Barbershop Conversation — La Nba è iniziata (e i Warriors son sempre là)

Crampi Sportivi
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10 min readOct 27, 2017

I Warriors vinceranno ancora? Westbrook fermerà il pallone nelle sue mani o Anthony e George lo porteranno in finale? LeBron è ancora il numero uno (domanda un filo retorica)? Boston è pronta a prendersi lo scettro di Cleveland? Siamo in ritardo, ma abbiamo provato a rispondere ad alcune domande della stagione Nba, già in corso e pronta a regalarci spettacolo.

All-Star Supermen (RG)

The sun may rise in the East, at least it settles in the final location” dice un pezzo tuttora in voga negli States e non solo, scritto da dei tizi che qualcosa di basket ne capiscono, se non altro per osmosi.

Per farla breve, la storia è questa: nel tentativo di rilanciare e rendere almeno un minimo interessante l’All-Star Game, ai primi di Ottobre di quest’anno la NBA si è inventata una formula un po’ cervellotica: i due giocatori più votati (uno per Conference) vengono nominati capitani delle rispettive squadre, e potranno scegliersi gli 11 compagni tra i 22 giocatori rimasti (11 dall’Est e 11 dall’Ovest), nominati secondo i parametri già attualmente in voga, ovvero i titolari scelti tramite un mix tra voti dei tifosi (50%), dei giocatori (25%) e dei giornalisti (25%), e le riserve scelte dai coach.

Non ci avete capito niente? Neanche noi. Se semplifichiamo, però, diciamo che non ci sarà più un Monster Team a Ovest — dove coi rimasti fuori ci vinci l’Eurolega in scioltezza — e un Normal Team a Est, dove devi quasi bestemmiare per mettere insieme il supporting cast di LeBron (relativamente, eh), ma un Team A con l’ipotesi Durant, Harden e John Wall, e un Team B con Paul, James e Steph Curry.

Purtroppo, il succo della questione resta sempre lo stesso: i giocatori che si presentano in infradito, con zero interesse se vincere o perdere, e una partita dove presumibilmente quest’anno una o entrambe le squadre segneranno più di 200 punti.

Quando valeva la pena vedere l’All Star Game della Nba: il titolo dice tutto, l’anno ancora di più.

Lo so che questa cosa mi farà sembrare molto vecchio , però ho ancora in mente il ricordo distinto degli ASG in cui si scherzava per tre quarti e nell’ultimo periodo si giocava per vincere in modo abbastanza serio. Al che io dico:se avessimo seguito la formula messa in atto qualche anno fa dalla MLB, dove alla conference vincente della Partita delle Stelle veniva garantito il vantaggio del fattore campo nelle Finals? Pareva brutto, eh?

Now or never? (GA)

Viene quasi da dirlo: “Ora o mai più”. La formula più dicotomica che lo sport possa ricordare vale però per Minnesota e i Timberwolves. Dopo aver tenuto praticamente tutti i pezzi al Target Center (tranne Ricky Rubio, ma a una certa bisognava farsene una ragione) e aver presentato il nuovo logo, Minnesota vuole riabbracciare la post-season.

Già, perché ridendo, scherzando e sognando con la meglio gioventù, i TWolves sono la franchigia che ha il digiuno più lungo in tema di play-off. L’ultima gara giocata in post-season risale al 31 maggio 2004 (!), quando Minnesota — reduce da un 58–24 in regular season e dal premio di MVP per Kevin Garnett — dovette cedere di fronte ai Lakers in Gara 6 della finale di Western Conference. Quei gialloviola che poi furono sbranati dai Pistons in finale.

Di fatto, l’ultimo barlume di grandezza mai registrato a Minnesota prima che Garnett lasciasse tutto e tutti nel 2007, alla caccia dell’anello mancante in quel di Boston.

E ci sarà un motivo se ha vinto il premio, no?

E ora? Ora bisogna perlomeno tornare in post-season. Non ci sono più non solo Rubio, ma anche Dunn e LaVine — andati a Chicago insieme a Markkanen per avere Jimmy Butler — , e ora coach Tom Thibodeau deve necessariamente provarci. Forse anche riuscirci, perché non si vive a pane & hype nella Nba. Lo sanno anche a Philadelphia e forse persino a Minnesota l’hanno capito.

