannome scelto per merito evidente e la chiusura di un cerchio con il Pelè reale che lo include nei 100 più forti di tutti i tempi. Se proprio dovete distruggere qualcosa salvate almeno i geni di Abedi.

Théophile ABEGA (Camerun)

Il sorriso pieno e rassicurante che fa sparire gli occhi tra le gote, come un sole che cala tra le montagne, la qualifica di Dottore e il tocco di prima aristocratico, di quelli che dettano il dai e vai e già se ne sono assegnati la conclusione elegante. Non avresti mai detto che di quel branco di leoni della Savana che era il Camerun dei primi anni ’80 Théophile Abega era il capitano e il capo carismatico. Eppure, all’Africa che si affacciava al grande calcio moderno, è stato lui il primo a insegnare come ruggire soppesando il passo, e non spalancando le fauci.

Emmanuel ADEBAYOR (Togo)

Adebayor è un libro di storia calcistica contemporanea. C’era quando il Monaco di Deschamps ha arrivò miracolosamente in finale di Champions League. C’era nell’Arsenal di Henry che sfiorò la coppa con le grandi orecchie a Parigi nel 2006. È protagonista di una stagione pazzesca nel 2007/08 al termine della quale viene nominato Giocatore Africano dell’anno. Regala alla memoria collettiva quella corsa folle sotto la curva dei suoi ex-tifosi dopo il gol con la maglia del Manchester City. È il capitano della nazionale togolese che subisce un tremendo attentato sul confine tra Congo e Angola l’8 gennaio del 2010. Ora, dopo le esperienze altalenanti con Tottenham e Crystal Palace è svincolato ad appena 32 anni. Accaparrarsi un pezzo del genere a parametro zero mi sembra un affarone per voi viscidosissimi signori di altri mondi lontani.

Daniel AMOKACHI (Nigeria)

Di quella che fu una vera e propria afro new wave calcistica a metà degli anni ’90, Daniel Amokachi fu uno dei prodotti più genuini ed efficaci. Centravanti potente ed esplosivo, ha segnato tanti gol ovunque sia andato e detiene anche un bel primato, il primo gol in assoluto della nuova Champions League così come fu modificata dall’originaria Coppa dei Campioni, All’epoca militava nel Club Bruges, con cui era stato campione del Belgio. Ma Amokachi era una specie di talismano, perché ha vinto ovunque sia andato: due coppe all’Everton e una al Besiktas. Senza contare il pregio di aver fatto parte della Nazionale nigeriana più forte di sempre, con la quale ha vinto la Coppa d’Africa nel ’94, in tridente con Amunike e Yekini, e l’oro olimpico ad Atlanta nel ’96, da fuori quota. Purtroppo un brutto infortunio al ginocchio durante il Mondiale del ’98 interverrà ad accorciargli la carriera.

Emmanuel AMUNIKE (Nigeria)

Il “Ryan Giggs africano” fu scelto personalmente da Bobby Robson nella difficile estate del ’96 per il Barça che dovette affrontare la separazione da Cruijff. In quella famosa estate che oltre ad Amunike, portò in Catalunya proprio Luis Enrique. Lasciò la Spagna con un solo gol segnato, oggi insegna calcio ai giovani delle selezioni nazinali della Nigeria. La sua è una storia di successo. Al di là delle battute, le persone lo ricordano con affetto; anche grazie al calcio, Emmanuel è riuscito a sfuggire alle difficoltà del suo Paese con il sorriso e la pelota.

Stephen APPIAH (Ghana)

Appiah: Appiah mi è sempre stato genuinamente simpatico. Non c’è una ragione precisa, probabilmente il suo essere bandiera di una nazionale come il Ghana, che nell’album delle figurine dei Mondiali aveva due pagine bellissime, probabilmente ancora perché nel periodo in cui comprando sempre le suddette figurine ti veniva regalata anche una bustina con dentro un “Bomberino” e, con il bomberino di Appiah ho dato certe scoppole a mio fratello in un gioco tutto pazzo che comprendeva un campo del Subbuteo e delle biglie, che Appiah non può non starmi simpatico. Così simpatico che il calcio, per forza, passa in secondo piano. Così simpatico che, lui che scappa dai creditori e si allena in un estate con tre squadre diverse, è qualcosa di simpatico, non di peccaminoso. Che giocatore, Stephen.

Gyan ASAMOAH (Ghana)

Asamoah Gyan è uno spirito comparso sulla terra sotto forma di calciatore nel 1985 con l’obiettivo di farsi tramite dell’ispirazione divina nella vita terrena. Asamoah Gyan ha iniziato a evangelizzare i mortali tra Modena, Udine e Rennes ma si trattava di un rito di passaggio, propedeutico al compimento del proprio destino. Il percorso dello spirito Gyan avrebbe dovuto compiersi nel 2010, quando, nel primo mondiale africano della storia, avrebbe sollevato la prima Coppa del Mondo africana della storia. Nei quarti di finale contro l’Uruguay, però, i favori degli antenati non sembrano più assistere Gyan, che all’ultimo minuto dell’ultimo tempo supplementare, prende la traversa tirando il rigore che avrebbe fatto vincere il Ghana. Gyan sperimenta la sofferenza e comincia a dubitare della propria natura spirituale, che non sia un mortale fallibile come gli altri? Scrive una lettera di scuse al popolo ghanese.

Seguono altre peregrinazioni: Inghilterra, Emirati Arabi, Cina. Nel 2012 Gyan sbaglia un altro rigore decisivo, nella semifinale della Coppa d’Africa. Nello stesso anno si ritira momentaneamente dalla Nazionale e viene accusato di omicidio: si dice abbia sacrificato, in un rito vudù, l’amico e rapper Castro per ottenere nuovamente il favore degli antenati. Negli ultimi anni Gyan, venuto a capo di una profondissima crisi di fede, decide definitivamente della propria natura divina. Per confermarla agli occhi del mondo la investe in beni di lusso. Asamoah Gyan al momento possiede una Rolls Royce interamente coperta d’oro e vive in una gigantesca mansione dal valore di 3 milioni di dollari. Gyan l’ha rinominata “La Basilica” e al suo interno è presente un museo commemorativo dedicato a Gyan stesso, saggio tra i saggi, Dio fra gli uomini.

Kwadwo ASAMOAH (Ghana)

Kwadwo Asamoah ha lo sguardo umile e le cosce grosse di chi nel calcio ci sta per interdire, che poi è un modo un po’ pomposo per dire rompere. Invece Asamoah non rompe solo il gioco, cioè con quelle cosce grosse e quello sguardo umile Asamoah rompe anche il gioco, ma la sua qualità principale è di essere duttile. Ti serve un interno di centrocampo, lui ci sta; ti serve un terzino, lui è pronto; ti serve un’ala che attacca, sempre Asa. Per essere duttile però è necessario saper giocare a calcio, ed ecco il motivo del successo del ragazzo: sa giocare a pallone. Magari non è un fenomeno, però capisce il gioco, ha un’ottima tecnica ed è uno di quelli che corre finché ha un briciolo di forza. Per questo Asamoah gioca spesso in una squadra dove molti sono anche più forti di lui e tutti gli allenatori che lo hanno avuto lo adorano, perché non ce n’è mai abbastanza di gente che sa giocare a pallone.

Per ultima ho lasciato la cosa più bella: Il suo nome in lingua ghanese significa Lunedì, il giorno peggiore della settimana se non ti chiami Kwadwo Asamoah.

Pierre-Emerick AUBAMEYANG (Gabon)

Ha ingannato tutti. Forse la sua miglior copertura è stato il padre, Pierre. Mischiò le carte del suo personalissimo mazzo contraffatto, nascondendolo al malcapitato di turno. Ingannò persino il diavolo che si presentò ben tre volte, in abito rossonero, al banchetto di Pierre l’illusionista. Indispettito, il diavolo comprò tutto il mazzo, alla cieca. Catilina (classe 83), Willy (classe 87) e Pierre-Emerik (classe 89). Il gioco delle tre carte è, però, la rappresentazione madre dell’illusione. L’illusione manda in tilt i recettori. Finisci per non capirci più niente. Quindi, il diavolo si libera di tutto il mazzo, comprato dall’illusionista, in breve tempo. Solo che, in mezzo al mazzo c’era il jolly, l’eroe mascherato. O, forse, dovremmo dire “l’eroe da mascherare”. Eppure Pierre-Emerik Aubumeyang aveva lasciato una sua traccia, segnando 6 goal in 7 partite in Youth League, con la maglia del Milan. No, l’illusione rende invisibile agl’occhi quello che è palese anche per un cieco. Viene mandato nel dimenticatoio, in prestito. Dijon, Lille e Monaco. Poi il Saint Etienne, dal gennaio 2011. L’Italia è solo un ricordo vago. Segna 41 goal in 97 partite, fino all’estate 2013. Ma non è lui. Chi può dirlo? Compare dal nulla un uomo con la maschera che riporta la Coupe de la Ligue nella Loira. No, non può essere lui, è un inganno anche questo. Sparisce nel nulla e ricompare in una radura nella foresta nera, a Dortmund. Ricompare anche l’uomo mascherato, quello che segna un goal ogni due partite (83 reti in 150 partite con i gialloneri). Che importa se Peter Parker, in verità, è Pierre-Emerik Aubumeyang? Che ne sappiamo se quello con la maschera è la carta più piccola del mazzo che il vecchio Pierre vendette al diavolo? Tanto vale salvarli entrambi.

André e Jordan AYEW (Ghana)

Siamo i figli di Pelé.

Sarebbe bello, se non fosse che il Pelé in questione è Ghanese e in realtà non si chiama neanche Pelé ma Ayew. Come i 3 figli, tutti nati tra il 1988 e il 1991 in un triennio di grande gioia e carenza di contraccettivi.

Il più giovane è Jordan, partenza a razzo col Marsiglia, alla stessa velocità con cui si lancia sul campo. Attaccante dal gol difficile, dopo un piccolo calo opta per la Premier League e retrocede con l’Aston Villa. Da piccolo era il centro delle attenzioni e aveva un rapporto speciale con il mediano dei tre, Andrè.

Andrè è forse il più talentuoso. Scatto bruciante, buona propensione al gol, il classe ’89 costruisce le sue fortune fianco a fianco con il fratellino, a Marsiglia. Anch’egli opta per una carriera alla corte di Sua Maestà e dopo un’ottima stagione allo Swansea ora si trova a Londra, sponda West Ham.

Ibrahim è il più vecchio e il più odiato. Da piccolo i fratellini, sebbene più minuti di lui, lo picchiavano e gli mettevano i fiammiferi accesi nei piedi mentre dormiva. Gioca a calcio anche lui: brutto, tozzo e scarso, la sua carriera, per volontà dei fratelli, è confinata in Africa, a parte un tentativo di avvicinamento ai congiunti bloccatosi in Belgio. Ad oggi, terzinaccio legnoso, è ben saldo a casa con mamma e papà, in Ghana. Non sarà sui titoli dei giornali ma almeno il letto è sempre rifatto.

Tijani BABANGIDA (Nigeria)

Mai visto uno che una maglietta di calcio gli stesse così male, certo sblusata come andava negli anni Novanta era proprio difficile da portare, poi finiva sempre per essere abbondante se eri brevilineo. Tijjani Babangida non si presenta all’Ajax proprio un gigante, ma se sei nigeriano e prima di te sulla stessa fascia destra ha giocato Finidi, allora sul prato ci trovi i solchi della corsa già tracciati, insomma devi solo seguire le rette parallele dei passi lungo la linea bianca, poi la virata verso il centro all’altezza dell’area di rigore. E il gioco è fatto. Velocità iniziale sul primo passo da bruciarsi le scarpe, progressione costante, infine un tiro a rasoio che hanno licenziato i giardinieri dell’Amsterdam ArenA.

Celestine BABAYARO (Nigeria)

Nigeria ’96 potrebbe essere alternativamente: il nome di un bagnoschiuma rinvigorente; la console da gioco prodotta da una misconosciuta casa di produzione dispersa nel cuore dell’Africa più nera; il nome di un club dove le buone vibrazioni fluttuano nell’aria; il titolo di una retrospettiva sull’house-funk nigeriano di quegli anni così pregni di mitologia. Se siamo arrivati a considerare imprescindibile la storia di una Nazionale comprendente, in ordine sparso, West, Kanu, Babangida, Oruma, Okocha e Oliseh, è anche grazie al volo verticale di Celestine Babayaro. Un gol che è eccezione, rarità non marchio di fabbrica della casa. Per quello c’erano corsa e cross, cross e corsa, leggera, eterea, colma di levità eppure efficace. Celestine al Chelsea, Celestine capitano, Celestine che pareggia la rete del pidocchio López per poi correre, ancora una volta, a scrivere la storia.

Salaheddine BASSIR (Marocco)

Eroe locale, per intenditori. Un metro e 68 centimetri di adattabilità all’arte del gol, almeno nel suo periodo migliore, quello che lo portò dagli allori e dagli onori del calcio del suo Paese alla ribalta europea. Capocannoniere delle qualificazioni Mondiali, fu notato dal Deportivo La Coruna che lo fece trasferire in Liga dove due anni dopo vinse, seppur da riserva, il titolo del 2000. La vena realizzativa andò spegnendosi nelle successive esperienze francesi e greche, e fu costretto a tornare in patria per ritrovare lo smalto di un tempo. Chiuse tuttavia la sua carriera con l’invidiabile score di 25 reti su 50 presenze in Nazionale.

