Al Roland Garros una perla nel deserto della mediocrità

Crampi Sportivi
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8 min readJun 10, 2013
deserto dei tartari

Non dite che non ve l’avevamo detto. Certo, forse è stato anche peggio di quanto ci si potesse aspettare.

Se siete amanti di un tennis imprevedibile, fatto di match spettacolari, di repentini capovolgimenti, di inaspettate rimonte, be’, allora per voi questo Roland Garros potrebbe aver rappresentato una sorta di scherzo di cattivo gusto.

Nelle ultime sette partite del torneo, in pratica dai quarti di finale, non c’è stata una sola partita, esclusa Djokovic-Nadal, arrivata al quarto set. Per di più tutto prevedibilmente e secondo pronostico, sì, anche la sconfitta di Federer, che s’è presentato a Parigi con la chiesa sconocchiata (ha servito a velocità medie da circuito femminile e ha sbagliato una cosa come sette smash) e s’è arreso debolmente a Tsonga. È vero che il francese lo aveva già battuto altre volte, ma qui lo sforzo è stato davvero minimo e vedere il re arrendersi così remissivamente fa parte di quelle cose che fanno male al cuore.

David Ferrer, ovvero l’Aurea Mediocritas In un torneo così mediocre e prevedibile non poteva che arriva in finale il giocatore che ha fatto della mediocrità e della prevedibilità un’arte sofisticata: David Ferrer.

Ferrer è come prendere la vita e toglierci il fattore aleatorio e il caso. Come se la vita avesse un suo intoccabile equilibrio tra il bene e il male e ti restituisse esattamente quanto meriti.

Ferrer ha esattamente quanto merita: il suo procedere in qualsiasi torneo somiglia a una sorta di algoritmo matematico, semplicemente vince con tutti quelli meno bravi di lui e perde con tutti quelli più bravi di lui. Mai una sorpresa, in meglio o in peggio: solo le cose come dovrebbero essere. Ferrer è una perversa incarnazione del concetto di Aurea mediocritas Oraziana. Questa attitudine, unita al fatto che è il numero cinque del mondo, fa di lui l’eterno “piazzato”. Diversi tennisti — persino i più stronzi — hanno avuto nella vita il loro cosiddetto exploit, da Soderling a Del Potro, da Kuerten a Philippousis, ma non per chi deve umilmente portare avanti la filosofia della modestia, non per David Ferrer. Il suo posto è, per l’appunto, tra i primi cinque, o quattro se il sorteggio va bene. Quindi il traguardo massimo da centrare è solitamente la semifinale, quest’anno il precario Roger (con il quale ha perso tutte, dico veramente tutte, le volte in cui ci ha giocato) ha perso consegnandogli Tsonga in semifinale, che è in termini tennistici e umani l’esatto opposto di David Ferrer.

La negazione dello spettacolo Come abbiamo già detto, Tsonga è un tennista molto forte trapiantato nel corpo di Mohammed Ali, con il quale condivide anche una certa attitudine pugilistica applicata al tennis; un tennis fatto di esuberanza fisica, di rapidi unodue: servizio e dritto, servizio e volè, servizio e basta, tutto molto forte e imprevedibile. Per dire, è uno che gioca il rovescio a due mani ma che nello scambio si può invasare al punto di tirarlo ad una mano per cercare il vincente.

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Tsonga — che aveva dalla sua anche una certa capacità di esaltarsi col pubblico di casa — per battere Ferrer avrebbe dovuto semplicemente giocare bene. Ma se per Ferrer il giocare bene rappresenta un dato di fatto, un sottinteso di ogni sua partita, per Tsonga non è mai banale, rappresenta un punto di congiunzione di vari fattori cosmici. E per stavolta questa congiunzione non c’è stata, così s’è beccato tre set ed è tornato a casa a testa bassa.

