Appuntamento ad Asiago

ale fabi
Crampi Sportivi
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2 min readMay 27, 2017

20ª tappa — 27 maggio: Pordenone > Asiago 190 km

Vincitore: Thibaut Pinot

Leader: Nairo Quintana

Quando Marzullo mi ha sguinzagliato i cameramen addosso, alla fine dell’anteprima, non sapevo cosa dire. Essere intervistato a Il Cinematografo era il mio sogno da una vita, eppure mi sono trovato incredibilmente senza parole, costretto a empatizzare con quella turba di indecisi che, da casa, avevo sempre disprezzato. Ho provato a consultare alcuni guru, ma niente.

Anselma Dell’Olio, mia vicina di posto durante la proiezione, mi aveva rivelato un retroscena sulla sceneggiatura: la trama del remake, benché ufficialmente a firma di quella volpe di Sylvain Chomet, era di fatto il riadattamento di un manoscritto scovato negli archivi privati degli eredi di Mario Rigoni Stern, che avrebbero volentieri aspettato il 2018 — decennale della scomparsa dell’illustre antenato — per consultare i produttori dell’industria cinematografica. Solo grazie alla vecchia Anselma ho capito il perché di quell’operazione — apparentemente discutibile — per effetto della quale la storia è stata ambientata non più tra i sobborghi dell’immaginifica Belleville, ma tra la bassa padano-veneta e il vicentino. Sentendo la signora Ferrara, perlomeno, mi sono convinto di una cosa: aver lasciato che les Triplettes, trio di anziane cantanti eroiche, ma un po’ squinternate e molto agguerrite, venissero interpretate dal fuscello Colombiano, dal nobile Etneo e dall’Incontinente di Maastricht, è stata una scelta vincente.

Valerio Caprara, che all’inizio non era entusiasta, mi ha confessato che poi si è dovuto ricredere, trovandosi, per una volta nella vita, in accordo con Anselma: un capolavoro, specie verso Asiago. Valerio ha apprezzato, in particolare, una precisa scelte di campo compiuta da Chomet, come la sostituzione di tutti gli animali del lungometraggio — dal cane Bruno alle rane crudelmente uccise — con una schiera di urogalli molto incazzati, specialmente sul Monte Grappa. E io, che mai l’avrei notato, gli ho dato ragione: vedere Mollema, Yates e Jungels (ma anche Zakarin e Pozzovivo) stilizzati come uccelletti neri, ma dagli occhi rossissimi, è stato in effetti un colpaccio del regista.

In realtà, siccome ero indeciso fino all’ultimo, avevo deciso che avrei modellato il mio parere sul giudizio di Mereghetti, guest-star specializzata in dettagli e interpretazioni non convenzionali. E Mereghetti, con il consueto acume, mi ha fatto notare che il non aver svelato, fino all’ultimo, quale corridore dovesse corrispondere all’archetipico Champion, triste faticatore dai polpacci sovraumani, è stato il colpo di classe: si è limitato a osservare che Pinot, per dirne uno a caso, è rientrato in corsa per la vittoria finale. Paolo, comunque, mi ha tranquillizzato: “è normale — mi ha detto — uscire dalla sala un po’ frastornati e senza un’idea precisa. Ti consiglio, per scrupolo, di ripensarci domani”.

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