Lakhdar BELLOUMI (Algeria)

Se il nome di Lakhdar Belloumi non evoca nessun parallelo tra Davide e Golia nei pensieri di chi vi si imbatte è a causa di un’ingiustizia profonda, rimasta impunita. Trequartista anni ’80 con tutti i crismi del ruolo: sinistro vellutato, tiro a effetto e buon dribbling, nonostante fosse stato accostato diverse volte alla Juventus non giocò mai in Europa (c’era una legge algerina che impediva ai suoi giocatori di trasferirsi in un altro Paese prima dei 28 anni), ragion per cui spesso ci si dimentica di lui anche quando semplicemente si elencano i migliori giocatori provenienti dal continente africano. L’highlight extracontinentale della sua carriera fu perciò il gol con cui l’Algeria sconfisse la Germania Ovest al Mondiale dell’82. Prima della partita i tedeschi avevano dichiarato sprezzantemente che avrebbero dedicato il settimo gol alle loro mogli e l’ottavo ai loro cani. Fatto sta che invece l’Algeria vinse per 2 a 1 una partita presa terribilmente sotto gamba dai teutonici, che rischiarono di non qualificarsi. Belloumi era il faro di quella squadra rivelazione. Anni dopo raccontò che il forte desiderio di qualificazione di quel gruppo unito era dovuto all’altrettanto forte desiderio di celebrare in grande stile il ventennale della loro indipendenza. Dopo i primi due turni del girone l’Algeria e l’Austria erano in testa con 4 punti, la Germania aveva 2 punti e il Cile era ultimo a 0. Mancava una sola partita da giocare: Austria-Germania. Solo una vittoria della Germania con 1 o 2 gol di scarto avrebbe fatto qualificare le due squadre europee, eliminando l’Algeria.

E infatti, dopo il gol dei tedeschi, gli austriaci smisero di giocare a pallone e finì 1 a 0. In sintesi, biscottarono. Pare che un commentatore tedesco abbia detto in diretta che si trattava “di una disgrazia che non aveva nulla a che fare con il calcio”. Mentre un telecronista della televisione austriaca pare si sia addirittura rifiutato di commentare gli ultimi 30 minuti della partita. Ed è anche per questo motivo che la memoria del sinistro di Belloumi si è persa nel tempo, chiusa in una scatola di biscotti.

Mehdi BENATIA (Marocco)

Medhi Amine Benatia El Moutaqui. Prendi quello di mezzo. Di nome, dico. Tanto è la stessa cosa che pensa lui quando ti avvicini all’area di rigore: lui prende quello di mezzo, quello che si avvicina col pallone, poi è una persona carina, ti accompagna fino a che poi alla fine sei tu che il pallone glielo lasci, magari proprio fuori dal campo, come dire tranquillo lo metto qui tanto verso la porta non ci andavo sicuro. Benatia è marocchino, da madre algerina, e allora è pure francese secondo certi impiastri coloniali. Ma no, lui ha scelto il Marocco. Scelta di cuore. L’ultima. Perché per il resto è di quei giocatori fortissimi troppo tardi per pensarci due volte. E allora quando ha scoperto di essere un difensore fuori quota, anche all’occorrenza goleador, passando da Udine a Roma, poi se n’è andato al Bayern Monaco per prendersi l’Europa, infine alla Juventus per almeno farlo sul campo, ogni tanto.

Kevin Prince BOATENG (Ghana)

Che significa vivere una sfida costantemente in competizione? Probabilmente sarebbe il caso di chiederlo a Boateng. Kevin-Prince, chiaramente. Nasce nell’ultima Berlino del passato, nell’87. Il muro sta per cadere assieme ai pregiudizi. Sta per esplodere il think tank multicolor sul quale crescerà la Berlino del futuro. Kevin-Prince nasce e cresce in un quartiere popolare, dove immaginare un futuro roseo non è così facile. Ancora bambino, osserva il padre uscire di casa per l’ultima volta. Lo ritroverà dall’altra parte del muro, qualche anno più tardi, con una nuova famiglia, una nuova moglie, nuovi figli. Si ritrova in una città unita, Kevin-Prince, ma con due famiglie che non gli appartengono fino in fondo. L’altro Boateng, Jerome, ironia della sorte, sembra essere il suo esatto opposto. Due figli divisi e diversi immersi in una Berlino unita e nuova. Il loro muro è il campo di Wedding, esattamente in mezzo tra i due quartieri nel quale crescono Kevin-Prince e l’altro. La partita senza un fine è quella tra quartiere ricco e quartiere povero, tra passato e futuro, tra Berlino Est e Berlino Ovest. Kevin-Prince sgomita, stringe e stride i denti, cade e si rialza. Ad ogni step della sua crescita è lì sul campo tra i quartieri a fronteggiare l’altro Boateng, il suo futuro ipotetico. Herta Berlino, Tottenham, Borussia Dortmund, Portsmouth. 145 partite e 15 goal, valgono una chiamata con prefisso 02, in arrivo dall’Italia. Precisamente da Milano. L’aereo è già pagato, le valigie non servono, è tutto pronto. Kevin-Prince ha solo un’ultima cosa da fare: passare al campo, quello in mezzo ai quartiere, ancora una volta. Intanto l’Europa cambia, il calcio evolve. L’altro è al Bayern Monaco, Kevin-Prince al Milan. Li separa la filosofia del calcio. Kevin-Prince è ancora una volta al di qua del muro, al di qua del campo, sempre più avanti, sempre più vicino la porta. L’altro gioca dietro, a braccetto col suo portiere. Vince un’EFL Cup, uno Scudetto e una Supercoppa Italiana, prima di tornare a viaggiare, attaccando gli spazi, senza badare troppo al nome dell’avversario, attraverso i confini che non esistono più. Al Mondiale del 2014, avanti a se ritrova l’altro Boateng. Gli stringe la mano, gli sorride. Sono di nuovo in quel campo di Wedding, in mezzo ai quartieri di Berlino.

Papa BOUBA DIOP (Senegal)

Nonno Pape! È bella la storia dell’Aek Atene, per carità, ma raccontaci ancora di quando… No, nonno. del Grasshoppers non vogliamo proprio saperne. Va bene, ancora un pochino di quando eri un idolo del Fulham, ma poi torniamo al Mondiale. Nonno Pape Bouba Diop, com’è stato giocare per il Senegal la prima partita di sempre ai mondiali? Contro la Francia? e segnare alla Francia, e vincere quella partita? La verità, nonno, è che hai girato tanto, ma con quel gol è come se non avessi mai lasciato il Senegal, anzi, come se il Senegal intero abbia sempre viaggiato con te. Raccontacelo di nuovo, nonno, e noi fingeremo che ci interessi di quando hai fatto panchina al Birmingham City; solo per quel gol, nonno.

Aziz BOUDERBALA (Marocco)

Con la palla tra i piedi, Aziz Bouderbala faceva semplicemente quello che preferiva. La teneva a lungo finché non si decideva a dettare il gioco, ma doveva essere proprio sicuro che fosse la cosa giusta da fare. Quando poi gli davi campo libero, diventava imprendibile e scoprivi che in realtà era anche attaccante. Colpisce sempre vedere un giocatore così veloce fisicamente esitare quel tanto che gli basta per decidere la trama del gioco più raffinata tra le tante possibili. Una volta accesa la scintilla, Bouderbala diventava mercurio, nel senso di metallo liquido, velenoso nell’area avversaria, capace di intimorire i marcatori col piglio di uno che sta per saltarti in eleganza e scioltezza, qualunque cosa tu abbia intenzione di fargli. Un numero 8 con piedi da 10 e la corsa di un 7.

Yacine BRAHIMI (Algeria)

Rispetto a tutte le ali nordafricane fortissime che ci sono state nelle linee temporali precedenti alla sua, Yacine Brahimi è veloce quasi il doppio, e ha un pacchetto di trucchetti e finte discretamente ricco che snocciola a grappoli, in folate che per i suoi tifosi sono diventate proverbiali tanto che al Porto le hanno ribattezzate Momentos Brahimi. Uno scompigliatore di schemi difensivi come lui fa sempre comodo.

Kalusha BWALIYA (Zambia)

Che Kalusha Bwalya fosse una seconda punta molto propensa a segnare noi italiani lo scoprimmo in un tiepido mattino di metà settembre ai Giochi olimpici del 1988: tutti vaticinavano il successo degli azzurri sullo Zambia, che invece ci rifilò una delle più umilianti scoppole di sempre. Tacconi raccolse in fondo alla rete quattro palloni, tre dei quali scagliati da quest’attaccante dal nome impronunciabile ma che nessuno avrebbe più faticato a rimembrare. Bwalya fu baciato da Madre Natura, per le sue doti tecniche e atletiche, e pure dalla fortuna: nel 1993 fu impossibilitato a salire con i compagni di squadra dello Zambia su un velivolo che si inabissò al largo del Gabon. In patria nessun altro ha saputo incarnare il calcio come lui: è stato capitano, recordman di gol e presenze e commissario tecnico della nazionale, oltre che presidente della Federcalcio. Proprio in quest’ultima veste nel 2012 ha visto i suoi connazionali vincere la Coppa d’Africa in Gabon e lui l’ha alzata al cielo, quasi a volerla far sfiorare dai compagni periti inghiottiti da quelle stesse terre.

Marouane CHAMAKH (Marocco)

Marouane Chamakh, ariete di belle speranze, fagocitato che un calcio che non somiglia più a Pes, dove a lungo termine non c’è spazio per il mestiere, almeno non nell’Europa che conta. Dopo una vita al Bordeaux, tenta la carta Premier League, per la quale ha l’età, la voglia e le skill. Non trova spazio all’Arsenal, e da lì le sue ambizioni vanno restringendosi: toccata e fuga al West Ham, tanto Crystal Palace e una retrocessione in Championship per trovare più spazio al Cardiff. Chamakh, che fallì il salto è cadde nel fosso, ai nostri occhi rimase comunque troppo alto per sparire del tutto. Ed è in quella dimensione che gli abbiam voluto bene di più.

Mustapha DAHLEB (Algeria)

Capellone super-tecnico, classico 10 proiettato in avanti, con una buona falcata e un altrettanto buon dribbling, ha giocato praticamente per tutta la sua carriera in Francia. Le soddisfazioni più grosse se l’è tolte al PSG, dove ha militato per 10 anni e si è imposto come il miglior realizzatore della squadra nella massima serie, finché non è arrivato Ibrahimovic a frantumare i suoi record. In ogni caso, nella linea temporale in cui vi scriviamo cioè quella del 2016, è ancora il quarto marcatore di tutti i tempi della squadra parigina.

Tarak DHIAB (Tunisia)

Se per caso su Proxima Centauri vi è mai capitato di captare uno streaming di una partita di calcio su Rojadirecta, magari con la telecronaca di Al-Jahzeera, allora avete già sentito la voce di Tarak Dhiab, unico Pallone d’oro Africano nato in Tunisia, che nel suo Paese veniva appunto chiamato il Michel Platini tunisino, perché era un talismano della tre quarti, un ambidestro dal passaggio calibrato e dalla tecnica sopraffina che, avendo giocato per tutta la carriera in Tunisia, ha avuto l’occasione di mostrare al mondo riunito quello che era in grado di fare solo durante il Mondiale 1978, in particolare nell’unica partita vinta dalla sua Nazionale, quando si inventò ben tre assist vincenti che concessero alla Tunisia di battere il Messico. Era infatti abilissimo nel trovare i compagni in area grazie alla sua capacità di leggere il gioco negli spazi. Oggi è il Ministro dello Sport del governo tunisino post Primavera Araba, ma nel 2008 aveva rischiato grosso rifiutando di stringere la mano al suo predecessore, l’allora Ministro dello Sport del regime di Ben Ali, verso il quale più volte è stato pubblicamente critico, soprattutto facendo apertamente riferimento alla corruzione del quale questo era responsabile nel mondo dello sport.

Mahmadou DIARRA (Mali)

Quanti gregari ci sono nel calcio? Quanti di questi sono mediani? Quando nessuno di questi possiede nessuna qualità in particolare a parte un’enorme forza di volontà e un proporzionale spirito di sacrificio, cosa rende uno diverso dall’altro? Probabilmente, ed è un azzardo ma in quanto tale fa parte del gioco, quando non c’è niente di speciale in ciò che sei c’è solo una cosa che ti può rendere speciale, ed è quello che fai. Mahmadou Diarra ha vinto quattro titoli di Francia consecutivi coprendo le avanzate di Juninho ed Essien quando era al Lione. Dopodiché altri due titoli consecutivi a Madrid, e in mezzo sei supercoppe, a garantire equilibrio a una squadra con in campo Raùl, Robinho e Van Nistelrooy. In sostanza, tra il 2003 e il 2008, Mahmadou Diarra è stato il mediano più importante d’Europa: ben competizioni in sei stagioni e cinque anni, passati a coprire le avanzate altrui.

