Andy Murray, lo scozzese che riportò il Tennis a casa

Crampi Sportivi
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9 min readJul 8, 2013
Murray wimbledon

Fred Perry. Se il nome dell’ultimo inglese a vincere Wimbledon è finito sulle polo che vestono gli skin da oltre trent’anni, vuol dire che è passato davvero un sacco di tempo.

Era il 1936 e lo sport era ancora tinto di quell’ “inglesità” delle origini che ce lo fa apparire ad oggi bizzarro e lontano ai limiti dell’indecifrabile.

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Poteva sapere di diventare un’icona skinhead?[/caption]

Così diverso che ci si poteva permettere di essere campioni del mondo di Ping Pong per poi, improvvisamente, capire di avere talento con racchette di qualsiasi dimensioni. Sì, perché Fred Perry, prima di vincere Wimbledon tre volte (1934, 1935, 1936), nel 1929 si era laureato campione del mondo di tennis da tavolo.

Gli inglesi avrebbero mai potuto scommettere che si sarebbe dovuto aspettare 77 anni per vedere il Rosewater Dish tornare a casa? Avrebbero mai scommesso che poi, a quel punto, dopo 77 anni, avrebbero dovuto chiudere un occhio se a vincerlo sarebbe stato uno scozzese?

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Non è un personaggio di This is England ma Bradley Wiggins[/caption]

Sono passate poche ore e certo non sembra che la “scozzesità” di Murray possa in qualche modo rendere minori i festeggiamenti di un popolo, quello inglese, tanto affamato di vittorie sportive nazionali quanto drammaticamente all’asciutto su tutti i fronti da decenni. Così in astinenza che lo scorso anno hanno dovuto dirsi entusiasti della vittoria di Bradley Wiggins al Tour de France. Il ciclismo nella perfida albione non è mai stato sport nazionale, figurati se poi vince uno sciroccato anti-monarchico coi basettoni che preferisce dirsi suddito di Robbie Fowler piuttosto che di Elisabetta: «Mia moglie era estasiata perché la Regina ci aveva mandato una lettera. Io le ho detto “Fuck the Queen” Johnny Marr mi ha mandato un messaggio su Twitter. E ho ricevuto un messaggio da Dio, ovvero Robbie Fowler».

Il tennis no, quella sì che è roba inglese, figurati a Wimbledon, coi completini bianchi, il falco scaccia-piccioni e il Duca di Kent che ti consegna il premio. Quindi se a vincerlo è qualcuno nato un po’ più il là dei confini nazionali, ma comunque in un posto dove la gente è tecnicamente agli ordini della regina, sticazzi: va bene così. Certo, altra cosa sarebbe stata Tim. Ve lo ricordate Tim?

Tim Henman è stato l’ultimo giocatore inglese degno di qualche attenzione, l’ultimo a cui gli inglesi hanno affidato questo ingrato compito di “riportare il tennis a casa”. Tim poi era perfettamente inglese, nato a Oxford con tutte le aspirate messe al posto giusto e il doppio nome: Timothy Henry. La sua vittoria era talmente agognata che la gente lo aveva soprannominato “Timbledon” e gli aveva dedicato la collinetta dietro i campi dove si seguono in diretta le partite, ancora oggi chiamata “Henman Hill”. Peccato che Tim voleva onorare il ricordo di Fred Perry al punto da giocare il suo stesso tennis anni ’30, un tennis vintage, giocato servizio e volè come se l’era moderna non fosse mai arrivata, come se Jimmy Connors e Andrè Agassi non fossero mai nati. Quattro semi-finali per lui: 1998, 1999, 2001, 2002; mai la gioia di una finale, con l’attenuante di aver incontrato sulla sua strada Pete Sampras e Goran Ivanisevic, due che sull’erba non è che giocassero proprio male.

Prima e dopo Tim Henman il vuoto infinito, nessun inglese, non dico tra i primi venti, ma almeno tra i primi cento: niente. Ogni anno si presentavano a Wimbledon — sotto presentazione di wild card — questa schiera di ragazzetti inglesi brufolosi talmente brutti che gli avversari in tre set non gli concedevano manco il game di consolazione.

Poi arriva Andy Murray, che si può dire a questo punto essere il vero primo giocatore britannico moderno nell’era del tennis moderno. Murray è la perfetta incarnazione del tennista contemporaneo. Nessun talento particolare, nessun colpo che spicca sugli altri; allo stesso tempo nessun punto debole: una completezza di repertorio che gli fa interpretare al meglio qualsiasi fase di gioco. Giocatore che sa soffrire in difesa, colpire di anticipo e ribaltare furiosamente la fase difensiva in offensiva.

