Barbershop Conversation — Son tornati i play-off NBA

Crampi Sportivi
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14 min readApr 13, 2018

Ci siamo. I play-off NBA sono di nuovo tra noi e la nostra redazione basket — dopo essersi tenuta il meglio per la post-season — è pronta ad affrontare l’epilogo del 2017–18. Un epilogo potenzialmente pieno di sorprese, ma che potrebbe al tempo stesso confermare gli sfidanti che negli ultimi tre anni si sono giocati il titolo.

E intanto la stagione ci ha comunque detto qualcosa su alcune realtà, che hanno fatto meglio o (molto) peggio di quello che ci si aspettasse. Ecco cinque prospettive di ciò che ci aspetta e di ciò che è stato.

Una conferma: a Russell Westbrook piace vivere in tripla-doppia.

Somewhere I belong, but not here (MAM)

Per una lunga serie di belle realtà, ogni anno parimenti si palesano una serie di delusioni. Se l’impostazione della lega americana, col sistema di draft, suggerisce sommessamente la strategia di accumulare scelte alte — ottenute solo a causa di scarsi risultati dalle squadre che quindi pianificano annate di magri successi — , non è quella la strada scelta da tutti i team che hanno già concluso i propri impegni stagionali senza qualificarsi alla post-season.

Perciò se Bulls o Kings, anche con un basso numero di vittorie, non sono catalogabili fra le franchigie ad aver steccato la stagione, così non si può dire di altre che anche con qualche W in più nel carniere si trovano a godersi la post-season solo con un cesto di popcorn in mano.

Questo è uno che invece la postseason la giocherà per vincerla.

Innanzitutto, quella con il roster dal più alto starpower: i Detroit Pistons che a un habituè dell’All Star Game come Andre Drummond ha aggiunto, nel corso della stagione, un altro giocatore da anni ai vertici assoluti come Blake Griffin. Tuttavia, in una Eastern Conference nella quale l’accesso alla seconda fase si otteneva tramite un quantitativo minore di vittorie, la coppia di torri sotto canestro non ha funzionato: mancata qualificazione (ottava in nove anni)​ alla post-season. Particolare che la loro eliminazione sia arrivata per mano dei Sixers, dei quali nel 2014 coach Van Gundy definì il Process “imbarazzante”; proprio Philadelphia questa stagione ha raggiunto uno sbalorditivo terzo posto assoluto a Est, con 52 vittorie, mentre Van Gundy non ne vince almeno 48 da sette anni.

Chimica di squadra non proprio presente…

Altra squadra che in teoria poteva contare su due giocatori a gravitare intorno all’elite della lega era quella dei Grizzlies. In realtà, la disponibilità di uno dei due — quel Mike Conley spesso sottovalutato (eppure, essere in grado di tirare jumpers sia di destro che di sinistro non dovrebbe essere una qualità che passa inosservata…) — è stata di fatto inesistente durante questa stagione, lasciando un Marc Gasol in cui il peso degli anni comincia a farsi gravoso in solitudine, accerchiato da giovani promesse non fra le migliori disponibili visto il cambio di piani in corsa durante l’annata. Il tutto mentre il catalano vedeva sempre più lontana la post-season, con cui era cliente fisso insieme all’intera franchigia identificata nel motto “Grit and grind”: così facendo, Memphis ha raggranellato il secondo peggior record della NBA con sole 22 vittorie.

Marc, il tanking non ti merita.

A proposito di peggiori record: si sapeva che per i Suns questo potesse essere un altro anno di transizione, visto l’alto numero di matricole e di sophomores in squadra, che in Devin Booker cerca il leader per compattare un gruppo che esploderà fra qualche anno. Certo, conquistare meno vittorie di tutti non è mai la sorte che ci si augura; diventare però la prima squadra nella storia della Lega a essere ultima sia per efficienza offensiva che per efficienza negativa non potrà mai portare qualcosa di realmente costruttivo alla causa.

L’immagine metaforica del percorso stagionale dei Suns vale più di mille parole.

Una chiusura nel conteggio delle delusioni potrebbe essere legata a due giocatori, quali rappresentativi dei propri team: Danilo Gallinari per i Clippers ha giocato pochissime partite, tormentato dagli infortuni e rappresentando simbolicamente il vero problema che ha attanagliato i losangelini da inizio stagione, durante la quale si sono presentati con il roster al completo solamente per quattro gare. A Est, Nicolas Batum per gli Hornets ha disputato un’annata impalpabile, senza compiere quel passo in avanti ma anzi, peggiorando, proprio come l’intera squadra di Charlotte dopo le post-season raggiunte con il nucleo fondato su Kemba Walker e appunto sul francese.