El Hadji DIOUF (Senegal)

Ovvero di tutto ciò che poteva essere e non è stato, di un giocatore che al Mondiale del 2002 impressionò tanto Pelé da finire nella sua lista dei migliori giocatori secondo il suo gusto, tra l’altro era uno dei pochi ancora in attività mentre fu selezionato. Seconda punta anarchica ed elegante, rapida e imprevedibile dal talento ondivago ma cristallino e dalla personalità eccentrica, forse troppo per un calcio che ad alti livelli si faceva sempre più abbottonato. E così non trovò spazio, perché aveva atteggiamenti non sempre edificanti, perché giocava molto da solo eppure spesso non bastava, toglieva equilibrio agli schemi non si prestava ai tatticismi, e quindi niente, ha fatto bene solo in una piazza minore come Bolton. E ti dirò che forse è andata bene anche così.

Didier DROGBA (Costa d’Avorio)

Dev’essere straziante vivere col timore di spingersi troppo in là. Spesso, anche una strada può appartenere a mondi diversi e lontani come non mai, anche se confinanti. L’invalicabilità di un credo è tanto disarmante da scoraggiare anche l’animo più futurista? Forse. Ma non in Côte d’Ivoire. È il 11 marzo 1978. A Yopougon non esiste l’alternarsi delle stagioni, esiste l’estate perenne. Didier nasce qui, in un sobborgo divorato dall’avanzare famelico della città di Abidjan. Il Paese ingrassa a dismisura con il boom economico degli anni 60. Le prime partite si giocano per strada. Casa contro casa, viale contro viale, quartiere contro quartiere. Quando le partite la giocano i più grandi, però, qualcosa va storto. Sono i primi anni 2000, il Nord musulmano entra in guerra con il Sud cristiano. Didier è uno di quelli che non riesce a staccarsi dalla sua terra natale. Più che altro Didier non vuole. La sua adolescenza francese, in collegamento costante con la Costa d’Avorio alimenta il suo dolore. Il suo paese sprofonda, implode, collassa. Ma lui è al Le Mans e segna 15 goal in 72 partite. Il cuore gli fa male, ma è al Guingamp e segna 24 goal in 50 partite. Piange la notte, ma è al Marsiglia e segna 32 goal in 55 partite. Sente che deve fare qualcosa, vuole che tutti lo ascoltino. Sa che deve salire ancora un po’ più su per poter urlare alla vallata che è il mondo. Va al Chelsea, dove segna 164 goal in 381 partite. Nel 2007 è al suo apice, sull’altopiano che affaccia sulla vallata. È a Stanford Bridge, è il momento giusto. Strappa il microfono dalle mani su un reporter, seguito a uomo da un cameraman. Parla a quelli del Nord e a quelli del Sud, parla alla sua gente: “Deponete le armi, organizzate le elezioni, tutto andrà per il meglio”. Innescò la pace, qualche tempo dopo, segnando il 5–0 in Costa d’Avorio-Madagascar. Chiese di giocarla nella roccaforte ribelle di Bouake. Al suo goal tutto lo stadio si sciolse in un abbraccio che molti dipingono come l’inizio della fine dei conflitti. Ha vinto 4 Premier League, 1 Champions League, 2 EFL Cup, 2 Community Shield, 4 FA Cup, 1 Süper Lig, 1 Coppa di Turchia e 1 Supercoppa di Turchia ma soprattutto vinse la pace. Provate a chiedergli quale trofeo preferisce.

Emmanuel EBOUE (Costa d’Avorio)

Ebouè è costantemente, inequivocabilmente molto molto ubriaco. Te ne accorgi da come corre a falcate immense, distendendo le gambe per intero come i velociraptor. Si vede da come salta l’uomo con movimenti convulsi, spasmodici, come se il campo magnetico dell’avversario lo mandasse in corto circuito. È evidente quando parte in scivolate chilometriche, lunghissime scorrazzate sui fianchi alla fine delle quali trova palla, avversario e sorrisi. Ebouè è ubriaco quando si avvicina al CT della Corea fingendo di capire cosa sta dicendo al suo giocatore; è sbronzo ogni volta che si scatena in un balletto sulla bandierina con l’Adebayor di turno; è palesemente ciucco quando ruba il microfono al giornalista turco e lo schiena sull’erba della Turk Telecom Arena per festeggiare con lui la vittoria del Galatasaray. Ebouè è ubriaco da una vita, è un giocatore splendido e gli voglio un gran bene.

Essam EL HADARY (Egitto)

Se voleste mettere in campo la formazione con più carisma al mondo — non in Africa, badate: al mondo! — Essam El-Hadary sarebbe un nome obbligatorio. La carta d’identità, nella linea temporale del 2016, recita 43 anni, ma lui non ne vuole sapere di smettere. Anzi, visto che nel momento in cui scriviamo l’Egitto è ancora in corsa per Russia 2018, lui spera che la squadra si qualifichi perché «Mi alleno ancora come se avessi vent’anni: devo giocare il Mondiale, non perdo la speranza». Non a caso ill suo ct dice che potrebbe giocare fino a cinquant’anni; Drogba l’ha etichettato come l’avversario più difficile che abbia mai affrontato in carriera. Non sarebbe la vostra invasione aliena a minacciarlo, ma lui a auto-eleggersi comandante senza se e senza ma.

Chokri EL OUAER (Tunisia)

Chokri El Ouaer nasce a Tunisi, cresce a Tunisi, impara il calcio a Tunisi, gioca a calcio nell’Espérance, che è come dire a Tunisi senza dover specificare altro, ci resta da quando è un ragazzino fino ai trentacinque anni ed è dunque, di conseguenza, una bandiera dell’Espérance e di Tunisi. Poi, a trentacinque anni, decide di passare al Genoa, solo per dare a Franco Scoglio l’occasione di affermare, durante la conferenza stampa di presentazione del nuovo acquisto: “È tra i primi tre portieri del mondo”. Ed era il 2001, signori alieni e signori terrestri: c’erano in giro il rubizzo Kahn, il giovane Buffon, il vecchio Schmeichel, l’affidabile Toldo, ma anche, volendo Peruzzi, Vitor Baia, Dida, Casillas, Van der Sar. E considerate che Scoglio voleva tenersi basso. A noi tutti, e anche a voi alieni, resterà per sempre il dubbio, alimentato dalla scarsità di spezzoni filmati riguardo al campionato tunisino: ma quanto era forte davvero El Ouaer? E se Scoglio…? Nel dubbio, teniamocelo stretto.

Vincent ENYEAMA (Nigeria)

Di portieri africani sulla cresta dell’onda ce ne sono stati parecchi, e i migliori hanno sempre emanato un’aura di bonaria follia. Invece, Enyeama sembra un portiere classicamente eurocentrico in questo senso: affidabile, personalità forte ma silenziosa e una discreta reattività tra i pali. Non è un caso che abbia ancora nel 2016 un posto da titolare al Lille, mentre in nazionale è stato l’ultimo capitano ad alzare un trofeo ed il più presente di sempre con la Nigeria, almeno fino a questa linea temporale. Poi sì, nel tempo perso ha tirato diversi rigori, ma quello è un hobby coltivato in casa e poi esportato in Israele, nel suo periodo a Tel Aviv.

Michael ESSIEN (Ghana)

Viene da chiedersi cosa ne sarebbe stato della sua carriera se gli infortuni non l’avessero perseguitato. Esploso nell’Olympique Lione che domina gli anni 2000 in Francia, lo chiamano “Il bisonte” per la sua straordinaria forza e l’energia trascinante. Il Chelsea lo compra, lui segna non uno, ma ben due gol dell’anno per i tifosi, ma i primi acciacchi lo delimitano. Quando si rompe il crociato a 26 anni, idealmente l’Essien migliore è andato. L’abbiamo visto anche in Italia recentemente, ma con il Milan è sembrato un reperto reduce dal cimitero degli elefanti. Poco importa: la vostrari tecnologia aliena lo rimetterà in piedi e gli darà la forma di un 19enne e a quel punto saranno di nuovo guai per tutti.

Samuel ETO’O (Camerun)

Eto’o è stato tutto quello che un calciatore può essere e forse anche qualcosa in più. Una carriera al livello più alto, in cui ha raggiunto ogni obiettivo che si fosse prefissato, in cui ha vinto tutto a livello individuale e di squadra. Raccontare tutta la sua carriera è compito che spetta forse solo a lui vista la complessità della materia. Io mi limiterò ad accennare ad alcune delle sue vite. Eto’o dal suo arrivo in Europa quindicenne è stato: Accolto, scartato, svezzato, amato, campione olimpico, eroe nazionale, cannoniere, orgoglio di una comunità, snobbato, vincente, rimpianto, campione di tutto, merce di scambio, campione al servizio della squadra, record man, dittatore, pioniere, pendolare, nababbo, esperimento, punta esperta, mina vagante.

Khalilou FADIGA (Senegal)

Esterno fantasioso e instancabile artigiano di un gioco voluminoso, Khalilou Fadiga aveva conquistato Belgio e Francia con il suo sorriso e la sua gamba e nell’estate del 2002 era pronto a conquistare il mondo. Il suo sogno si infranse ai quarti ma il valore della sua fatica divenne globale e a un sogno spezzato se ne sostituì un altro, quello italiano. Purtroppo però in quegli anni qualsiasi acquisto dell’Inter veniva preso di mira dallo humor discutibile del fato, e a Khalilou furono diagnosticati problemi cardiaci che risultarono in zero minuti con la maglia nerazzurra, e in Italia in generale. Continuò a giocare (poco) altrove, nonostante gli fosse sconsigliato e per il resto della carriera gli andò bene. La solita storia, più hai cuore e più questo è esposto, e quando non ne fa le spese la salute, tocca ai sogni.

Sofiane FEGHOULI (Algeria)

Vedere Feghouli giocare a pallone, in una classifica abbastanza empirica di cose che mi piace vedere, occupa una posizione alta, diciamo tra la 200 e la 400, che se ci penso è un po’ preoccupante, però è veramente così. Attaccante destro che gioca a destra, passa da non-correre a volare sulla fascia in pochissimo tempo, con una capacità di spostare il pallone inferiore rispetto a pochi dei suoi colleghi. Feghouli gioca con la testa alta e il cuoio sempre in controllo, passa con precisione e ottimi tempi e si muove bene senza palla. È fastidioso da marcare e da saltare e nell’arco dei 20 metri è pericoloso al tiro. È dotato di grandissima forza nelle gambe e questo gli permette di essere esplosivo nei primi metri, di calciare con potenza e di alzare alla “press” circa 9 o 10 volte di più del peso che alzo io. Nonostante ciò, al momento al West Ham non lo fanno giocare, per cui se volete potete portarlo su Proxima Centauri senza che loro (cretini) manco se ne accorgano.

Mark FISH (Sudafrica)

“The Big Fish” (Città del Capo, 1974) ultimamente non è stato benissimo e ha deciso di starsene a riposo per un po’. Tra il Pallone d’Oro di Weah e l’oro nigeriano ad Atlanta, la Coppa d’Africa ’96 la vinse il Sud Africa, team ospitante in luogo del Kenya. Emblema ed eroe della linea difensiva fu il rude Fish, che la Lazio si accaparrò come colpo a sorpresa a spese (?) dello United (“la squadra per cui Fish aveva sempre tifato da bambino”). Fu un fenomeno per lo più esotico, nulla di troppo diverso dalla risma dei Paul Okon. Non si è mai capito quanto questi Orlando Pirates — tappa obbligata nella carriera di tutti — fossero competitivi: certo è che il colosso in basette riuscì a galleggiare per otto anni in Inghilterra (Bolton e Charlton) prima di vedersi saltare il crociato in maglia Ipswich. Presente in tutte le tappe del climax: oro nel 1996, argento nel 1998 in Burkina Faso, bronzo nel 2000 tra Ghana e Nigeria.

Marc-Vivien FOE (Camerun)

Marc-Vivien Foé, elegante già dal nome. Non è che abbia vinto molto o che sia stato simbolico per qualche motivo: il suo Camerun non ha mai perso una partita in cui Marc-Vivien abbia segnato, d’accordo, ma questo non è un grande primato. Foé ha poi segnato l’ultimo gol del Manchester City al Maine Road; ma anche questo, a pensarci, non è un record. O, se lo è, non è certo il record di un vincente. La grandezza di Foé, per cui lo ricordiamo ancora oggi e per cui dovrebbero ricordarlo tutti, non è al di fuori di lui, in una vittoria, in una maglia, in un simbolo, ma è in lui: nella sua generosità africana, nella sua eleganza francese, nella flemma britannica. Alto com’è, si piazza a centrocampo, dove non può che spiccare: e resta lì per sempre, gli occhi di tutti addosso, resta lì anche quel giorno a Lione, quando gli si ferma il cuore. È bellissimo, Marc-Vivien, neanche la morte lo piega o lo abbassa. Morendo manca il Lione dominante che si va appena formando, per non parlare del City di là da venire; ma al suo cuore malato e generoso va bene così, Foé è bastato a se stesso, e non se la sentiva di sognare con loro.

