Appunti di viaggio sparsi sulla strada per Indianapolis

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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8 min readApr 2, 2015

Win or Go Home: Sweet Sixteen

UCLA vs Gonzaga

C’è un motivo per cui si guardano le partite nel cuore della notte, rovinandosi la vista su campi pixelati inseguendo adolescenti in calzoncini che giocano per università che non ti prenderebbero mai. Si chiama bulimia narrativa. Abbiamo bisogno di eroi come noi, di figure su cui scaricare la nostra immaginazione.

Non possono più essere i robot di muscoli e fibre che divellono le assi del parquet ogni notte NBA, troppo distanti per essere usati come schermi per i nostri sogni. Sono gli sbarbati collegiali dalle potenzialità così inespresse da lasciare ancora spazio alle affabulazioni della mente, dei se rimasti in sospeso. E tra tutti gli sconfitti un posto nel cuore di ogni junkie di palla a spicchi la merita Adam Morrison.

Quando esattamente nove anni fa la sua Gonzaga si scontrò contro Ucla per le Sweet Sixteen le due squadre non potevano arrivare da percorsi più differenti. Una, Ucla, era una squadra piena di talenti che sarebbero andati tutti in NBA (Afflalo, Farmar, MbahMoute, Hollins, Collison), l’altra era una piccola università che sia affacciava per la prima volta su un palcoscenico di tale livello. Gli Zags però avevano nelle loro fila il miglior realizzatore della Nazione a 28 punti di media. Adam non aveva il physique du role dello scorer implacabile, bianco con i capelli lunghi alla Johnny Ramone, atletismo sotto il par e soprattutto quei baffetti accennati da preadolescente filippino che lo hanno reso immediatamente un mito. Maglietta sotto la canotta d’ordinanza, atteggiamento dinoccolato, conoscenza enciclopedica dei movimenti dal gomito. Morrison aveva trascinato gli Zags di Coach Few fino alla sfida contro i Bruins.

Gonzaga domina la partita, sono sopra di 17, poi improvvisamente Ucla comincia a rosicchiare punto dopo punto lo svantaggio fino al finale in volata.

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Quando Gus Johnson urla nel microfono “HEARTBREAK CITY” Morrison, inquadrato, scoppia in lacrime, i suoi Zags hanno perso incredibilmente una partita che avevano condotto fino a due secondi dalla sirena. Ucla arriverà in finale dove perde contro i Florida Gators del tandem Noah-Horford. Morrison invece rinuncia al suo senior year e si rende eleggibile per il Draft. Qui finisce la sua gloriosa carriera universitaria e comincia il suo calvario in NBA. Lo sceglie alla 3a Michael Jordan al suo primo anno da plenipotenziario dei Bobcats inaugurando un quinquennio di scelleratezze. Morrison, rallentato dal diabete con cui convive fin da bambino, non è mai riuscito a ritagliarsi uno spazio nella lega più bella del mondo, finendo in fondo alle panchine e nelle liste come Bigger Bust of All Time. Dopo aver peregrinato per la lega e per il mondo (comprese le Asie e le Russie), Adam è tornato a casa, come assistente di Mark Few.

Per la prima volta dopo quella maledetta sera gli Zags sono tornati alle Sweet Sixteen. C’erano sia Ucla che Adam Morrison. Questa volta per Gonzaga non è finita in lacrime, ma in sorrisi.

Xavier vs Arizona

Sean Miller invece di un tabellone del Torneo è stato inserito in una novella di Dickens. Prima ha dovuto affrontare il suo mentore Thad Matta, dopodiché si è confrontato con la squadra che Matta gli ha affidato andandosene a Ohio State e che ora è allenata dal suo ex assistente Chris Mack.

Arizona ha guadagnato l’ennesimo pass per le Elite Eight ma il palcoscenico per una sera è stato tutto occupato dal centro degli X’s Matt Stainbrook.

Ecco un bell’esempio di Adam Morrison in potenza. Bianco, robusto (per non dire grasso), con gli occhiali da vista anche quando sgomita nel pitturato e capace di guidare la squadra sia in punti che rimbalzi. Ma, oltre ad essere un corpo disfunzionale con mani fatate, Matt è anche un guidatore di Uber.

Quando non si allena, gira con la sua Buick Rendezvous in cerca di clienti da scarrozzare per pagare la retta collegiale. Non la sua, ma quella del fratello, walk-on negli X’s. Visto che la sua da Laureando costa molto meno ed è coperta da borsa di studio, ha deciso di scambiarla con quella del fratello, molto più onerosa. E dovendo sia giocare che studiare, ha trovato l’unico lavoro che gli garantiva una certa flessibilità. Student/Athlets/Workers. Per un mondo che cambia.

