Astutillo e la solitudine dei numeri 12

Crampi Sportivi
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6 min readSep 23, 2016

Se i nomi Astutillo Malgioglio e Giulio Nuciari non vi ricordano nulla vorrà dire che non avete aggiornato il vostro compendio degli archetipi junghiani.

I due, oltre a essere riconoscibili per i folti baffi scuri, sono accomunati dal ruolo — portieri entrambi — e dalla statistica. Si contano infatti sulle dita di una mano o poco più le presenze di entrambi in Serie A, nelle tante stagioni passate a modellare con la forma delle proprie terga le panchine degli stadi italiani all’ombra dei loro rispettivi titolari, tali Walter Zenga e Gianluca Pagliuca, stelle di Inter e Sampdoria — nonché della Nazionale — di quegli anni.

Erano quelli i tempi in cui uno dei dogmi del mondo del pallone recitava che: “In ogni squadra ci sono un 1 e un 12.” Oggi i portieri indossano maglie con numeri talmente stravaganti sulla schiena che l’8 del mitico portiere argentino Ubaldo Fillol risulterebbe quasi normale e la frase quindi andrebbe riformulata così: “In ogni squadra ci sono un titolare e un panchinaro.” Con il sottotesto che, ai tempi, a meno che il titolare non iniziasse a farsi gol da solo per almeno cinque partite di fila, avesse fratture multiple scomposte in diversi punti vitali e fosse colpito da febbre gialla, le gerarchie sarebbero state quelle e stop.

E sebbene per definizione i dogmi non siano sottoposti alla verifica della ragione, quello relativo ai portieri sembrava in realtà accordarsi con una dose di buon senso quasi inusuale nel mondo del pallone.

Ruolo molto più psicologico che fisico, il guardiano della porta ha bisogno di scendere in campo con una pace della mente tale da assicurargli che, se anche farà un errore, la partita dopo avrà l’occasione di rimediare perché il posto sarà ancora suo.

Quell’assoluta verità di ieri è oggi messa in discussione. Intendiamoci: gente come Buffon, Neuer e Courtois è — giustamente — considerata inamovibile e generalmente esiste ancora una distinzione marcata tra “primo” e “secondo”, ma nel corso degli anni si è fatta strada gradualmente l’idea di avere due portieri: quello “di campionato” e quello “di coppa”.

In realtà, il concetto non è totalmente proprio del XXI secolo. Chi ha buona memoria ricorderà un Milan di Sacchi che nel 1989–90 schierava preferibilmente il compianto Andrea Pazzagli in Serie A e Giovanni Galli, più esperto in campo internazionale, in Coppa dei Campioni. Fuorigioco e pressing esasperati, ritmi forsennati, squadra corta, investimenti miliardari, rosa da oltre 20 giocatori e… doppio portiere titolare: fu davvero anticipatore di tante cose nel male e nel bene quel Milan.

La definizione di allora era di portiere “di notte”, perché all’epoca — calcisticamente sembra dieci ere geologiche fa — il campionato si giocava solo di giorno senza posticipi e spezzatini vari e la partita di Coppa dei Campioni iniziava alle 20,30, rigorosamente commentata dal mitico Bruno Pizzul.

Ma torniamo all’oggi. L’idea del portiere “di coppa” si è fatta largo partendo dai primi turni delle “coppette” a livello nazionale e inizialmente aveva pure una sua logica, dando l’occasione al “12” di prendere confidenza con il ritmo-partita dei match ufficiali, seppur in impegni tutto sommato agevoli.

Ciò che però si sta verificando con frequenza crescente a livello di top club in Europa proprio non me lo riesco a spiegare.

Nella fattispecie, parlo di quanto si è visto tre anni fa a Madrid, sponda Real, con Iker Casillas portiere di Champions League e Diego Lòpez portiere di Liga. Indentico discorso riguardo all’alternanza Marc-André ter Stegen-Claudio Bravo nel Barcellona di due stagioni or sono.

In entrambi i casi, le squadre hanno poi vinto la Champions, quindi mi si dirà di farmi meno pippe mentali e di chinare il capo davanti ai Risultati (la R non è un refuso). Vero, verissimo… Ma.