Finidi GEORGE (Nigeria)

Quando il Milan affrontò per l’Ajax nella stagione 1994–95, uscendone sempre sconfitto, il telecronista Bruno Longhi intrattenne gli sportivi italiani con l’esegesi del nome di una guizzante ala nigeriana della formazione olandese, tal Finidi George che ai Mondiali americani aveva esultato mimando un cane che orina. Finidi vuol dire “futuro luminoso”, ma da lì in poi non fu propriamente un calzante esempio di nomen omen: una volta lasciati i lancieri non riuscì più a metter le mani su un trofeo che fosse uno. Divenne però un autentico personaggio di culto tra i tifosi del Real Betis: questi erano soliti lanciargli dagli spalti un sombrero cordobés che lui indossava dopo che la buttava dentro, mandando in estasi la folla. Non a caso, nel brano dall’inequivocabile titolo “!Odio eterno al fútbol moderno!”, il gruppo rap FRAC ricorda con nostalgia “Finidi con el gorro en el Villamarín”.

GEREMI Njitap (Camerun)

Geremi Sorele Njitap Fotso veniva dal Camerun e faceva la fascia. Non nel senso della benda, proprio la fascia del campo, tutta, senza troppo definire la fase difensiva o quella offensiva, roba da pavidi: c’è spazio per correre, in su o in giù, boh insomma fa davvero poca differenza. E poi insomma stiamo parlando di una bandiera, non nel senso di una fascia più grande, alieni ma vi siete fissati con la stoffa oggi? No è per dire che per il Camerun questo qui è un giocatore simbolo capito? Uno di quelli che gli fai le statue, uno che gli stendi il tappeto rosso. Cosa? Di che tessuto il tappeto? Vabbè ragazzi io mi arrendo però…

GERVINHO (Costa d’Avorio)

Chi va veloce ha sempre un’attenuante. È vero, non può non essere così. Gervinho compie gesti normali a velocità diverse dalla nostra, quella di tutti i giorni: è questo il motivo reale che spinge il tifoso ad avere pazienza, a comprendere, a calmarsi quando l’errore o la mancanza si fanno gravi in campo. Ok, si divora quel gol, lo vediamo tutti. Ma senza uno scatto dei suoi quell’occasione nemmeno l’avremmo avuta. Gervinho rappresenta una delle parti più vere di questo mondo fatto d’esagoni e ottagoni: lui inizia a dondolare sul pallone e noi con lui, verso la porta o chissà dove, con la speranza sempre viva che tutto può succedere con lui in corsa. Uno come lui ci spinge addirittura verso il concetto, MOLTO originale, tipico del centometrista: “Vabbè ma se segnava pure era Cristiano Ronaldo”. No, non è Cristiano Ronaldo. Il portoghese piace meno ai bambini.

Abdelkader GHEZZAL (Algeria)

Sarà per quegli occhi azzurri, non unici ma certo rari sulla sponda araba del Mediterraneo, sarà forse per quello che Abdelkader Ghezzal ha sempre voluto essere il più bello. Al Crotone, in C, ma anche — volendo — alla Biellese, la cosa gli riusciva facile, naturale: Ghezzal era oggettivamente il migliore di tutti, il più elegante, il più tecnico, e anche il più efficace. In A, per qualche motivo, gli occhi azzurri di Abdelkader spiccavano di meno: e allora, si sarà detto il giovane uomo nato nel dipartimento di Rodano, non troppo lontano da quel famoso villaggio alpino, allora abbasso la serie A. Abbasso anche i mondiali, abbasso i prestiti, abbasso le esperienze all’estero; come Georges Bataille, altro uomo del Sud Est, Ghezzal ricerca nella dissoluzione e nella perversione la salvezza e la bellezza. Non so se abbia funzionato; d’altronde Abdelkader al momento è svincolato, forse non è il caso di dare ancora un giudizio definitivo sulla vicenda.

Faouzi GHOULAM (Algeria)

Sette anni. Questo è il tempo che ha impiegato Faouzi Ghoulam a fare il salto di qualità. Nasce a Saint-Priest-en-Jarez, un paese sospeso nel tempo, incastrato nel dipartimento della Loira. Il padre e la madre sono algerini, così come i suoi dieci fratelli. È da loro che riceve energia per scalare la vetta. Da ognuno di loro. È come se ogni membro della sua famiglia fosse un ponte che collega Faouzi con ogni elemento della sua terra. Dal 99 al 2010, la fascia sinistra del centri sportivo del Saint- Étienne è di suo dominio. Non ammette alcuna concorrenza, non lascia nemmeno le briciole ai compagni che giocano nello stesso ruolo. Nel 2011 si prende la fascia sinistra della prima squadra, in Ligue 1. Non la lascerà più. Tre anni c’ha messo per prendersi tutto quello che c’era da prendere al Saint-Étienne. 97 presente, un goal e un esponenziale di assist e cross. Una mattina, sulla tarda, prima di pranzo, all’ora del secondo caffè, arriva una chiamata. È la serie A, il Napoli ha un maledetto bisogno di un terzino sinistro. Ma non uno a caso. Per giocare a Napoli o devi essere pazzo oppure devi essere autoritario, oltre che forte. Faouzi pazzo non è. Prende il posto di Réveillère, il 2 febbraio 2014, a Bergamo, nel finale. Non perderà più la proprietà della fascia sinistra bianco azzurra. È come se detestasse perdere tempo, come se reputasse sprecato anche solo un giorno non vissuto per migliorare se stesso aiutando qualcun altro.

Bruce GROBBELAAR (Zimbabwe)

Vero è che se l’evento più drammatico della tua infanzia è vedere Bruce David Grobbelaar trollare Graziani fino a fargli sbagliare il rigore che ti farà perdere la coppa dei campioni, allora la tua infanzia non è stata poi così drammatica. La tragedia è sempre relativa, e di questo sono ben cosciente. Ma ancora oggi, a distanza di 30 e rotti anni, pensare a quello schermo catodico, alla luce bluastra che rischiarava tremolante la buia cucina, al bambino lasciato da solo sotto il tavolo, al tremolio delle gambe vero di Graziani e a quello pagliaccesco di Grobbelaar, a come una madre ritrovò quel bambino dsperato in lacrime sotto quel dannato tavolo a mezzanotte passata, a tutti i Grobbelaar delle medie che nei giorni e negli anni a seguire si beffarono di tutti i bambini romanisti del mondo, ecco, posso essere ancora un po’ incazzato dottoressa?

Mustapha HADJI (Marocco)

I Mondiali di calcio, per la loro unicità di routine, tendono a essere eventi indimenticabili, tali da suscitare emozioni anche in chi non c’era, e in chi non era abbastanza attento. Alcuni, per motivi trascendentali ancora non perfettamente chiari, lo sono però più di altri, e vanno a comporre il nocciolo più duro e profondo dell’anima del calcio. È per questo motivo che, in un modo o nell’altro, si finisce sempre a parlare di Francia ’98, l’evento che ha cambiato per sempre il corso della storia del calcio. C’erano 32 squadre, c’erano molti, forse troppi, giocatori de todos los tiempos e c’enerano moltissimi altri ammantati fin da subito da un alone di iconicità. Mustapha Hadji era uno di questi. Trequartista freak dell’ultimo Marocco mondiale, piedi sensibili quasi innestati su un corpo non usuale. Devastante nelle situazioni di uno contro uno e preciso nelle conclusioni potenti dalla distanza, si sarebbe meritato di confrontarsi col calcio di quindici anni dopo, nel quale forse avrebbe fatto una carriera ancora migliore.

Viktor IKPEBA (Nigeria)

Con quelle gambe brevi ma possenti, con quel po’ di collo che aveva sulle spalle e quelle braccia lunghe lunghe, Viktor Ikpeba sembrava proprio un’aquila rapace dal piumaggio rubicondo, negli anni monegaschi del suo massimo splendore. Nell’attacco nigeriano che vinse l’oro olimpico prese il posto di Yekini nonostante i molti centimetri in meno, d’altronde quelle gambette corte lo facevano andare sul pallone come il vento. Pallone d’oro africano nel 1997 e mina vagante nel Monaco di quegli anni, fu chiuso in casa dalla moglie un paio di anni dopo, nel giorno in cui avrebbe dovuto firmare per la Reggina, poiché la consorte — caso strano — preferiva rimanere nel Principato: e pensa se le avessero proposto di traslocare prendendo la Salerno-Reggio. La povera ragazza lo lasciò solo con i figli l’anno successivo, perdendo la sua battaglia con il cancro, e Viktor si trasferì al Borussia Dortmund. Lì, tra infortuni e incomprensioni col tecnico Sammer, iniziò la sua tristemente precoce parabola discendente, che lo portò a girovagare tra Spagna, Libia e Belgio, quando i suoi artigli non graffiavano più come un tempo.

Mohamed KALLON (Sierra Leone)

Il bilancio in Italia di Mohamed Kallon (Mimmo, come i Gargo e gli Oliseh) parla di 180 presenza complessive e 59 reti ufficiali. Le otto stagioni totali, comprendono l’arrivo a Bologna in modalità Sadiq e l’ultimo anno di Inter, con appena cinque presenze. Andando in ordine: dieci gol al Genoa in B, in coabitazione con Pisano e Giampaolo; sette marcature a Cagliari, tra Muzzi, Carruezzo e Mboma; otto a Vicenza, in coppia con Toni. Il resto è tutta farina dei sacchi di Possanzini e Ventola, mitologia recente che esercita un grandissimo appeal: se ci aggiungi che Kallon è nato a Freetown sei a cavallo. Nel caso fosse sfuggito alla Gazzetta, si badi che abbiamo l’epilogo ideale di uno slide-show sul “che fine ha fatto”: Kallon ha comprato e rinominato — nonché presieduto — il Kallon F.C., team della Sierra Leone, per trentamila dollari.

Degni di nota, nel periodo non collegato: un biennio positivo al Monaco, reduce dalla Finale di Champions, e un annetto all’AEK. Fine carriera di plastica, tra Cina e petrolieri.

Salomon KALOU (Costa d’Avorio)

Ogni supereroe ha il suo sidekick, il suo migliore amico sul campo, nel lavoro, dove ciò che sei si esalta in ciò che fai. Ogni icona ha un’icona gemella al fianco, quella che raddoppia il suo mito, la sua efficacia, la sua pericolosità come avversario, il suo carisma. Oliver Hutton e Tom Becker, Batman e Robin, Steven Tyler e Joe Perry, Didier Drogba e Salomon Kalou. Anche se con Salomon parlare di sidekick è riduttivo: sei anni insieme al Chelsea, una vita intera con la maglia arancio della Costa d’Avorio, mille sguardi d’intesa, centinaia di abbracci trionfanti. Tuttofare offensivo, sia al centro che sull’esterno, vivacizzatore del gioco, quintessenza africana dell’espressione you complete me, ma senza patetismi. C’è stato, e ci sarà, un solo Didier Drogba. Di conseguenza, ci potrà essere soltanto un Salomon Kalou.

Frédéric KANOUTE (Mali)

Duecentodiciassette gol da professionista. Due Coppe Uefa e un Pallone d’Oro africano. Se non vi bastano numeri e palmarés per convincervi a salvare Frédéric Kanouté, fatelo per la sua capacità di essere calciatore militante, coerente nei propri principi, fiero dei suoi valori. Come quando piazzò un grosso pezzo di scotch nero sopra la maglietta del Siviglia, per coprire il nome di quell’agenzia di scommesse così poco halal, o come quando, nel 2009, si beccò una multa per aver mostrato una maglietta che inneggiava alla Palestina dopo un gol segnato contro il Deportivo La Coruña. Una così vi farebbe divertire allo stadio. E discutere al Bar Sport di Proxima Centauri.

Nwankwo KANU (Nigeria)

Kanu è uno degli esseri viventi più belli mai visti su un campo da calcio. Aggraziato come un fenicottero, sempre sul punto di scomparire o di venire spazzato via da un evento naturale catastrofico o da un avversario particolarmente cattivo, Nwankwo aveva un talento pazzesco. Fu perfetto alle Olimpiadi di Atlanta ’96. Fu lì che Massimo Moratti si innamorò. Un amore che nemmeno una disfunzione cardiaca congenita riuscì a incrinare. Ma il destino a volte si accanisce e i frutti di quell’amore e di quella cura paterna vennero raccolti lontano da Milano, a Londra. E la storia di Kanu si legò a quella dell’unico club inglese che lo rispecchiasse pienamente, l’Arsenal: bello, tremendamente bello ed esaltante, a volte, un po’ sfortunato, con una stramba vocazione alla sconfitta.

Salif KEITA (Mali)

In Mali c’è un Salif Keita, che fa il cantante e viene soprannominato la Voce Dorata dell’Africa, e poi c’è SALIF KEITA, che è stato il più grande calciatore africano dei suoi tempi ed è noto come il Presidente. Nel senso che è stato per diversi anni il presidente della federazione sporitva del suo paese, ma anche delegato del Primo Ministro del Mali. La ragione per cui quest’uomo viene tenuto così tanto in considerazione è da ricercare nel fatto che, senza di lui, probabilmente non ci sarebbero stati i Weah, gli Eto’o, i Drogba. O meglio, ci sarebbero stati lo stesso ma avrebbero avuto vita più difficile in quanto è stato Salif Keita il vero pioniere africano in Europa. Attaccante letteralmente mostruoso nel modo di controllare il pallone in velocità, saltare l’uomo, piazzare tiri impossibili, esordì a 15 anni nella Nazionale del suo Paese, e in pochi anni si accorse di lui quello che negli anni ’60 era il miglior club francese, il Saint Etienne. In poco tempo Salif Keita venne soprannominato la Pantera Nera, per l’impatto senza precedenti che ebbe sul calcio europeo. In cinque anni al Saint Etienne mise a segno 125 gol in 149 presenze, 10 gol in 18 presenze al Marsiglia, 23 in 74 presenze al Valencia e 33 in 63 presenze nello Sporting Lisbona. Salif Keita è stato, per primo, l’ambasciatore del calcio africano in Europa, l’espressione massima delle sue potenzialità. La sua eredità non risiede solo in tutti i fenomenali centravanti che hanno conquistato l’Europa partendo dal Vecchio Continente, ma anche nella sua famiglia stessa. Seydou Keita e Momo Sissoko, infatti, due dei più grandi giocatori maliani di sempre, sono suoi nipoti.