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Un giovane Andy Murray vince la coppa più piccola della storia dei trofei[/caption]

Nato a Glasgow, in una terra che di tennisti non ne ha mai visto nascere uno, diventa ben presto inglese acquisito, o meglio: inglese quando vince, pur sempre scozzese quando perde.

La sua storia ha tutto l’aspetto di quelle narrazioni nate dentro all’universo chiuso dello sport: zio giocatore di calcio professionista, mamma allenatrice di tennis che battezza ai campi sia lui che il fratello, con il quale inizia a sviluppare una rivalità morbosa. Nel 1996 si trova a frequentare la scuola di Dunblane: il giorno in cui uno schizzato entra dentro con un fucile e ammazza diciassette bambini, Andy è lì, riparato sotto il tavolo. Dice di non ricordare nulla di quei momenti.

L’Inghilterra inizia a riporre in lui ogni speranza tennistica sin da quando, nel 2003, debutta nel circuito vincendo i suoi primi tornei Futures. Già nel 2005 non si fa che parlare di quando Andy vincerà Wimbledon, già si discute se bisognerà essere contenti lo stesso, anche se scozzese; si discute di come possa essere mitigata questa sua “scozzesità”. Si discute del suo look (capelli troppo crespi), dei suoi atteggiamenti bizzosi in campo (quanto ricordava, ai primi tempi, McEnroe?), delle basette portate troppo lunghe, della sua igiene dentale, del ruolo oppressivo della mamma, delle sue frequentazioni. Si innesca insomma que

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Un piccolo, già incazzatissimo, Andy Murray[/caption]

l processo di educazione nazionale dell’atleta che alcuni popoli sembrano prendere tremendamente sul serio (è quello che sta succedendo, qui da noi e con risvolti ancora più cupi, con Balotelli).

Date tutte queste premesse, immaginate di essere Andy Murray; immaginate di arrivare alla prima finale di Wimbledon della vostra vita, con dietro una nazione e tutta la sua casa reale, con dietro le aspettative di una tradizione tennistica orgogliosa e ferita. È il 2012 e l’avversario è un Roger Federer in stato di comunicazione divina, una sorta di Totem mistico vivente in grado di far scendere in campo gli dei del tennis al suo fianco. Immaginate di perdere. Immaginate, a fine partita, di dover prendere un microfono in mano e parlare, di cosa?

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Che razza di psicodramma sia stato si può cogliere intorno al minuto 3:30. Gli occhi lucidi, gli applausi che scrosciano e quegli attimi muti durante i quali puoi assaporare tutta la delusione di una gioia negata. Le parole che non vogliono proprio uscire. Come sembrano stupidi e spietati ora tutti quei rituali di compostezza a cui il tennis obbliga. Persino Federer — che un attimo prima era andato a ritirare il suo premio con la noncuranza di chi va a fare il rinnovo della patente — sembra faticare a trattenere le lacrime. Neanche quello è stato il tuo momento, e pensi che non potrà esserlo mai.

In quegli attimi non poteva sapere che solo un mese dopo avrebbe vinto la medaglia olimpica su quegli stessi campi. Andy infatti stava già lavorando per far sì che quei momenti potessero essere i suoi, anche molto prima di quanto potesse sperare.

La sfortuna di Murray è stata quella di essere nato in quella che tra qualche anno potremo ricordare come la Golden Age del tennis. Una qualità media altissima e in continua crescita, impreziosita dalla rivalità che ha scandito il decennio, quella tra Federer e Nadal, che si sono rispettivamente spartiti qualsiasi trofeo importante dal 2003 al 2011.

Sono loro ad aver stabilito lo standard sovrannaturale che fa del tennis quel meraviglioso spettacolo che possiamo ammirare estasiati negli ultimi anni. I tennisti appena inferiori, che fino a qualche anno prima avrebbero potuto portare a casa le loro belle vittorie, si sono ritrovati a dover rincorrere i due giganti in uno stato di impasse e frustrazione.

Poi arriva Novak Djokovic a rompere questo stallo. Anche Nole sembra essere destinato a vivere una carriera da comprimario, fino a quando non capisce che quel tennis trascendentale può essere raggiunto senza alcun particolare dono mistico, anche solo attraverso la regolarità e la costanza dell’allenamento, lavorando prepotentemente su quelle due dimensioni che reggono il tennis moderno e lo rendono tale: il fisico e la testa. Il tennista serbo nel 2011 vince qualsiasi cosa, triturando — in varie occasioni — sia Federer che Nadal e indicando la strada, facendo vedere agli altri come si fa.