Ma chi è attento osservatore ricorderà che il Real fu vicino a perdere quella Champions proprio per colpa di un Iker — portiere che peraltro ammiro e la cui carriera complessiva non voglio certo discutere — molto incerto durante la finale con l’Atlético e balbettante anche nelle gare precedenti. Ter Stegen si comportò da buon mestierante in una squadra nella quale non fu certo lui l’elemento di forza — e ci mancherebbe, con Cerebro Iniesta in mezzo e la MSN là davanti — ma il suo percorso non fu esente da prestazioni sospette.

Forse Casillas fu schierato in Champions come riconoscimento al suo madridismo e per non creare malumori nell’ambiente e forse a ter Stegen venne data fiducia avendo in mente che per motivi angarafici sarebbe stato lui il numero 1 futuro dalle parti del Camp Nou. Ipotesi plausibili entrambe.

Tuttavia, oltre a questi esempi con l’happy ending del trofeo in bacheca, vengono in mente altri casi in cui l’ostinazione nel proporre il portiere “di coppa” si è rivelata una sciagura.

Chissà se Mancini si è mai pentito della scelta di far giocare il disastroso Carrizo nell’Europa League 2014–15; peraltro, al posto di Handanovič, uno che non toglierei dai pali nemmeno se avesse passato la settimana a farsi martoriare le dita dal sadico maestro di biliardo di Fantozzi — se non vi ricordate la scena, cercatela su YouTube e fatevi due risate. La regola portiere “di coppa” costò una sanguinosa eliminazione in una competizione in cui l’Inter poteva arrivare fino in fondo.

David Ospina si è (ri)guadagnato la fiducia di Arsène Wenger come portiere di Champions e ha pure ben figurato nel match d’apertura contro il Paris Saint Germain due settimane fa, ma l’anno scorso il manager francese venne a più miti consigli — ovvero far giocare Cech, da almeno 12 anni costantemente nella top 10 dei migliori portieri a livello mondiale, in my humble opinion — dopo che il colombiano ne aveva combinata qualcuna mettendo a repentaglio la qualificazione agli ottavi di finale.

Da seguire con attenzione poi l’alternanza dei portieri al nuovo PSG di Unai Emery. Premesso che uno che da manager a Siviglia ha vinto tre Europa League di calcio capisce qualcosina più di me, mi stupisce la scelta di alternare Kevin Trapp, titolare dell’anno scorso, e Alphonse Areola, cavallo di ritorno dal prestito al Villareal, decidendo di partita in partita. Era dai tempi degli Esordienti che non sentivo la formula: “Giocate tre partite a testa e poi vediamo,” ma in quel caso era una scelta pedagogically correct per non mettere in competizione me e il mio amichetto-collega e non c’erano in ballo gli interessi miliardari del Paris degli sceicchi.

Volendo mettere i puntini sulle i di Inghilterra, in realtà anche il dualismo Ray Clemence-Peter Shilton per la porta della nazionale inglese anni Settanta e Ottanta fu risolto per lungo tempo con un salomonico “un po’ per uno”. In questo caso, però, stiamo parlando di due autentiche leggende del calcio mondiale e il livello rispetto ad Areola-Trapp è un tantino diverso, con diversi container di pastasciutta che devono essere ancora consumati da entrambi i giovani portieri prima di avvicinarsi ai livelli dei due mostruosamente forti goalkeeper d’Oltremanica. Peraltro, alla lunga credo che la spunterà definitivamente Areola, più giovane e più bravo.

Rimane comunque il fatto che un certo modo di concepire le gerarchie tra portieri stia pian piano svanendo, probabilmente perché l’idea stessa di portiere ha subito una profonda trasformazione negli ultimi 25 anni — sarebbe interessante analizzarne le ragioni, magari la prossima volta.

D’altra parte, come afferma il biologo inglese Rupert Sheldrake: “In natura, più che delle costanti immutabili, esistono delle abitudini e le abitudini si evolvono.”

Articolo a cura di Daniele Canepa

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