Seydou KEITA (Mali)

Se chiedete a Pep Guardiola qual è il giocatore che stima di più a livello personale tra tutti quelli che ha allenato, vi farà il nome di Seydou Keita. Il 9 maggio 2009 il Barcellona gioca la finale di Champions League contro il Manchester United, a Roma. È il primo anno di Guardiola, che sogna di chiudere la stagione d’esordio col triplete, ma nella partita più importante si ritrova con la rosa cortissima in difesa. Mancano Abidal e Dani Alves, Puyol, appena rientrato, deve giocare a destra, Yaya Touré scalare nel ruolo di difensore centrale accanto a Piqué. A sinistra Pep pensa di schierare Seydou, gli parla, ma il maliano lo ferma: «Mister, io non ho mai giocato in quel ruolo, non possiamo rischiare proprio ora, metta Sylvinho». Guardiola non ha mai conosciuto un giocatore capace di mettere il bene della squadra davanti al suo al punto di sedersi in panchina in una finale di Champions League. Non prima di incontrare Keita, e nemmeno dopo.
Umiltà e intelligenza, le stesse caratteristiche che hanno permesso a Seydou di arrivare a Roma con le credenziali del giocatore a fine carriera e diventare l’irrinunciabile regista della squadra. Intelligenza, umiltà, e calma. Consapevolezza dei propri pregi e dei propri difetti. Anche così si può essere grandi.

Stephen KESHI (Nigeria)

Da giocatore, quando era un difensore solido e potente, dal tiro esplosivo, è stato uno dei primi nigeriani a trasferirsi all’estero, costruendosi una carriera tra Belgio e Francia prima di capitanare il suo Paese al suo primo Mondiale, quello caldo di USA ’94. Ma, da allenatore, ha fatto persino di più: ha portato il Togo (!) ai Mondiali del 2006, sebbene non fosse in panchina per la fase finale. Poi ha fatto lo stesso con la Nigeria nel 2014, aggiungendoci nel mezzo una Coppa d’Africa vinta. Capitano morale della nostra spedizione per Proxima Centauri.

Doctor KHUMALO (Sudafrica)

Uno che si chiamava Theophilus e che è riuscito a convincere tutti che il suo nome fosse davvero Doctor merita a tutti i costi di essere preservato sul più lontano pianeta dedicato al calcio. Dopodiché, vi dirò, era pure bravo eh.

Osei KOFI (Ghana)

In occasione delle celebrazioni per il centenario della Federazione fu organizzato un dibattito pubblico sul futuro del calcio nel Paese, ove per prendere tempo si sarebbe parlato anche del suo rapporto con il passato glorioso. Il reverendo fu invitato sul palco, qualcuno voleva farsi bello con le sue memorie. Nelle prime file egli riconobbe alcuni dei suoi vecchi compagni, e quando i loro sguardi si incontrarono l’uomo scoppiò in un pianto liberatorio e angosciato, tanto che mentre singhiozzava si teneva il volto tra le mani. Il reverendo vuotò il sacco. Un governo che pretende che una vecchia stella, oggi comune pensionato in un Paese povero, paghi 10mila cedis per assistere a una partita ufficiale della Nazionale allo stadio, è un Paese che sfuggirà al controllo dei suoi governanti. Tuttavia si sentì comunque di ringraziare chi di dovere per la sua nomina a Coordinatore dei Giochi Nazionali, disse che sperava fosse di buon auspicio. E gli tornò in mente quella volta in cui, a metà degli anni ’60, rifiutò 30mila sterline inglesi che lo avrebbero portato in Europa tra i professionisti. In quei giorni lo chiamavano il Mago del dribbling. Rifiutò, allora non avrebbe mai voluto lasciare il suo Paese.

Kalidou KOULIBALY (Senegal)

I suoi miti sono Thuram, Malcom X e Nelson Mandela. E’ un ragazzo tanto sensibile fuori dal rettangolo verde, quanto insuperabile in campo. Velocità e fisico poderosi, ottima capacità di stacco, fosse nato qualche anno prima lo chiameremmo stopper. La capacità di Koulibaly di migliorarsi in ogni aspetto del suo bagaglio tecnico ha fatto innamorare tutti, anche Deschamps che voleva portarselo all’europeo dimenticando la scelta del difensore di vestire la maglia del Senegal. Accolto con entusiasmo a Napoli da compagni e tifosi che ne apprezzano il carattere mite e gioviale, memorabili i suoi primi giorni con la maglia azzurra: Benitez ed Albiol seduti a tavola che cercano di spiegare i movimenti difensivi a Koulibaly simulando una partita di calcio con sale e pepe, Insigne (164 cm) che bullizza, si fa per dire, Koulibaly (195 cm), con degli schiaffetti (avrà usato una scala) e l’affermazione “Ma che brav guaglion” ad ogni sorriso accennato del difensore dopo questo simpatico gesto dell’attaccante. Koulibaly non può non piacere, anche solo per l’impegno che ci mette in ogni cosa che fa, dalla marcatura su Higuain, alle partitelle a tavola in cui lui è il pepe e Albiol il sale per motivi cromatici.

Samuel Osei KUFFOUR (Ghana)

Niente, sai quelli che li vedi in campo e dici io a questo darei anche le chiavi di casa? Samuel Osei Kuffour, ghanese con licenza a un certo punto di diventare tedesco per meriti riconosciuti sul campo dell’Olympiastadion di Monaco di Baviera, al centro della difesa dava questa idea di sicurezza perché era completo, si vocifera non abbia mai nemmeno voltato lo sguardo verso una fascia, il suo credo era e resta in eterno la via centrale, la certezza di avere un portiere alle spalle e un regista davanti, insomma un professionista dell’angolo retto. Kuffour sembrava sapere in ogni posizionamento che l’area è la misura dell’estensione di una regione bidimensionale di uno spazio, ovvero la misura dell’estensione di una superficie. A patto che a misurarla fosse lui.

Emmanuel KUNDÉ (Camerun)

Il dischetto dagli undici metri rappresenta quelle occasioni uniche nella vita, non scritte, di quelle da dentro o fuori, incubo delle probabilità. Specie se sei un difensore, uno a cui non capita tanto spesso di essere decisivo, specie se giochi in Camerun e non hai molte occasioni di farti notare dal mondo del pallone che conta. Coppa d’Africa 1988, finale contro la Nigeria, risultato sullo 0 a 0. È stato atterrato Roger Milla in area, e davanti c’è Peter Rufai, ma il rigore non lo batte un attaccante, lo batti tu. Rincorsa lunghissima che ti porta fuori dall’area di rigore. Destro sul secondo palo, Rufai non ci arriva, gol. Non segnerà nessun altro, il Camerun è Campione d’Africa. E allora ci prendi gusto. Dua anni dopo, in una notte estiva italiana, ti guarda tutto il mondo mentre affronti la boriosa Inghilterra che Platt ha portato in vantaggio al 25esimo. Al 60esimo, però, Roger Milla viene buttato di nuovo in area. E allora, come dicono gli inglesi, you see a pattern there, e torni sul dischetto. Stavolta la rincorsa è più breve, sicura, e il tuo destro non lascia speranze a Shilton. Bastasse sempre un tuo rigore, oggi sareste stati Campioni del Mondo, invece perdeste 3 a 2. Però il tuo lo facesti, e non puoi rimproverarti niente, anzi, il bilancio col destino,c dal dischetto, è decisamente positivo. Emmanuel Kundè, l’insostenibile leggerezza dagli 11 metri.

Saliou LASSISSI (Costa d’Avorio)

La sua carriera è iperbolica: inizia lanciando la sua auto contro un cassonetto e poi inveendo contro una vigilessa. Dopo aver provato a firmare una decina di contratti insieme (uno pure con la Juve) riesce a trasferirsi in Italia, dove esordisce con due risse e 6 giornate di squalifica. Partecipa allo scambio del secolo Roma-Parma, con Gurenko, Mangone e Poggi in gialloblù e lui, Fuser e Longo nella capitale.
Appena vede l’Olimpico gioca il jolly: frattura di tibia e perone e tre anni di stipendio senza neanche allenarsi.
In totale paranoia accusa i medici di dargli strane pillole e ogni mattina il fisioterapista se lo ritrova sul lettino.
“Saliu, stai bene, so’ passati due anni”
“Non è vero”.
A fine contratto se ne va in Africa, poi litiga con Petkovic in Svizzera e ritorna in Francia.
Ad oggi è in Polonia, gioca con una squadra di dopolavoristi, ma lui non sa cosa significhi.

LAUREN (Camerun)

Uno di quelli che avrebbe avuto la possibilità di scalare le pagine di Google, superare Ralph Lauren, affiancare almeno Lauren Bacall, invece niente, un fuoco di paglia è stato Lauren, all’anagrafe Laureano Bisan-Etame Mayer (anagrafe in Africa è tipo il calendario messo in orizzontale), camerunese originario della fascia destra che ha vissuto qualche periodo di notorietà grazie alla folta capigliatura Jean Louis Davids in quel Mallorca che poteva vantare il connazionale Eto’o praticamente in fasce (stando sempre all’anagrafe del Camerun che ha l’attendibilità delle previsioni meteo ad Atlantide). Su Wikipedia la sua voce recita “Se stai cercando il nome proprio di persona maschile o quello femminile, vedi rispettivamente Lorenzo e Lorenza”. Niente, vittima dell’anagrafe proprio.

Rabah MADJER (Algeria)

Rabah Madjer, il Tacco di Allah, illuminò l’Europa del calcio di luce scintillante durante la finale di Coppa dei Campioni del 1987. Lui volgeva le spalle alla porta del Bayern Monaco di Matthaeus e Rummenigge e la sua squadra, il Porto, era sotto di un gol. Ragion per cui allora Rabah si inventò il gesto che ancora oggi, in ambito francofono, viene chiamato il Madjer, l’audace gol di tacco. Questo sovvertimento della prospettiva tutto arabo fece risvegliare in preda ai sudori freddi il razionalismo teutonico, consentì al Dragone la rimonta, e la vittoria della Coppa. Fu quella la vendetta di Madjer nei confronti del calcio tedesco che, cinque anni prima, al Mondiale dell’82, aveva escluso la sua Algeria grazie a un infame biscotto con l’Austria. Rabah aveva segnato allora il gol del momentaneo 1 a 0 nella vittoria contro la Germania Ovest ma, a causa dell’accondiscendente sconfitta austriaca nell’ultimo turno, la sua Algeria non si era potuta qualificare per le fasi finali del torneo. Nell’estate dell’88 Madjer, allora uno dei centravanti più ambiti d’Europa, sfiorò il campionato italiano, posando anche per qualche foto con la maglia dell’Inter, ma fu poi rimandato al mittente per un infortunio alla coscia che non gli fece superare le visite mediche.

Riyad MAHREZ (Algeria)

Fino a un anno fa, Riyad Mahrez era il segreto d’Africa meglio custodito. È sbocciato dal niente come una rosa del deserto ed è stato uno dei trascinatori del Leicester di Claudio Ranieri. Mahrez si muove con la leggiadria di un ballerino, su quelle gambe così esili che hai paura che, prima o poi, qualcuno gliele spezzerà. Tocca la palla come farebbe un alchimista con la pietra filosofale. Nella scorsa stagione ha imparato pure a essere letale: su YouTube c’è un video che raccoglie le prodezze della stagione 2015/2016 e il 90% delle skills finiscono con un assist o con un gran gol. E, oggi, non ci sono più segreti.

Patrick M’BOMA (Camerun)

È bene che lo sappiate in anticipo: se doveste portarvi Patrick M’Boma sul vostro pianeta, è molto probabile che vi capiterebbe di vederlo ciondolare svogliato per il campo in più di un’occasione, ma quando capiterà quella volta che ne ha davvero voglia, scoprirete che ne è valsa la pena.
Perché quando partiva palla al piede M’Boma, non ce n’era per nessuno, con quel fisico da centravanti e quel piede sinistro da trequartista. Per la verità, Patrick, da 10 ci ha pure giocato, con la nazionale del Camerun, alle spalle di Samuel Eto’o, vincendo un’Olimpiade e due Coppe d’Africa, e prendendosi un Pallone d’Oro africano. In Italia è arrivato nel 1998, dopo essere stato in Francia e Giappone. Due anni a Cagliari, iniziati con una frattura all’alluce, culminati con una retrocessione orribile, conditi, sporadicamente, con numeri da fuoriclasse come la tripletta all’Empoli. Quindici gol in 40 presenze, poi Parma, con molta meno fortuna. Siamo certi che un’esperienza fuori dal Sistema Solare gli piacerebbe: parla giapponese, francese, inglese e italiano. Ci metterebbe poco a imparare anche il proximese.

