Al servizio dei capitani — Intervista a Mario Scirea

Crampi Sportivi
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6 min readApr 28, 2017

Nei giorni del ricordo di Michele Scarponi, sul concetto di “gregariato” si è concentrato un rinnovato interesse da parte di media sportivi e pubblico generalista. Mario Scirea, che il gregario l’ha fatto per vent’anni e più, ci era sembrato la persona ideale da cui farci chiarire le idee: Per capire il valore di questi intangibles tutt’altro che invisibili, varrà la pena ricordare che Scirea ha partecipato per 29 (ventinove!) volte alle grandi corse a tappe (14 al Giro, 9 al Tour e 6 alla Vuelta), ottenendo due successi di tappa: la vittoria nel 1989 al Tour des Amériques e la tappa alla Hofbrau Cup del 1996. Quando lo contattiamo la prima volta Scirea si scusa, gentilissimo, perché non può parlare; è grosso modo sommerso dai giornalisti, dal momento che entro qualche minuto presenterà la squadra alla stampa in vista del Giro del centenario (si tratta ovviamente del Team Emirates, nato dalla fusione tra Saeco e Lampre, di cui Scirea è oggi general manager). La seconda volta ci risponde (dal vivavoce, sia chiaro!) mentre è alla guida della sua auto: ha decisamente più tempo a disposizione e si rivela, come avevamo presagito, molto disponibile.

Una prima domanda di carattere generale: è corretto, rivedendo la sua carriera, dire che ha svolto un ruolo da gregario? C’è, secondo lei, qualcosa di riduttivo in questo termine, o un suo uso inconsapevole da parte di chi se ne serve?

Certamente è un ruolo di fatica, significa svolgere il lavoro oscuro in moltissime situazioni. Per renderlo al meglio ricorrerei a una metafora calcistica, che agli italiani può forse risultare più comprensibile: è come essere il centrocampo che smista i palloni per gli attaccanti, con la differenza che il “finalizzatore” in questo caso è il capitano (nel mio caso i vari Bugno, Fignon etc.).

Curioso — ma perfettamente comprensibile — che si sia servito di un parallelo calcistico. A questo proposito, una curiosità: come ha vissuto l’omonimia con l’altro Scirea, il leggendario Gaetano?

Direi che ho sempre saputo che siamo una nazione di calciofili, questo è inevitabile. La differenza tra calcio e ciclismo, però, mi è sembrata ancora più evidente quando ho smesso di correre e ho iniziato ad assistere, a mia volta, a delle tappe del Giro d’Italia. Vede, andare a vedere una partita significa starsene per un’ora e mezza a osservare qualcosa; andare a vedere una tappa significa starsene in piedi per ore, in attesa che l’atleta che aspettiamo sfrecci per una frazione di secondo davanti a noi, senza che riusciamo nemmeno a distinguerlo troppo nitidamente. Poi passa l’ammiraglia, il che vuol dire che è già tutto finito. Questo mi ha fatto avere un’idea della passione che alimenta che segue il ciclismo. Altra cosa: le risulta che sia possibile, per un tifoso, andare a Milanello e mettersi a palleggiare con i suoi beniamini? Nel nostro sport, al contrario, se durante un allenamento ci si imbatte in qualcuno, nessuno ci vieta di fare dei tratti di strada con dei cicloamatori o di “allenarci” insieme. è una dimensione che permette anche di conoscersi, di parlare dei fatti propri in modo del tutto normale.

Come è andata quando ha chiuso con l’agonismo?

è stato strano, perché ho smesso a quarant’anni e il giorno dopo mi sono detto: “e ora che faccio?”. Invece ora posso dirle che non mi manca la competizione, forse perché faccio ancora un lavoro che è legato al ciclismo e mi sento ancora partecipe della cosa. Ma ho dato così tanto alla bicicletta, sia fisicamente che mentalmente, che ho scelto di dire “basta” senza problemi.

Un altro aspetto che salta all’occhio della carriera professionistica di Mario Scirea è la sua lunga durata. Ufficialmente terminata nel 2004, quando Scirea aveva quarant’anni: come ha vissuto i due mondiali 2002 e 2003, in cui fu chiamato a far parte dell’Italia? Riconoscimento alla carriera e al suo ruolo di “collante” ideale?