Matt ha finito contro Zona la sua carriera universitaria, mentre quella di driver per il momento procede senza intoppi.

Utah vs Duke

La partita sognata da ogni logopedista d’America. Mike Krzyzewski è stato il primo allenatore di Division I a raggiungere le 1000 vittorie in carriera. Larry Krystkowiak ha riportato gli Utes alle Sweet Sixteen dopo dieci anni. Nessuno dei due ha mai sentito pronunciare nel giusto modo il proprio cognome da un telecronista.

Duke — Utah è la tipica partita attacco contro difesa. I freshman incontenibili dei Blue Devils e la compattezza dei Senior di Utah. L’interesse è soprattutto tra i due sotto canestro, Jahlil Okafor e Jackob Poelt. Il piano degli Utes era tutto approntato per difendersi dalle danze sotto il ferro di Jahli, grazie allo splendido lavoro in single coverage di Poelt e un sistema di aiuti e recuperi. A far saltare con il tritolo la linea Maginot dell’altro Coach K ci hanno pensato le sfuriate di Justice Winslow, un linebacker a cui da piccolo hanno eccessivamente gonfiato la palla ovale fino a farla diventare rotonda e rimbalzante. Con 21 punti e dieci rimbalzi con due stoppate e un recupero, Winslow a regalato a Coach K, quello vero, la sua ennesima Elite Eight contro Gonzaga. E tra tutte le follie di Marzo c’è anche il frenetico mercato delle Draft Stock. Per alcuni le prestazioni al Torneo di Justice dovrebbero fargli scalare le gerarchie a discapito del suo compagno Okafor. Resteranno suggestioni, ma quando la Justice League sbarcherà finalmente in NBA, aspettatevi un altro corpo fuori dall’ordinario pronto a bucare i vostri schermi strappando il pallone nella metà campo difensiva e catapultandosi al ferro.

Refuse To Lose: Elite Eight

Kentucky — Notre Dame

Kentucky si era già trovata a questo punto. Ole Miss, Texas A&M, Lsu, tutte avevano avuto il tiro per infrangere il record dei Wildcats. E Jerian Grant, dopo una corsa sulla linea di fondo, ha avuto anche lui il pallone per stupire l’America. Ma la parabola, contestata da tutte le mani sul parquet, è caduta lontana dal ferro e ha allontanato i fantasmi che si erano fatti sempre più materiali sulla Quicken Loans Arena.

Davanti a sua Maesta Lebron, la Big Blue Nation, accorsa al richiamo delle Final Four, ha tremato per quaranta minuti come una foglia, scossa dai putback schiacciati di Zach Auguste e dalle triple dagli angoli degli Irish. C’era chi si metteva le mani davanti agli occhi per non guardare, chi pregava, chi imprecava contro Laettner, chi già vedeva finita la miglior stagione collegiale della storia. E invece letteralmente aggrappandosi a Karl Anthony Towns è riuscita a uscire dall’incubo.

Il freshman meraviglia ha trascinato i suoi a mani nude verso Indianapolis, segnando 25 punti con soli tre errori dal campo, nessuno di questi in un perfetto secondo tempo in cui era oggettivamente immarcabile. Si sapeva che su ricezione profonda gli Irish non avevano risposta alla disparità fisica e atletica di Kentucky, ma il cuore irlandese ha permesso di allontanare i lunghi avversari dal pitturato per quasi tutta la durata del match. Finché non si è seduto in ufficio KAT e i Wildcats hanno cominciato a martellare la palla in post basso. Il problema è che oltre al lungo caraibico non si trovava un’altro con la canotta blu in doppia cifra, stornando un Devin Booker desparecido dopo l’intervallo.

E così Notre Dame, abituata dalla pietraia dell’Acc a giocare con il coltello tra i denti, ha comandato agevolmente la partita, grazie alle penetrazioni di Grant e Jackson, i backdoor di Vasturia e Connaughton a sfruttare l’aggressività della difesa, e la mobilità su tutto il campo dei lunghi. Il piano di Mike Brey ha funzionato alla grande per trentanove minuti e spicci, poi, per l’ennesima volta i Wildcats hanno trovato un modo per continuare la storica marcia, capendo forse che non si gioca contro la Storia ma contro gli avversari.