Obafemi MARTINS (Nigeria)

All’inizio il gioco era questo: contiamo quante capriole fa Oba Oba dopo un gol.
Né io né mio fratello ci riuscivamo perché lui era veloce, YouTube non c’era (e, se c’era, noi eravamo troppo piccoli) e non potevi fermare le azioni e rivederle schiacciando due tasti del telecomando. Prima o poi si spezzerà le ginocchia, a furia di volteggiare come un pazzo, dicevano. Martins ha la dinamite nelle gambe, uno scatto furioso e un talento irregoalare e grezzo. Adesso è perso a Shanghai, al tramonto di una carriera tutto sommato non indimenticabile. Dei suoi 28 gol con la maglia dell’Inter, quello che ricordo con più affetto l’ha segnato a Highbury, quando sulla panchina dell’Inter sedeva el hombre vertical Cuper. Martins riceve palla al limite dell’area, mentre galleggia sulla linea del fuorigioco, si becca due calcioni tremendi da un difensore che tenta un recupero semi disperato, resta in piedi e calcia in porta. Gol e via di capriole. Che poi erano più importanti dei gol, forse.

Phil MASINGA (Sudafrica)

Quella volta che Luigino mi portò a vedere Bari-Milan ero contento, all’inizio. Non avevo Telepiù, e quella partita sembrava abbordabile. Per carità, noi eravamo nel momento più brutto del decennio, ma Luigino conveniva con me che un Intertoto, chissà, magari. Era il postino del mio quartiere, Luigino, nonché mio tramite nella mia prima iscrizione al Milan Club di Urbino.

Piano piano, ho iniziato a sentirmi meno sicuro. Mi sono tornati in mente i colpi gobbi di Gautieri, di qualche stagione prima, oppure i 3–2 a nostro favore con regali arbitrali negli anni dell’onnipotenza. Mi sono ricordato della Coppa d’Africa, e di quando Masinga, alla Salernitana di Alessio Pirri, era ben recensito da quelli di “A tutta B”.

Che nervoso, Masinga. Mi stavi simpatico, ti chiamavi Philemon, e avevi tutto il mio sostegno quando restavi per venti giornate a 9 gol e non volevi raggiungere la doppia cifra. Però cazzo, Masinga, dai. Già di per sé il numero 47 è un numero discutibile, ma soprattutto è un minuto in cui subire gol è particolarmente fastidioso. Le cose tra noi, da allora, non sono state più le stesse tra Masinga e me. E nemmeno tra me e Luigino, che è andato in pensione poco dopo e del Milan, con me, non ha parlato quasi più.

Benni McCARTHY (Sudafrica)

Da Paramaribo al Sud Africa il passo è breve: c’è una squadra, a Città del Capo, che si chiama Ajax Cape Town, milita nella nuova Premier sudafricana e ultimamente ha avuto come portiere Anssi “do you remember me” Jaakkola. Sono le stesse scorie di impero coloniale che hanno portato Benny Mc Carthy ad Amsterdam, all’età di vent’anni scarsi, per farne la punta sudafricana dalla carriera di maggior prestigio. Due vittorie in Eredivisie, lasciata con la volontà di sperimentare Liga, Portogallo e Premier: non benissimo nelle esperienze al Celta Vigo, con cui mette bacheca una Coppa Intertoto; vince tutto con il Porto di Mourinho; segna con regolarità al Blackburn. Per gradire, capocannoniere della Coppa d’Africa 1998.

MIDO (Egitto)

Era una promessa del calcio egiziano Abdelamid Hossam Ahmed Hussein, che poi per il bene di tutti abbiamo convenzionalmente chiamato tutti Mido. E davvero, fin dai tempi dell’Ajax, si vedeva fosse un attaccante completo: sgusciante ma ben piazzato, capace di scegliere il posizionamento in area come i felini in una casa mai vista prima, con un sinistro velenoso e una fantasia nell’esecuzione degna di un prestigiatore. Ma poi non si può vivere in area di rigore, lì fuori il mondo è meno geometrico, ci sono mille distrazioni e linee curve, perciò Mido non è riuscito a rispettare le attese e ha girato il mondo calcistico di squadra in squadra, trovando un equilibrio praticamente mai. È un quadrato che si inscrive nel cerchio, non il contrario.

John Obi MIKEL (Nigeria)

Era un ragazzino quando ha esordito con il Chelsea, John Michael Nchekwube Obinna, vabbè insomma il nigeriano Obi Mikel, era un ragazzino e pare ci sia rimasto, a giudicare da quel modo di stare in campo reattivo e con la testa sempre alta; un centrocampista completo, di fisico e rapidità di piede, capace di giocare di rottura e di costruzione, pare che una volta un centrocampista avversario abbia provato a togliergli la palla e che il malcapitato si sia lamentato poi con l’arbitro perché a suo dire non era regolare che la tenesse così facilmente ancorata al piede, doveva esserci un trucco, un marchingegno segreto che una volta rivelato l’avrebbe trasformato in un tassista di Mile End. Non è accaduto.

Roger MILLA (Camerun)

Una cosa strana della mente umana è valutare la grandezza delle persone non tanto per quello che hanno fatto di buono in assoluto, ma per quanto hanno fatto fare figuracce ad altre persone che si ritengono antipatiche. E’ la storia de “i nemici dei miei nemici sono miei amici”. Ecco amici alieni, Albert Roger Milla possiamo considerarlo il capostipite di queste figure vendicative; non starò qui a parlare delle promesse del calcio africano, del camerun dei miracoli eccetera, dei luoghi comuni del calcio dei poveri che chiede rispetto e bla bla bla. Niente di tutto questo, Roger Milla è solo quello ai miei occhi ha dimostrato la differenza tra il divertimento preso seriamente e la buffonata barocca e fine a sè stessa, scherzando quell’Higuita lì che voleva fare i giochetti a centrocampo, voleva umiliare un quarantenne che stava lì quasi per caso, ma come ti permetti Renè, ma che nome è Renè poi, caro Renè eri andato per pwnare e sei stato, giustamente e leggendariamente, pwnato.

John MOSHOEU (Sudafrica)

John Moshoeu è morto, svanito, se n’è andato. Aveva cinquant’anni precisi, un male incurabile e un hype poco pronunciato per la nostra stampa nazionale. Prima delle vuvuzelas, della gran bomba di Tshabalala e del “marchio” Jabulani, c’era una sola istituzione a Soweto (cfr. Finardi, 1987). Fu un prodigio da ragazzetto, al Giant Blackpool. Nel 2004 è diventato — e lo resta ad oggi — il più anziano sudafricano ad aver preso parte a una manifestazione ufficiale. Icona dei Kaiser Chiefs, preferiti ai Pirates, e dieci anni in Turchia, con più di 230 partite e 50 reti. Sotto la guida, al Fenerbahce, sia del vecchio Beckenbauer che del giovane Low. Non si è mai ritirato, se consideriamo che l’ultima stagione, in fondo, l’ha giocata nel 2014, in terza divisione.

Ho conosciuto questo dieci, ormai maturo, dal divano di casa. Ti-emme-ci, ultimi scampoli di spensieratezza e prima media ormai a metà. Mai mi sarei aspettato di spaccarmi di partite tra gennaio e febbraio. Di queste partite, in particolare. Moshoeu fece quattro dei suoi otto gol in nazionale nel Torneo del 1996: Camerun, Algeria e doppietta al Ghana, in semifinale. Le vidi tutte, nessuna esclusa, e pensai che in qualche modo non fosse un caso. Ai tempi, in tutta onestà, beccavo a stento il fuorigioco, ma suo fantasismo mi conquistò.

Sulley MUNTARI (Ghana)

Sulley Muntari è uno dei giocatori più controversi che mi sia capitato di vedere dal vivo o comunque in azione. Mi ricordo un goal alla Juventus che mi fece quasi piangere, con la sua esultanza brutta, quella sorta di C con la mano antesignana della moda a Ciny, con quella duckface antesignana alla moda dei selfie. Mi ricordo l’espulsione in qualcosa come 13’’, un giallo per un fallo appena entrato e il secondo per non aver rispettato le distanze sulla punizione conseguente. Mi ricordo, ovviamente, quello che è rimasto e rimarrà alla storia per sempre come “il goal di Muntari”, che da esterno alla sfida mi fece ridere. Muntari mi ha fatto piangere dalla gioia, dalla rabbia e dal ridere. Non sono in molti i giocatori in grado di farti provare emozioni. Forti.

Joseph MWEPU ILUNGA (Zaire)

Nessuno si chiederà che fine ha fatto Joseph Mwepu Ilunga dopo queste tre partite assurde, che cosa pretendevate da noi, da me, seriamente, io volevo solo giocare a pallone con gli amici, nemmeno potevo pensarci che potevo venire ai mondiali e giocare addirittura contro niente di meno che il Brasile, e adesso questo Rivelino qua sta per battere questa punizione, la batterà fortissima e precisissima e mi condannerà a morte, loro rideranno di questo 4–0 ma io ho una famiglia una casa il mio cane sto impazzendo ARBITRO QUANTO MANCA ALLA FINE madonna santa mi scoppia il cuore tutti i compagni di barriera tremano e piangono ARBITRO MADONNA SANTA QUANTO MANCA basta non ce la posso fare non ce la farò mi gira la testa basta questa attesa della punizione è essa stessa una punizione basta adesso vi faccio vedere io adesso manderò la palla così lontano che non la troverete mai più a costo di passare alla storia per l’imbecille di turno, e farò lo stesso con tutti i palloni che piazzerete su quella mattonella io volevo solo giocare a pallone con gli amici io volevo solo.

Noureddine NAYBET (Marocco)

Nato nella calda Casablanca, difensore centrale fortissimo in marcatura, arcigno, non lasciava mai libero il suo diretto avversario, all’occorrenza libero nello scacchiere che ha incantato il mondo ad inizio millennio sviluppato a La Coruna sotto la guida di Irureta di cui era assoluto punto cardine insieme a Songo’o, Makaay, Pauleta. Verrà consegnato alla storia per lo 0–2 che permise al Deportivo di vincere in casa dell’Arsenal e di passare il turno in un girone di fuoco insieme alla Juventus ed al Bayer Leverkusen poi finalista. Personaggio a tutto tondo in Marocco, coinvolto anche nello scandalo del Grimat, 399 pagine e oltre 4mila nomi di beneficiari di visti passeggeri. Col Deportivo le migliori fortune tra cui una semifinale di Champions League.

Thomas N’KONO (Camerun)

N’Kono, per me, è lo stupore di un bambino che l’ha visto per la prima volta in una sala di una Pro Loco, la Pro Loco di un paese dell’Appennino, quando si proiettavano su grande schermo le partite di Italia ’90 (e sì, quel bambino, che poi ero io, andava anche a vedere il Camerun. Forse, almeno da un certo punto in poi, soprattutto il Camerun). Del Camerun edizione 1990 si è già detto e scritto tanto, soprattutto pezzi anche un po’ retorici su come quei Leoni abbiano rivoluzionato tutto; ma in realtà non hanno rivoluzionato proprio niente, anzi la loro unica — enorme! — rivoluzione è consistita nel dimostrare che gli africani potevano giocare come tutti gli altri, furbi, tecnici, potenti, sgraziati, fallosi, eleganti, temporeggiatori, goffi e meravigliosi come tutti gli altri. E questo lo vedeva anche un bambino di dieci anni: che differenza c’era, tutto sommato, fra Omam-Biyik e Andrea Silenzi, per dirne uno? Nessuna, siamo seri. Invece N’Kono era molto diverso. Perché giocatori come Makanaky o Milla, uguali uguali, uno ce li aveva presenti; ma i pugni di N’Kono, che pestavano tutta l’area di rigore e convincevano qualsiasi cross a girare al largo, o le sue mani aperte, enormi, le sue prese su palloni che non potevano essere acciuffati da nessuno, quello no, quello non l’avevamo visto. Non so se N’Kono abbia prodotto una rivoluzione: ma ha certamente prodotto un’imitazione, un’emulazione, e un’ammirazione di massa. Per dieci anni, forse di più, ogni portiere di campetto è diventato N’Kono; e forse è con Thomas N’Kono che il portiere diventa un ruolo desiderabile, rivendicabile quasi. Perché N’Kono prima non c’era, né come individuo né come ruolo, né, specialmente, come concetto. E solo un fenomeno come lui poteva inventarsi.

Patrick NTSOELENGOE (Sudafrica)

Tutta la stupidità, l’inutilità, lo scempio, la vergogna e la miseria dell’apartheid riecheggiano snaturati e colpevoli nello strampalato alternarsi di consonanti e vocali che forma il nome di Patrick Ntsoelengoe detto Ace, il miglior giocatore che il Sudafrica abbia mai visto. Ace, nonostante avesse anche una bella voce, aveva scelto di giocare a calcio ed era stato una leggenda nei Kaizer Chiefs di Johannesburg, prima di trasferirsi negli Stati Uniti dove dominò il soccer nordamericano con il suo stile di gioco pre-zidanesco tutto tocco vellutato, dribbling in velocità e tiro. Miami, Denver, Minneapolis, Toronto. Assurdo che un figlio dell’Africa profonda come lui sia dovuto andare così lontano per esprimersi, assurdo. Ma mai assurdo quanto il fatto che non abbia MAI giocato nella Nazionale sudafricana, a causa della segregazione razziale.