Sono stato felice che questi riconoscimenti siano arrivati: sono arrivati decisamente tardi, ma sono arrivati al momento giusto. Mi era già capitato, da dilettante, di gareggiare sia ai mondiali che alle Olimpiadi; partecipare ai mondiali da professionista è stata una bella soddisfazione. Tra l’altro, il primo anno sono riuscito ad aiutare Cipollini a vincere; il secondo anno ho fatto il possibile per aiutare Bettini, che era il leader.

In questo modo la prospettiva del gregario sembra uscirne “nobilitata”; l’essere funzionali alla squadra acquista un’accezione decisamente positiva. è in questa chiave che possiamo leggere il secondo posto a Colorado Springs, nella cronosquadre (vinse l’Olanda), e la vittoria dell’anno dopo, a Villach, con Fortunato, Poli e Vanzella?

Più che il gregario, è valorizzata la squadra. Poi, certo, le caratteristiche necessarie a una tipologia di corsa come la cronometro a squadre tendono più verso il gregariato; nel mio caso, credo che il fatto di aiutare il leader fosse proprio parte della mia mentalità. Magari in certe fasi avrei potuto osare di più e in alcuni momenti avrei potuto fare la “mia” corsa, ma ad un bilancio finale del tutto sono felice di aver fatto la carriera che ho fatto. Mi è piaciuto essere al servizio dei capitani, che lo hanno riconosciuto e mi hanno gratificato (Cipo lo ricorda sempre, anche dodici anni dopo, e questa è una soddisfazione!).

Nel 1988 a Seoul non arrivò lontano dal podio nel cross — country. Piacevole divagazione o specialità per cui era portato?

L’ho sempre fatto come puro divertimento, non l’ho mai praticato seriamente. Di base, andavo su strada.

Chi erano i più forti, quelli da cui rimase ammirato vedendoli correre? E i colleghi con cui ha legato di più?

Nella mia epoca c’era Indurain, che era sopra ogni altro specialmente al Tour de France. Poi c’era Gianni Bugno, un atleta che ha raccolto senz’altro meno della classe che aveva. Quanto ai rapporti, in generale c’è sempre stato molto rispetto reciproco; gli amici sono prevalentemente tra i compagni di squadra, tra cui non posso non rinominare Cipollini e Bugno. Già da ragazzini, da allievi, correvamo insieme nello stesso “gruppo”, che era l’associazione Ciclisti Monzesi, e abbiamo condiviso tutto, dalla squadra alle competizioni. Mano a mano, strada facendo, sono arrivati tutti gli altri, ma è stato un tipo di legame diverso.

Lei ha corso prevalentemente tra anni Ottanta e Novanta: cosa è migliorato da allora? Qual è la sua opinione sull’evoluzione del ciclismo?

Molto è cambiato l’approccio: ai miei tempi i leader erano uno o due ed era chiaro per chi fare la corsa; ora, invece, le squadre hanno molti più leader. Se è bello che sia cresciuta la possibilità di spiccare in termini personali, d’altra parte ci sono dei “contro”. E se mi metto nei panni dello spettatore, viene un po’ a mancare quel tifo “per fazioni” che nasceva intorno a duelli come Moser-Saronni o Bugno-Chiappucci- Comunque, per ogni gara, oggi abbiamo decine di vincitori potenziali; io gareggiavo in un’epoca in cui, a parte qualche outsider, la corsa se la contendevano pochi corridori. Non ha senso dire che era meglio quel ciclismo lì: siamo nel 2017, la tecnologia è andata avanti d è giusto che ci siano dei cambiamenti a vari livelli, come è normale che, tra occhialoni e nuovi caschi, i ciclisti siano diventati quasi irriconoscibili. Una grande differenza la noto, da direttore sportivo, anche nell’approccio con i ragazzi. Ora i ragazzi sono più liberi di chiederti “perché?” su un dettaglio della preparazione della stagione, mentre ai tempi nostri erano solo ordini da eseguire. Insomma, mi fa piacere confrontarmi attraverso il dialogo: è una cosa che, a cinquantatré anni, mi mantiene sempre giovane (ride, nda)!

Articolo a cura di Alessandro Fabi

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