Michigan State vs Louisville

Tom Izzo versus Rick Pitino è la sfida tra i due migliori allenatori di college basket dal 1985, da quando il Torneo è stato allargato a 64 squadre. Lo dicono i numeri, e i numeri non mentono mai. Il loro stile ha forgiato il college basketball così come lo conosciamo, un felice incrocio di old school e nuovi innesti che ha fruttato caterve di Final Four e svariati titoli. L’ennesimo confronto tra questi mostri sacri è stata un ulteriore showcase di ogni singola sfumatura della loro carriera. Collettivo, difesa, senior che si prendono i tiri che pesano. Se qualcuno un paio di mesi fa ci avesse detto che queste due squadre si sarebbero giocate un volo a Indianapolis lo avremmo fatto internare. MSU aveva perso i tre migliori giocatori dello scorso anno ed era destinata al NIT, i Cards trasferiti nell’ACC avevano scontato l’ennesima stagione travagliata culminata con l’allontanamento di Chris Jones, accusato di molestie sessuali.

Sembravano due stagioni destinate ad un tramonto prematuro, ma, come tutti i veri animali da competizione, avevano ancora in canna il colpo decisivo, quello del dentro o fuori. Così scalando una parte di tabellone rivoluzionata dalla caduta delle prime teste di serie, eccoli arrivati a giocarsi l’ennesima possibilità di entrare nella storia. Dopo un primo tempo a tinte Cards, con un grande Montrezl Harrell, dopo l’intervallo gli Spartans prendono il comando della gara, sfruttando meglio le spaziature e trovando con regolarità la retina da lontano. Ma quando la squadra di Izzo aveva conquistato l’abbrivo giusto, ecco che Louisville metteva sul parquet gli attributi che separano una buona squadra da una squadra vincente e con i liberi di Mathiang aveva la possibilità addirittura di andare a superare all’ultimo respiro. Il primo rimbalza su ogni ferro di cui è dotato un canestro ed incredibilmente finisce la sua corsa all’interno dell’anello, il secondo è una fotocopia che però decide di scendere giù dalla parte sbagliata. E’ Overtime. Servono altri cinque minuti di grit ’n’ grind basketball per decidere chi salirà su quel volo per Indianapolis.

Dopo una battaglia di quaranta minuti tutti si aspettano ulteriore scorrere di sangue e invece i Cards non ne hanno davvero più. Le ultime speranze le hanno lasciate su quella piroetta imperfetta sui ferri del Carrier Dome e sulla tripla di Trice alzano bandiera bianca. E’ la settima partecipazione alle Final Four di Izzo in vent’anni di carriera a East Lansing. Come si suol dire, arrivano sempre gli stessi.

Wisconsin — Arizona

Tutti noi abbiamo avvertito quella strana sensazione di rivivere momenti che pensavamo di aver già esperito. Per i Wachowski era il glitch che rivelava i cambiamenti del codice di Matrix, per Sean Miller, che dentro un Matrix a spicchi sembra viverci per davvero, è l’incubo ricorrente delle Elite Eight. Quattro allenate, quattro perse in sette anni (facciamo cinque se ne contiamo una come assistente), le ultime due nel più crudele dei modi contro Wisconsin. Se l’anno scorso Nick Johnson aveva avuto per due volte il pallone delle Final Four nel più rocambolesco dei supplementari, quest’anno sono bastati i canonici quaranta minuti agli uomini di Bo Ryan per avere la meglio sui Cats del deserto. Bastati è chiaramente un understatement, vista la prestazione monstre che i Badgers hanno dovuto mettere in piedi per avere la meglio e garantirsi un posto lato finestrino ad Indianapolis. “Se mi avreste detto che avremmo commesso solo dieci palle perse, che avremmo vinto la battaglia dei rimbalzi, che avremmo tirato 28/30 dalla lunetta e 57% dal campo, vi avrei detto che non potevamo perdere”. Il condizionale laconico di Sean Miller evidenzia l’amarezza per una sfida giocata secondo tutti i crismi della perfezione cestistica ma condannata alla sconfitta dalla valanga di triple a bersaglio dei Tassi in un secondo tempo di balistica irrealtà. Wisconsin dopo l’intervallo ha tirato un comodo 10/12 da dove vale tre, con alcune conclusioni apparentemente fuori logica che poi a veder bene rientravano in un copione provato e riprovato. Guidati da un Dekker scintillante, tirato a lucido come nelle Domeniche di festa, e un Kaminski talmente debordante da non fare quasi più notizia, i Badgers approdano alla seconda Final Four in due anni, coronando un percorso di gruppo che ha pochi eguali nel basket contemporaneo. Affronteranno un’altra volta i ragazzi di Calipari dopo la beffa subita l’anno scorso per mano di Andrew Harrison. Altro Dejavù?

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