Segun ODEGBAMI (Nigeria)

Prima di Yekini, Amokachi e Amunike, in un calcio in cui i potenti e concreti centravanti nigeriani giocavano in Nigeria e non in Europa, c’era Segun Odegbami, primo bomberone nigeriano, capostipite di una genia di carrarmati, dalle spiccate doti realizzative e dal carisma che nel tempo ha saputo irradiarsi anche fuori dall’unico continente dove abbia mai giocato, quello africano appunto. A tutto questo si aggiungano ventitré reti in quarantasei partite con la Nazionale e una Coppa d’Africa sollevata da protagonista assoluto.

Uche OKECHUKWU (Nigeria)

Difensorone, dai.

Jay-Jay OKOCHA (Nigeria)

Un nigeriano coi piedi da brasiliano cresciuto in Germania. Se cercate il numero 10 africano per antonomasia, quello è Jay Jay Okocha. Anarchico e individualista, capace di giocate da stropicciarsi gli occhi, abbastanza talentuoso da sedurre il Manchester United ma non sufficientemente “pronto” da giocarci una partita. Jay Jay ha vissuto una carriera tra dribbling, veroniche e imprendibili bolidi all’incrocio dei pali, togliendosi le soddisfazioni migliori con la maglia della sua nazionale (un’Olimpiade, una vittoria un secondo e tre terzi posti nella Coppa d’Africa) e facendo il pendolare tra club di seconda e terza fascia come il Paris Saint Germain pre-Qatar, il Fenerbahçe, il Bolton. Eppure è diventato mito e leggenda, giocatore cult come pochi altri, emblema di talento inespresso e incompiuto. In una parola: poesia.

Sunday OLISEH (Nigeria)

Sunday, domenica. Come l’ultimo giorno di riposo: bello, noioso, rilassante, lento e gioioso.
Un destro potentissimo, arriva in Italia nelle fila della squadra in cui i giapponesi decisero di mandare Mark Lenders nell’ultima serie di Holly e Benji, la Reggiana.
Geometra del centrocampo, vive le sue fortune in nord europa, tra Colonia, Ajax e Borussia Dortmund. Passa per la Juventus nello strano anno in cui Henry prima gioca da terzino e poi viene scartato come l’ultima delle pippe. In bianconero Sunday avrebbe al suo fianco Davids e Zidane ma il suo posto è occupato da Tacchinardi.
Un giocatore bellissimo ma quasi invisibile, tanta testa e pochi fronzoli, bel piede e ritmo lento.
Peccato che la federazione nigeriana non gli abbia pagato un anno di stipendi, forse un cervello così avrebbe potuto far qualcosa per una nazionale che non abbiamo potuto far altro che amare.

François OMAM-BIYIK (Camerun)

Libero De Rienzo e Stefano Accorsi stanno ancora spiegando a Mandala Tayde l’estetica di quello stacco a Italia ’90, prima rete ufficiale del Mondiale in cui l’Argentina partì sotto. E se Accorsi nel frattempo ha perdonato la tipa per la storia con il regista, noi dovremmo fare lo stesso con Omam Biyk, per quel tandem con Paco Soares che è andato a comporre alla Sampdoria. Non dovevamo aspettarci un impatto alla Mboma, del resto, più giovane e in condizione. Tanto più che Biyk non arrivava dai suoi anni in Francia (oltre 40 reti in quattro anni), ma da una lunga esperienza in Messico. Bottino impressionante in nazionale, con 77 gettoni e 45 marcature.

Steven PIENAAR (Sudafrica)

Due quartine per Steven Pienaar:

Non vorremmo qui fingerci dei maghi

poiché il pallone è bello in quanto vario,

ma se non fosse stato per Inzaghi,

avremmo avuto ben altro scenario.

Punizionista forte, ma inatteso,

muovèvasi dinamico e con grazia;

a Londra e in gialloverde s’è difeso,

la curva “Jimmy Grimble” lo ringrazia.

Lucas RADEBE (Sudafrica)

Esimi commendatori alieni, vi hanno raccontato che la Coppa del Mondo di rugby vinta dal Sudafrica nel 1995 giocò un ruolo chiave nella transizione alla democrazia? Balle. O meglio: fu molto più decisivo il trionfo in Coppa d’Africa l’anno seguente. Perché il rugby era sport per bianchi, mentre i neri avevano sempre avuto il calcio come unico strumento d’emancipazione. Uno degli eroi dei Bafana Bafana era Lucas Radebe, mediano riciclato come stopper, e non poteva essere altrimenti: veniva da Soweto, sobborgo di Johannesburg dove furono inferti i primi colpi letali all’apartheid e dove rimase lievemente ferito a 23 anni da un colpo di pistola mentre comprava da bere per la madre. Acquistato quasi per caso dal Leeds, sotto la guida di George Graham divenne capitano e indiscusso idolo della tifoseria per l’arcigna marcatura a uomo e le sue strabilianti sforbiciate.

Hany RAMZY (Egitto)

Hany Ramzy è un veterano. Comunque la giri e la metti, ovunque lo sposti, ha il fisico e il carisma del veterano. Difensore centrale autoritario e longevo, ha esordito sulla scena internazionale ai Mondiali italiani del 1990 e non l’ha più lasciata: da allora quattro anni in Svizzera e dodici in Germania, tra Werder Brema e Kaiserslautern, dove ha anche vinto la Bundesliga. In Nazionale, poi, chi dice Egitto dice Ramzy, dato che non ha perso una sola competizione fino alla Coppa d’Africa del 2002.

Moussa SAIB (Algeria)

Tuttocampista algerino dai piedi ottimi e dalle geometrie sontuose, è stato campione di Francia con l’Auxerre a metà degli anni ’90 (con quella maglia ha vinto altre due coppe Nazionali). Con l’avvicinarsi dei 30 anni si è concesso qualche esperienza in giro per il Mondo: Valencia, Tottenham, Al-Nassr e poi di nuovo Francia, salvo poi chiudere la carriera a casa, in Algeria.

Mohamed SALAH (Egitto)

Chi è l’africano più veloce? E chi lo sa, in un intero continente di quadricipiti quasi inumani. Di sicuro, però, nessuno mai potrebbe uscirsene con la frase “be’, certamente un egiziano”. Mohammed Salah, detto Momo, se non è il più veloce è certamente tra i primissimi, e se non è il primo lo è per pochi centesimi. Volto sorridente e gentile dell’Islam nordafricano, chiamato da alcuni il Messi delle Piramidi (con una pomposità che, pur ammettendo l’antico lignaggio egizio, non si addice a questa piccola, esplosiva ma piuttosto dimessa ala destra mancina), Momo si è messo in luce al Basilea, poi è stato provato e snobbato dal Chelsea, ha trovato gloria alla Fiorentina per accasarsi infine, tra mille polemiche, nella Capitale d’Italia, dove è benvoluto e anzi, amato, nonostante ogni tanto si lasci trasportare un po’ troppo dal mulinello che ha al posto delle gambe. Tanto tranquillo e rispettoso quanto diabolico nell’uno contro uno, non manca di ringraziare Allah ogni volta che segna. Un commentatore locale lo ha soprannominato “il feroce Saladino”, ma, vostra alienazione, stia pur tranquillo, che gli unici infedeli che decapita sono i difensori troppo legnosi.

Mohamed SISSOKO (Mali)

Una piovra di oltre un metro e 90, al centro del campo, a recuperare palloni. Lo ha fatto a Valencia, al Liverpool, alla Juventus, al PSG e poi in Cina e India. Generoso e altalenante come solo ciò che è davvero sempre genuino sa essere, è dotato di un tiro potente e di una struttura soggetta a infortuni che ne ha limitato le possibilità nel tempo. Ed è stato un peccato.

Rigobert SONG (Camerun)

Alex Song Billong, onesto mediano ex Arsenal e West Ham, è cugino di Rigobert Song Bahanag, ma lo chiama zio. E vorrei ben vedere, anche se fossi il padre di Rigobert Song Bahanag, lo chiamerei comunque zio. Questo perché Rigobert Song attira rispetto come un frigo una calamita, Rigobert Song è il Grande Capo. Così l’hanno ribattezzato al Galatasaray, unica squadra tra le tante che ha girato nella sua carriera in cui si è fermato per più di un paio di stagioni. Questo perché Rigobert Song, con le sue lunghe trecce e barbe e i suoi colori di capelli e il suo danzare nel contrasto e nel disimpegno, è un po’ come Ken il Guerriero: dopo aver diffuso la sua sacra arte dell’Elevazione in fase difensiva, fa le valigie e la porta in un altra parte del mondo. E così ha fatto al Metz, al Liverpool, West Ham, Colonia, Lens, Galatasaray appunto e Trabzonspor. Ma il trasferimento record della sua vita è passato per Salerno, stagione 1998–99, il cavalluccio marino era appena risalito dalla B e alla prima di campionato già gli toccava una difficile trasferta all’Olimpico contro la Roma di Zeman. La Salernitana perderà 3 a 1, ma il gol della bandiera lo segnerà Rigobert Song, che dopo quattro partite si trasferirà al Liverpool. Così, perché Rigobert è come il vento, va dove gli pare, quando gli pare, all’intensità che gli pare.

Jacques SONGO’O (Camerun)

Un nome dal suono napoletano, trascorsi europei ideali per nerd del pallone. Si tratta, di fatto, di una carriera europea di quindici stagioni, equamente divisa tra Francia e Spagna. Ha vinto una coppa nazionale al Metz; al Deportivo La Coruña, con cui si è ritirato dalle competizioni a quarant’anni, ha conquistato uno storico scudetto (1999–2000) e la relativa supercoppa, ripercorrendo in qualche modo le orme di N’Kono. Qualche stagione prima (1997), è stato premiato come miglior portiere della Liga, spiccando sui vari Vitor Baia, Canizares, Molina e Roa.

Mohamed TIMOUMI (Marocco)

Pallone d’oro africano nel 1985, ma quanto sarebbe stato bello vedere Mohamed Timoumi far impazzire i difensori delle linee temporali successive alla sua. Con il suo fisico longilineo, scivoloso e imprendibile, e le sue invenzioni istintive, il suo illuminismo calcistico sornione ma mai compiaciuto, sempre pensato per far apparire il campo più corto e stretto, sempre destinato alla porta avversaria. Poca Europa per lui, e poca comprensione, ma c’era meno spazio per tutta la libertà di cui aveva bisogno.

Eric TINKLER (Sudafrica)

Un talismano, un Fabio Pecchia un po’ più rosso e rock (scusa Brizzi, scusa a tutti) delle mancate permanenze in A. L’Europa di Tinkler comincia al Setubal, per un quadriennio tra cadetteria e massima serie. Entra nella storia del Cagliari dalla parte sbagliata, con Pascolo e Romero: è uno dei peggiori Cagliari di sempre, raddrizzato, solo in parte, dal miglior Tovalieri di sempre. Arriva a suo modo nella Hall of fame del Barnsley (gli ennesimi Reds), in cui milita nell’unica apparizione del club in Premier (ma retrocedono, diciannovesimi, con 82 gol presi e 23 sconfitte). Chiude nel Vecchio Continente con un triennio in Terceira Divisão, alla União de Tomar. Gli alieni, sia detto per inciso, non lo temono.

Kolo TOURE (Costa d’Avorio)

Kolo Touré ha un fratello, magari anche voi alieni avete un fratello. Il fatto è che il fratello di Kolo Touré, Yaya, è stato uno dei giocatori più forti del mondo fino a quando gli è andato, per cui quando lo guardi la prima cosa che pensi è al fratello, anche se non gli somiglia poi molto. Kolo, che è nato il Costa d’Avorio come il fratello, è un difensore centrale che ha vissuto delle stagioni molto buone. Ad esempio ha fatto parte dell’Arsenal degli Invincibili e Wenger lo considera uno dei migliori affari della sua carriera. Ha fatto anche parte della prima Premier League del Manchester City. Ora se ne sta ai Celtic di Glasgow, che è sempre un bel posto dove chiudere una carriera nel calcio. Non c’è stato niente di sbagliato nella sua carriera, che è stata molto buona, se non quella — appunto — di avere un fratello così forte.

Kolo Touré è quindi un fratello, un buon difensore centrale, ma soprattutto uno che sorride sempre. Kolo sembra sempre un tipo molto sereno pronto a scherzare, come quando va a cantare con dei tifosi pazzi la Yaya Kolo song, una canzone dedicata a lui e al fratello tanto per rimanere in tema. Oppure va a casa di un piccolo tifoso a prendere il tè e chiacchierare con lui, diventa un meme, fa lo scemo in palestra mentre spinge con le gambe pesi impossibili, pure quando fa una cazzata in qualche modo la prende con filosofia. Insomma se dovessi giocare a calcio, mi prenderei il fratello; ma se si tratta di andarsi a prendere una birra, tutta la vita Kolo.