I commentatori paiono sempre manifestare un misto tra la sorpresa e l’indignazione quando parlano di Ferrer. “Vorrei spezzare una lancia a favore di Ferrer. Tennista umile e spesso dimenticato, troppo poco personaggio per questo tennis”. Mi verrebbe da rispondere: grazie al cazzo! Cosa c’è di ingiusto o di inconcepibile nel fatto che alla sua partita di quarti contro Robredo ci fossero tipo sei persone? Ogni sua partita è un copione già scritto, non ti offre mai una cosa, non dico spettacolare, ma almeno significativa, che sappia in qualche modo generare tensione: niente. Sinceramente lascio la retorica dell’esaltazione dell’umiltà agli operai sardi, per il tennis mi tengo l’imprevedibilità cazzona di Tsonga.

Per di più anche il tennis di Ferrer sembra rispondere ai principi della medietas oraziana. Un tennis che non ha veri e propri colpi vincenti, che ha un buon rovescio, un buon servizio, un buon dritto, che vengono usati per lavorare ai fianchi l’avversario più che per stenderlo.

Quintessenza del suo tennis è il servizio: un movimento chiuso e anti-estetico come quello di un adolescente imbarazzato, tirato senza cercare mai l’ace, che preferisce tirare a ¾ della velocità ma tenere la palla in campo piuttosto che rischiare la seconda.

Ferrer è l’incarnazione di tutti i previdenti, gli umili e i seri del mondo. Il simbolo di tutti i Ned Flanders destinati ad essere divorati da questa vita.

Dati questi presupposti, credo che nessuno avrebbe creduto che la finale con Nadal sarebbe stata niente di meno di quella che è stata: una carneficina. Un motivo in più per farsi annoiare da Ferrer è il fatto che non mi ha lasciato argomenti per parlare un minimo della finale del Roland Garros. Si può però fare un passo indietro e tornare alla semifinale, quello sì.

Anche nel deserto nascono fiori Perché in questa distesa di sbadigliante nulla il tennis ha saputo regalarci la sua perla: la semifinale tra Djokovic e Nadal è stata senz’altro la partita più bella della stagione, oltre che un efficace manifesto del tennis contemporaneo.

A mio parere, Novak Djokovic è attualmente il giocatore più forte in circolazione e, proprio per questo, l’unico a poter contrastare Nadal persino sulla terra battuta (per dire, aveva battuto Nadal un mesetto fa a Montecarlo). Questa partita ne è stata l’ennesima dimostrazione.

Se ultimamente non riesce a tenere costante il suo livello di tennis, l’anno nel quale ci ha dato dimostrazione piena di quelle che sono le sue capacità è stato il 2011. In quell’anno ha letteralmente triturato Nadal ogni volta che se l’è trovato davanti, riuscendo a batterlo persino sovrastandolo sul piano del ritmo.

Se le sfide Federer-Nadal sono caratterizzate da impasse tattiche e continui strappi nei quali Federer cerca sempre una nuova e mistica invenzione tennistica per aggirare l’incrollabilità fisica di Nadal; le sfide tra Djokovic e Nadal rappresentano un continuo rilanciare sul piano del ritmo, dell’anticipo, dell’angolo. Gli scambi migliori tra i due somigliano a una singolare sinfonia progressiva, quasi una schitarrata di Glenn Branca.

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Anche questa partita è stato un saggio di tutto questo. Djokovic, a dire il vero, inizialmente non sembra così in forma. Molto falloso, la seconda di servizio balbettante, il suo colpo migliore, il rovescio lungo linea, che non funziona. E questo insieme di cose lo contraria non poco.