Non solo Butler, perché in estate si sono aggiunti anche un veterano — possiamo definirlo così? Ormai sì… — come Jeff Teague e un super-veterano come Jamal Crawford, uno che ai Clippers aveva modo di dire ancora la sua. Poco importano le 37 primavere: i Wolves avevano bisogno di una guida esperta che possa consigliare i ragazzi di questo gruppo.

Dopo aver accumulato due premi per il Rookie dell’anno (Wiggins e Towns), è tempo di passare alla cassa per riscattare tutto. Anche perché l’ultima stagione vincente è quella del 2004–05, che comunque non valse l’ingresso ai play-off. Time to change.

MVP (PS)

Interrogarsi sui risultati della biblica stagione NBA è sempre un esercizio dal quale nel dubbio meglio fuggire. Qualcuno però deve pur assumersi questo ingrato compito. La corsa al premio di MVP dello scorso anno è stata uno dei quei thriller in cui capisci alla prima pagina chi è l’indiziato principale, ma per altri 82 sudati capitoli riesce comunque a tenerti con il fiato sospeso.

La lotta a suon di triple doppie e giocate estatiche tra Harden e Westbrook è destinata a rimanere un’appendice della stagione passata per vari motivi, il più evidente dei quali è la conformazione delle rispettive squadre. Affiancare a Westbrook due giocatori con tanti punti nelle mani come George e ‘Melo e pensare ad un modo in cui possano convivere The Beard e Chris Paul spinge le quote dei due contendenti leggermente al ribasso.

Detto questo, mai scommettere con un tipo che ha questa fiducia in sé stesso e negli altri.

Da questo punto di vista sono LeBron James e Kawhi Leonard ad avere più spazio di manovra all’interno della propria squadra. Il Re si è ritrovato senza Irving e con Thomas disponibile da febbraio, starà quindi a lui torreggiare su compagni e avversari anche durante la regular season. Perché non lo faceva già? Ecco appunto.

Per Leonard parla l’offseason degli Spurs. Offrire quel tipo di contratto a Gasol e Aldridge presuppone fiducia nel core attuale e il core attuale dipende dalle giocate del #4 in una maniera molto poco Spurs. In base a quando e come tornerà dall’infortunio si capirà se potrà ambire alla corona di MVP ma attualmente sembra un gradino sotto.

In ogni caso, questo rimane un MVP.

Chi sta veramente bene è invece Kevin Durant che evidentemente continua ad avere dei fastidiosi sassolini di cui liberarsi. Non si spiega altrimenti il livello del basket che sta giocando perché quello che si vede in questo momento è il miglior KD di sempre. Per dirne una attualmente è il miglior stoppatore della lega e la sua produzione offensiva rimane una manna anche per i Warriors. A proposito: il non accorgersi di Curry è riuscito parecchio bene all’NBA per diversi anni e non vorrei che si ricadesse nel vizietto. Parte più indietro? Certo. Ha qualche possibilità? Eh.

Come al solito l’unica cosa che non mancherà è lo spettacolo o l’amazing come dicono loro dall’altra parte dell’oceano. In ogni caso per chi non riuscisse proprio a vivere nell’incertezza Basketball Reference mette a disposizione questo predictor sempre aggiornato. Una cortesia: non guardate chi c’è adesso in testa perché se dovesse realmente finire così bisognerebbe dare ragione ai testi dell’antica Grecia. Gli Dei esistono? Sì, per di più delle volte scendono sulla Terra per sollazzarsi con qualche avvenente mortale. Ma quindi esistono anche i semidei? Sì, il più in vista dei quali risiede nel Wisconsin, gioca a pallacanestro e ha il numero 34. Follia.

Maybe next year? (RG)

Abbiamo già disquisito altrove, in questa sede, dei danni fatti dall’innalzamento del salary cap alla NBA di oggi e della conseguente creazione di dislivello tra superteam e squadre quasi senza speranza di far strada.