Yaya TOURE (Costa d’Avorio)

Per capire che giocatore è Yaya Touré, prendete pure Seydou Keita e rivoltatelo come un calzino. Dove Seydou è ghiaccio e calma, Yaya è fuoco e tempesta. Prigioniero dell’equivoco tattico portato da un fisico di marmo, si trova a giocare nella parte bassa del campo per la prima fase della sua carriera. Pep Guardiola lo guarda, lo conosce, lo apprezza ma non troppo. Alla sua capacità di portare palla preferisce l’attitudine a passarla subito di Sergi Busquets. Così, piano piano, lo mette da parte, e dopo due anni a Yaya quel ruolo da comprimario comincia a star stretto. Al Manchester City comincia una nuova vita, fatta di partite da regista o trequartista, di scorribande palla al piede, di cavalcate e gol. Venti nell’anno di grazia 2013–14, meglio di una punta. Nel 2015 arriva la prima Coppa d’Africa della sua Costa d’Avorio, lui c’è e da capitano, alza il trofeo. Quattro volte calciatore africano dell’anno, incontra di nuovo Guardiola sulla sua strada. E sembra proprio la fine. Peccato, perché uno così non ci si stancherebbe mai di vederlo giocare.

Hatem TRABELSI (Tunisia)

Arrivare in Olanda, nell’Ajax, per completare la difesa che comprendeva Heitinga, Chivu e Maxwell non deve essere stato facile per Trabelsi ma lui era il “Cafù africano” ed i suoi 5 anni con i lancieri sono stati meravigliosi, e sfortunati, perché facevano presagire una carriera luminosissima, che così poi non è stata. Il terzino macinava chilometri su quella fascia a velocità supersoniche e convinse uno degli ultimi Manchester City “poveri” ad investire su di lui, un City che preferì Isaksson a Schmeichel ed Hart e che credeva tantissimo nei centravanti italiani: arrivò Corradi per sostituire Fowler restituito al Liverpool. La storia di Trabelsi in Inghilterra è durata poco. La sua carriera è durata poco. A 31 anni dopo un’avventura in Arabia Saudita, ha deciso di ritirarsi. Scelte sfortunate, sbagliate, gli hanno sbarrato la strada del successo ed oggi, se lo cercate su Google, le persone lo confondono con Nizar Trabelsi, l’ex punta del Fortuna Düsseldorf arruolatosi con Al-Quaida. Nessuno più credeva in Hatem a soli 31 anni, nemmeno chi lo ha amato profondamente come i tifosi dell’Ajax.

George WEAH (Liberia)

Su questo trascurabile e periferico sasso che ammorba questo settore della galassia, vostre amondità, c’è un antico continente chiamato Africa. Una parte di questo è definito “Africa Nera”, una zona ideale arcana, aspra e sofferente. Eppure ce n’è una ancora più nera, nerissima. Ed è da lì che proveniva “King” George Weah, da uno staterello tormentato chiamato Liberia, talmente tormentato da non poter produrre neanche campioni di calcio. Tranne lui. Né prima né dopo Re George la Liberia è riuscita a conquistare l’Europa. Solo col suo Re, il suo leone. Un attaccante potente, reattivo come un grande felino del pleistocene. Aveva tutto: il colpo di testa (anche di nuca), il dribbling, lo scatto irrefrenabile, il potente tiro da fuori area, la finalizzazione nell’area piccola, la mezza rovesciata, il tiro al volo, la potenza. Ha fatto impazzire i tifosi francesi, italiani e inglesi, prima di ritirarsi dal calcio e tornare nella sua Liberia, candidandosi anche alla presidenza per provare a risollevarne le sorti. Troppo, dite? Be, dovete sapere che un tempo King George, con la maglia del Milan, prese palla al limitare della propria area piccola e partì, maestoso come il vento, in un coast to coast che lo portò a segnare a 90 metri di distanza, bucando ogni resistenza del povero Verona ed entrando nella storia. Vedete, non è solamente che non voleva smettere di correre. E’ che non poteva.

Taribo WEST (Nigeria)

Togliamoci la pratica del Taribo calciatore: difensore mediocre e falloso, carriera relativamente anonima, basta. Ma il Taribo con le treccine colorate?
Il Taribo denunciato dalla moglie perché non “consumava” il matrimonio?
Il Taribo che, da solo, come Don Bastiano, un giorno decide di essere prete pentecostale e fonda la chiesa “Rifugio nella tempesta”?
Il Taribo che ha fatto tutta la carriera da classe ’74 e invece, a quanto pare, da due anni si è scoperto essere del ‘62?
Ma un essere umano così lo vogliamo davvero cancellare? Taribo West ci ha insegnato la lezione definitiva: quando tutto quello che fai è sbagliato, dí che te l’ha detto Dio. C’è buona probabilità che, se non incontri Lippi sulla tua strada, qualche anno di Serie A riesci a fartelo.

Pierre Nlend WOME (Camerun)

Pierre Nlend Womé detto Pierino si è costruito una carriera facendo di tutto per giustificare il suo soprannome, fino a che non ha leggermente esagerato e da protagonista delle storielle per bambini si è trasformato nel Gimmi Ilpedofilo di un film thriller-horror-western-drammatico-scifi. Egitto-Camerun: partita valida per le qualificazioni ai mondiali, il Camerun deve vincere per forza però non ce la sta facendo. Al 95°, in piena zona juventus, colpo di scena: l’arbitro assegna un rigore al Camerun. Il rigore della vittoria, della qualificazione ai mondiali, dell’iscrizione del proprio nome nella storia del calcio camerunense. Quello che seguirà è la trasformazione della carriera di Wome da “Pierino e il simpatico” in “Gimmi Ilpedofilo”. Wome strappa il pallone a Eto’o, lo piazza sul dischetto, fischio dell’arbitro: palo. Tifosi impazziti invadono il campo per ucciderlo, lui scappa scortato dall’F.B.I. camerunense, arriva a casa ma, sorpresa, la trova in fiamme, con un esercito di ultras armati di mazze che lo aspettano. Corre in centro al negozio della moglie, ma gli ultras sono arrivati prima e lo hanno distrutto e incendiato e vogliono il suo sangue. Pierino corre all’aeroporto con i suoi cari, c’è in aereo dell’Inter che lo vuole salvo e a casa; fugge dal Camerun, dove non tornerà mai più. (nda: nessun pierino wome è stato ucciso dentro questa storia)

Hassan YEBDA (Algeria)

Quando arrivò a Napoli il commento più clemente fu “E chi è questo?”. E’ il destino di Yebda, costantemente sottovalutato, costantemente disprezzato al momento dell’acquisizione, costantemente idolatrato ogni qual volta la squadra non ci crede davvero in lui. Yebda sarebbe (sarebbe potuto essere forse) un grandissimo centrocampista in molte grandi squadre ma appena sembrava pronto per il grande salto, il suo fisico diceva di no e si rompeva qualcosa. E’ il destino malinconico dei centrocampisti algerini talentuosi, perché il talento a Yebda non manca e c’è un cucchiaio a Castellazzi in un Napoli-Inter a dimostrarlo se non basta l’inserimento, nel 2001 nella lista dei migliori calciatori stilata da Don Balón. Fisico poderoso e buona dose di tecnica, mezz’ala ordinata, all’occorrenza anche regista basso capace di far partire l’azione dalla difesa per poi spostarla nella metà campo avversaria. Al Benfica era anche l’arma tattica quando la squadra di Lisbona perdeva: mettiamo Yebda come punta, dato che l’algerino raggiunge il metro e novanta. Un Fellaini prima di Fellaini.

Tony YEBOAH (Ghana)

Due volte capocannoniere della Bundesliga all’Eintracht Francoforte, Tony Yeboah era un leone che si faceva spazio sinuosamente tra le maglie difensive avversarie per lasciar partire dei tiri impressionanti, non tanto per la potenza, che pure era notevole, quanto per la traiettoria che riusciva a imporgli. Notevoli anche le due stagioni al Leeds, in particolare la seconda, in cui fu anche premiato come giocatore dell’anno. Poi una serie di fastidiosi infortuni e di conflitti col nuovo manager fecero sì che fosse ceduto all’Amburgo. Con quasi 200 reti in poco più di 400 presenze in carriera, e soprattutto con 29 reti segnate in 59 apparizioni nella Nazionale ghanese, Yeboah è stato uno degli attaccanti africani più prolifici di sempre.

Rashidi YEKINI (Nigeria)

Un giramondo del pallone, sebbene il suo cuore sia stato diviso sostanzialmente tra due posti al mondo: da una parte Setúbal (la piazza in cui ha fatto meglio), dall’altra la sua Nigeria. Yekini ha giocato per 23 anni e ha girato parecchio: Portogallo, Grecia, Svizzera, Arabia Saudita. Nel periodo migliore della sua carriera — prima parte degli anni ’90 — il suo concentrato di potenza e velocità era ipnotizzante. Ed era un gran bel perticone, quindi neanche a dire fosse facile. In mezzo, ci ha messo tanti gol per la nazionale: quelle 37 marcature lo rendono ancora oggi il top-scorer della Nigeria, di cui ha segnato anche il primo gol in assoluto a un Mondiale. Un record difficilmente raggiungibile, visto che il secondo in graduatoria è a -15.

Ibrahim YOUSSEF (Egitto)

Soprannominato il cervo nero, questa leggenda egiziana del pallone non ha lasciato molte tracce di sé a parte il nome nel calcio internazionale, ma è considerato il miglior libero della storia nordafricana in un periodo in cui i liberi buoni si contavano sulla punta delle dita. A metà degli anni ’80, infatti, i prezzemolini di France Football lo inserivano spesso nelle prime posizioni tra i giocatori africani migliori dell’anno.

Ezzaki Badou detto ZAKI (Marocco)

Portierone marocchino degli anni ’80, fu eletto miglior giocatore africano nel 1986, anno in cui partecipò con la sua Nazionale anche ai Mondiali messicani, al termine dei quali fu acquistato dal Maiorca. In Spagna giocò per sei stagioni, lì non vinse nessun titolo nazionale ma nel 1989 si mise in saccoccia almeno un importante titolo personale, il Trofeo Ricardo Zamora, assegnato da Marca al portiere con la media gol subiti più bassa in base alle presenze. Buttalo via.

Mohamed ZIDAN (Egitto)

Non è solo questione dell’apocope di una -e: parliamo di uno degli artefici del back to back in Coppa d’Africa. Tredici anni in Europa, con un primo blocco in Danimarca (capocannoniere nel 2004) e quasi un decennio in Bundes. Malino al Werder, bene al Mainz; male all’Amburgo, bene al Dortmund. Ha segnato una doppietta al Brasile e uno all’Inghilterra; nel 2013 ha rischiato sei anni di carcere per truffa a una società immobiliare. L’anno scorso è tornato in Egitto e non sembra, a sette lustri, che si sia ancora ritirato ufficialmente.

Moustafa ZITOUNI (Algeria)

Il calcio è fatto di scelte tanto quanto la vita, intesa come processo che, in assenza di tempo, va da un punto corporeo A a un punto corporeo B, e in mezzo ci rotola un pallone. Moustapha Zitouni, difensore considerato tra i migliori della Ligue 1 tanto che era detto Monsieur Football, all’apice della carriera, nel 1958, molla la Nazionale francese e il Monaco e guida un nutrito gruppo di colleghi (tra cui Mekhloufi, Brahimi e Ben Tifour) in Algeria, nel Paese Natale, nella squadra del FLN, non riconosciuta da nessun ente calcistico ufficiale. Lo fa per ben 4 anni, prima della formazione di una Nazionale ufficiale algerina. Per dire, capitano dell’Algeria e suo giocatore simbolo prima ancora che ci fosse l’Algeria. Ed era uno dei migliori difensori del suo tempo.

Didier ZOKORA (Costa d’Avorio)

Una squadra di calcio non ha bisogno solo di persone che sanno utilizzare l’attrezzo-palla. In certi contesti, in certe partite, la tecnica non basta. Ci vogliono personalità, coraggio, carisma. Per questi e per almeno altri sei-otto motivi, nella mia squadra del cuore vorrei sempre almeno un Didier Zokora. Il “Maestro” ivoriano ha girato mezza Europa dispensando randellate, buoni passaggi corti e preziosi consigli su come gestire gli affetti, gli affari e gli imprevisti che nella vita possono capitare. Mai su Proxima Centauri senza.

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Gli invasori stettero in silenzio per un po’, e poi confessarono: non abbiamo visto se erano cento, non li abbiamo contati davvero. Ci avevate convinto già a Babangida.

L’Africa era salva e, finalmente, libera.

La linea difensiva della Terra, in questo episodio, è stata composta da: Simone Vacatello, Simone Nebbia, Adriano D’Esposito, Tommaso Giancarli, Valerio Savaiano, Gabriele Lippi, Flavio Iannelli, Simone Pierotti, Alessandro Fabi, Oscar Cini, Emanuele Atturo, Marco D’Ottavi, Daniele Morrone, Simone Donati, Antonio Paesano, Gabriele Anello, Matteo Serra, Sebastiano Iannizzotto, Saverio Nappo, Leonardo Ciccarelli, Tommaso Naccari

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