Murray lo segue, si mette dietro Ivan Lendl, ex campione cecoslovacco che faceva del maniacale perfezionismo il suo punto di forza, e inizia a lavorare prima fisicamente, poi mentalmente.

Dal punto di vista fisico Andy è già un animale: un metro e novanta per ottantaquattro chili, reattività fuori dal comune e resistenza allo sforzo imbarazzante. Nel 2011 decide di aggiungere a tutto questo una dieta priva di glutine che lo aiuterebbe ad essere meno sonnacchioso la mattina, a quanto dice: «Credo ci sia un po’ di differenza nel mio approccio all’allenamento con la nuova dieta. Mi sento abbastanza fresco, ho dormito sette ore e mezzo dopo aver giocato singolo e doppio ma appena sveglio mi sentivo ugualmente riposato. La dieta mi consente di gestire meglio le energie».

Ma ciò che caratterizza il tennis moderno è più di ogni altra cosa la tensione psicologica che s’addensa nelle partite importanti. La raffinata arte mentale di comprendere il peso dei punti, la gestione sapiente delle energie nervose, la capacità di tirare fuori il meglio di sé sulla palla che conta, saper gestire la pressione che pesa sul braccio e lo fa tremare. È questo lo scarto in più, il superamento del plateau di cui parlava spesso Foster Wallace in Infinite Jest; quella presa di coscienza della struttura profonda del gioco che permette di innalzare il proprio livello di tennis.

Murray, fino all’incontro col feroce Lendl, sotto questo punto di vista era un completo disastro. Il suo linguaggio del corpo aveva la capacità di comunicare sempre il messaggio sbagliato nel momento sbagliato. Ogni volta che le cose cominciavano a girare male iniziava a incartarsi su una strana somatizzazione sveviana, dando la colpa del suo gioco a qualche fantomatico acciacco fisico. Vedere Murray perdere, fino a qualche tempo fa, era uno spettacolo patetico: un ragazzone isterico e barcollante che tra un punto e l’altro sbuffava e si teneva la spalla, o la gamba, o il polpaccio, o la testa. Rafforzando, di fatto, la sicurezza del suo avversario. Quando le cose andavano male iniziavano ad andare peggio.

Ci è voluto Lendl, con tutta la sua antipatia, per lavorare su un problema che sembrava insuperabile come qualsiasi psicosi.

Dopo l’oro olimpico, Murray vince gli US Open, poi vince in Australia, poi vince le Tour Finals. Salta strategicamente il Roland Garros e arriva a Wimbledon come una slavina. Tutto questo fino al 7 luglio, alla finale con Djokovic, fino al punteggio di due set sopra, cinque pari, servizio, parità.

Come abbiamo già accennato, il tennis è uno sport tremendamente psicologistico: basta davvero un segnale del corpo, una linea esterna pizzicata, una rete fortunata per guadagnare quel punto che ti fa tornare in fiducia e che schianta invece quella del tuo avversario. Metteteci dentro la cornice emotiva di Andy Murray. Metteteci dall’altra parte il miglior giocatore del pianeta che è anche il più raffinato psichiatra di sé stesso.

Metteteci la parità.

La parità è la rappresentazione ideale della componente psicologistica del tennis. È l’esasperazione delle dicotomie emotive di tutti i giocatori: basta un punto, da una parte o dall’altra, per far inclinare lo stato del mondo in una certa direzione, ne serve un altro per stravolgerlo.

Djokovic annulla tre match-point, si arrampica sulla parità e lì, per tre volte, si guadagna il vantaggio e la palla che lo avrebbe portato sul cinque pari e che avrebbe spalancato per Murray un abisso psicologico dal quale sarebbe stato veramente complicato sottrarsi. Per comprendere appieno la bellezza di quegli attimi bisogna capire che Djokovic aveva davvero la possibilità di far girare completamente la partita, bisogna aver presente la sottilissima linea che, a quel punto, divideva l’inferno dalla gloria.

Basta un punto per riaprire completamente set e partita, insieme alle ferite emotive di Murray; basta un punto, dall’altra parte, per sottrarsi dall’abisso, rimarginare le ferite e — finalmente, dopo 77 anni — scrivere la storia e mettersi un popolo ai piedi.

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Emanuele Atturo

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