Ecco, in quest’ottica, i Celtics di coach Brad Stevens si erano pure mossi bene, sacrificando Isaiah Thomas per prendere una della guardie più forti della Lega, quel Kyrie Irving che una manina, a LeBron, gliel’aveva pure data nel portare il titolo a The Mistake On The Lake. Inoltre, avevano aggiunto a una rosa già molto competitiva e molto ben guidata la New Great White Hope, quel Gordon Hayward che veniva da tre stagioni di altissimo livello agli Utah Jazz. Certo, avevano dovuto vendere l’anima al diavolo, sacrificando pedine che in qualsiasi squadra sarebbero state estremamente funzionali, come Avery Bradley, Jae Crowder e Kelly Olynyk, ma tutto sommato nessuno di loro era un All-Star.

Quando si fa un patto col diavolo, non si pensa mai che la parte buona possa durare per sempre, ma nemmeno che possa consistere in solo 5 minuti di una stagione da 82 gare più i playoff.

Tanto, però, è stata la permanenza in maglia biancoverde sul parquet di Hayward. E ora? Boston potrà spendere gli 8,4 milioni di dollari per eccezione infortunio, ha dei buonissimi giovani — che dovrà far crescere più alla svelta di quanto avrebbe sperato — , ma non ha più uno dei pezzi fondamentali per una squadra di basket: il giocatore che mette in apprensione le difese avversarie a ogni possesso.

A questo punto, trovandosi con il “solo” Irving più a bunch of good players, senza nulla voler togliere a Brad Stevens (che mi mangio il cappello se non vincerà almeno una volta il Coach Of The Year Award, nella sua vita), possiamo tranquillamente dire che la stagione dei Celtics come contender per lo meno per un posto nelle NBA finals è durata 5 minuti netti, fino a quando cioè la caviglia di Hayward ha deciso che per questa stagione poteva bastare. Un consiglio da amici: se non avete visto le immagini dell’infortunio, non c’è bisogno che lo facciate.

The new breed (MAM)

Dopo anni passati ad etichettare ogni sfornata di rookie come la migliore degli ultimi X anni, con 1X ≤ 13 (ovvero dal 2003 in poi, anno del draft di Lebron James, Dwayne Wade, Carmelo Anthony, Chris Bosh e Darko Milicic), questa pare proprio la volta buona. Da queste primissime battute, difatti, i ragazzi che sembrano pronti ad avere un ruolo nel futuro, ma anche nel presente della lega, sembrano davvero un bel pò.

  • Ben Simmons

Un anno di attesa per vedere all’opera la prima scelta assoluta del Draft del 2016, aspettando il completo recupero della sensation australiana in nome del Process di attesa dei giovani per poi farli esplodere tutti assieme. Le voci positive sulle abilità a tutto tondo del ragazzo si sono contrapposte a quelle negative sulla sua poca capacità al tiro; sinora, la prova del campo ci ha detto che un jumper affidabile non è necessario a Simmons per dire già la sua relativamente alle tre voci di punti, rimbalzi e assist perorando la sua causa di prossimo campione della Lega, dal tratto peculiare di saper fare benissimo un pò di tutto.

  • Jayson Tatum

Durante tutto il 2017 i Celtics hanno avuto una crisalide tra le mani: la scelta che i devastati Nets scambiarono al tempo dell’acquisizione di Pierce e Garnett, ora diventata la numero 1 assoluta nel draft del 2017. Aspettavano l’occasione per renderla la migliore farfalla possibile: non fu scambiata per arrivare a Jimmy Butler o Paul George, ma a sorpresa questa estate scambiata con la numero 3 assoluta dei 76ers (oltre a future prezione scelte e un abbassamento di cap per permettere l’arrivo di Hayward). L’obiettivo per i verdi difatti era sempre stato Tatum, invece che il favoritissimo Fultz: i dubbi per il loro trade down della scelta son stati subito spazzati dalla versatilità di Jayson. Iconografico il suo primo incontro con lo stesso Fultz:

  • Donovan Mitchell

Attrarre free agents nella terra degli hamish è complicato; per i Jazz qualsiasi velleità nella costruzione della squadra passa perciò per le capacità di scegliere bene nei vari draft. Dopo i colpi Hayward e Gobert aveva costruito un buon team in quel dello Utah; la partenza del primo verso i Celtics rischiava di rompere il giocattolo. Invece i mormoni sembrano vivi e vegeti: a dar loro man forte, la scelta proprio di Mitchell, il cui prototipo sembra rispettare totalmente la linea scelta in terra coach Snyder che all’atletismo puro preferisce giocatori di gran tecnica:

  • Lonzo Ball

Odi et amo relativamente all’aura con cui il primogenito dei fratelli Ball si presenta nella Lega. Inflazionato dalle dichiarazioni bislacche (strategicamente o meno) di papà LaVar a tal punto da calamitare le antipatie che il babbo attrae con la sua lingua lunga, così da oscurare la vista sulle qualità in fase di playmaking e presenza a tutto tondo sul campo di cui invece dispone. E se all’esordio uno dei maggiori provocatori della Lega, Pat Beverley, gli ha riservato un benvenuto particolare, già nella seconda partita è quasi arrivato alla tripla doppia (pure se l’assetto difensivo dei Suns versione groviera aiuta non poco):

  • Dennis Smith Jr.

Una Dallas in ricostruzione ha subito affidato le chiavi della regia al ragazzo più pronto in uscita dal draft. Approdato una stagione dopo fra i pro causa infortunio ishdgoishgdi, nonostante quello resti un dubbio che lo circonda (e già ci è ricascato), già ha firmato un record: più giovane della storia a firmare una doppia doppia in punti ed assist. D’altro canto, se il buongiorno si vede dal mattino, questo il primo canestro nella stagione 17/18 dei Mavericks, nonchè i suoi primi 2 punti messi a segno in NBA:

  • Lauri Markkanen

Ne avevamo già parlato dopo lo splendido Eurobasket giocato: il finlandese poteva essere davvero d’impatto nel desolante panorama sportivo della franchigia della Windy City. Dalla preseason ha tirato fuori lo stesso campionario mostrato nel vecchio continente: fra le poche soddisfazioni che i Bulls racimoleranno in questa stagione, Lauri sembra essere la principale.

  • Markelle Fultz

Prima scelta assoluta in sede di Draft Night, dove nonostante il vasto talento conclamato e che già si sta svelando, non c’era alcun dubbio sul selezionato numero 1. Con lui i 76ers stanno scegliendo un approccio cautelativo, facendolo partire dalla panchina; non gli impedisce certo di essere già presente in modo consistente sul tabellino, pronto a far compagnia allo stesso Simmons, al Twitter King Joel Embiid e a Dario Saric nel core incaricato di portare successi alla Città dell’Amore Fraterno.

  • De’Aaron Fox

Dalla scorsa stagione NCAA era già nato il dualismo: Fox si era imposto come anti-Lonzo Ball, con gli scontri fra le loro università di UCLA e Kentucky a serbare una sfida nella sfida fra i due playmaker (con quest’ultimo vincitore). L’impegnativo paragone per De’Aaron è con John Wall: velocità supersonica e leadership nella guida di una squadra. Certo, il tiro non è dei più affidabili, ma se quando sprinta indossando gli stivali delle sette leghe non riesce a raggiungerlo nessuno…

  • John Collins

La strada della ricostruzione ad Atlanta è preannunciata quale dura e lunga. Se la scorsa intelaiatura è stata persa senza adeguate contropartite, al draft il front office degli Hawks sembra lavorare bene: Prince, scelto lo scorso anno, questa stagione è direttamente un giocatore da quintetto; Collins, non chiamato con un numero altissimo, col suo atletismo straripante sembra essere una nuova steal. La doppia doppia firmata alla terza gara giocata sembra essere la prima fra tante…

  • Milos Teodosic

Per ultimo, il piccolo colpo di scena: anche il genio serbo nella lista. E’ chiaro che appellarlo quale novellino sia quasi un insulto al suo talento, tuttavia tecnicamente si tratta, anche nel suo caso, di un rookie, per quanto riguarda la NBA. Dove ci si aspetta un ruolo rapportato alle sue capacità da passatore, fra le primissime al mondo: d’altro canto, con queste visioni sareste in grado di dire che abbia così tanto da imparare?

A cura di Gabriele Anello (GA), Marco Antonio Munno (MAM), Roberto Gennari (RG) e Paolo Stradaioli (PS)

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