Nonostante questo il buon rendimento della prima di servizio e un rovescio incrociato in stato di grazia lo tengono a galla. Nadal dal canto suo fa esattamente quello che deve fare, il suo problema è semmai che il suo oliato schema tattico da terra con Djokovic non funziona. Nadal ama giocare una serie di dritti in cross sul rovescio avversario, dritti che con il topspin che si ritrova rimbalzano sulla terra come quelle palline matte che si compravano da bambini, salgono in cielo e colpirle decentemente non è cosa semplice. Queste palle mettono in difficoltà la maggior parte dei giocatori, per non dire Federer che ha sviluppato una vera e propria psicosi su quella diagonale. Le palle finiscono per tornare sempre più corte fino a che Nadal non tira spietatamente un vincente di dritto lungo linea dall’altra parte (un colpo che tende a giocare praticamente in automatico). Djokovic però, il cui rovescio è un aggraziato coacervo di forza fisica, anticipo cinetico e fluidità stilistica, riesce a tenere bene su quella diagonale, se non addirittura a forzare il ritmo. In ogni caso il primo set finisce 64 per Nadal. Nel secondo Djokovic si rende conto che deve alzare leggermente il livello del suo tennis, lo fa (soprattutto con le percentuali di servizio) e porta a casa il set. Due set giocati a quei livelli, con una forma non eccezionale, costano a Djokovic un crollo nel terzo set, il classico intervallo nero che nel tennis su cinque set può capitare a chiunque, tranne che a Nadal.

La conoscete quella storia della curva dell’attenzione, no? Cioè che tipo l’essere umano, nell’arco di un certo periodo di tempo, ha dei momenti di innalzamento e calo dell’attenzione. È una cosa di cui non siamo mai in preciso controllo, e i tennisti devono saperla gestire, e nessun tennista la sa gestire meglio di Rafa Nadal. Sapeva benissimo che Djokovic avrebbe avuto un calo nel terzo set, lui è restato semplicemente lì e s’è portato a casa un 61 senza troppa fatica.

Comincia il quarto set e il linguaggio del corpo di Djokovic non è confortante: infastidito, sonnacchioso, sembra non riesca proprio a venire a capo della partita. Che sembra così scivolare via in quattro set: Nadal è avanti 54 e serve per il match: Djokovic si sveglia e inizia a tirare un vincente dietro l’altro, il linguaggio del corpo cambia: grida, gesticola, esulta forte. Rimonta e al Tie Break vince il set.

Si arriva al quinto con Djokovic che col rovescio fa letteralmente quello che vuole. Siamo in un momento in cui il tennista serbo sta dimostrando che il suo standard di tennis può essere più elevato di quello di Nadal. Ma sul 43 e servizio per Nole, capiamo bene che il tennis non è una scienza esatta, non se non ti chiami Ferrer, e che la fibra nervosa vale anche più di quella tecnica in certi momenti. Parità, Djokovic inizia a manovrare da dietro a un ritmo altissimo, destra e sinistra, Nadal ovviamente raccatta qualsiasi cosa, anche per puzza, come una pallina che cade a un paio di centrimetri dalla rete, alta. Nole ci si fionda, con troppa foga però, nel mentre spedisce la pallina di là compie invasione. Invasione. L’invasione significa che tocchi la rete e il punto va all’avversario. È una cosa che semplicemente non succede mai. In questa partita è successa, ed è successa nel momento cruciale. Lì capiamo anche che razza di belva tennistica è Rafa Nadal, che comprende perfettamente che quello può essere un momento di vacillamento nervoso dell’avversario e ci si attacca impietosamente, gioca due punti perfetti e gli toglie il servizio, e un bel po’ di sicurezza.

Dopo quattro ore e mezza di gioco Nadal è più in forma di quando ha iniziato a giocare e il destino della partita è già scritto, Nole riesce a tenere fino al 97, perde scoppiato.

Una di quelle partite che semplicemente ti fanno capire quanto può essere bello, emozionante, teso e imprevedibile il tennis. Nonostante vinca solo Rafa: otto vittorie al Roland Garros su nove tornei disputati, numeri abominevoli.

L’appuntamento è a Wimbledon, con un altro sport.

Emanuele Atturo

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