Tuttavia, non possiamo che collegare questo concetto a quella franchigia che più di tutte simboleggia il fallimento di un’ennesima ricostruzione: esatto, nonostante un super Porzingis (fino al suo stop per infortunio), i Knicks hanno mancato i play-off pure quest’anno, incapaci di regalare una soddisfazione al tifosissimo Spike Lee.

Sorprese positive e non (GM)

La lotta per accedere ai play-off è stata serrata in entrambe le Conference, caratterizzata da squadre rivelazione (vedi Indiana e Utah) e delusioni (vedi OKC e Minnesota). Fino all’overtime della 82° gara di Minneapolis era incerta l’ultima partecipante a Ovest, mentre a Est nelle ultime settimane c’è stata una pazza corsa al piazzamento migliore.

Nell’Eastern Conference ci sono state due sostanziali sorprese, una difficilmente preventivabile, Indiana, e un’altra di dimensioni leggermente ridotte, Philadelphia. Come sono riuscite a fare un’annata sorprendente? Philadelphia ha beneficiato di un Embiid abbastanza integro (63 gare giocato su 82 in regular season), di una stagione da rookie come raramente se ne sono viste nella storia e di aggiustamenti in corso di assoluto livello tra front office e coaching staff. Il tutto avendo a disposizione soltanto il 2% di Markelle Fultz, prima scelta assoluta del draft 2017, tegola assorbita alla grande da una squadra in missione che ai play-off non va soltanto per partecipare, riassumendo: #TrustTheProcess!

I Pacers invece sono stati una rivelazione in tutto e per tutto. Hanno chiuso la stagione scorsa con 42 vittorie e 40 sconfitte e un 4–0 perentorio contro i Cavs al primo turno play-off, senza dimenticar che in post season è andato via il miglior giocatore del roster. Coach McMillan ha però compattato l’ambiente, ha dato certezze alla squadra e sistemato al posto giusto i nuovi arrivi. La squadra difende bene, ogni notte è concentrata per 48 minuti, è ottava per % da 3 e sesta per FG%, chi lo avrebbe mai detto?! Oladipo e Turner hanno disputato un’annata strepitosa, da leader veri e maturi. Una sola partita in diretta TV nazionale come Magic, Hawks e Nets, zero riflettori puntati addosso e aspettative minime: la stagione di Indiana era partita così. Sono riusciti a superare le più rosee aspettative, ma ora la sfortuna vuole che nonostante l’ottimo record di 48–34 incontreranno i Cleveland Cavaliers al primo turno play-off. Difficilmete il cammino proseguirà, però il lavoro di McMillan e la crescita di certi ragazzi non va dimenticata.

Che poi — detto fra noi — Lance Stephenson una volta sola in diretta nazionale è una vergogna.

Nella Western Conference sono troppe le cose da sottolineare, perché dietro Rockets e Warriors è successo di tutto. In particolare da segnalare una San Antonio orfana di Leonard che si è barcamenata come meglio ha potuto sfruttando un roster allenato magnificamente, un Ginobili mai domo e un Aldridge più che sugli scudi. Lo scontro con Golden State al primo turno sembra davvero ad armi impari, ma coach Popovich certamente non concederà l’onore delle armi facilmente. Interessantissima la stagione dei Pelicans, che sono partiti bene e hanno poi avuto una flessione tra metà novembre e fine dicembre, quando il progetto delle due torri ha subito parecchie critiche. I Pelicans, però, si sono poi ripresi grazie a un sensazionale Boogie. DMC dava finalmente l’impressione di giocare a un livello di pallacanestro che gli competeva, però il 26 gennaio ha subito un tremendo infortunio al tallone d’achille.

Per dire.

Da qui in poi è diventato l’Anthony Davis show: non che prima stesse giocando male, ma ha innalzato decisamente il suo gioco, trascinando la squadra fuori dal guado della lotta play-off fino a un rispettabilissimo sesto posto a Ovest. Non solo The Brow a New Orleans, ma Mirotic, Rondo e Holiday hanno disputato tutti una seconda parte notevole e la sfida con Portland al primo turno è alla portata. OKC ha il giudizio sospeso, rimandata a settembre: l’appuntamento con Utah è di quelli da non fallire assolutamente. Gli Jazz ci arrivano col vento in poppa e le vele spiegate, specialmente considerando le attese d’inizio stagione post-addio di Hayward. Coach Snyder sta migliorando ogni anno e il modo in cui riesce a far giocare i suoi ragazzi da Squadra è magistrale: Ingles dove altro sarebbe così determinante? Mitchell è il secondo classificato al Rookie Of The Year, sì per meriti suoi, ma anche per il contesto dove è capitato. Il Rubio 2017–18 merita le chiavi in mano di una franchigia da play-off.

Gli infortuni sono stati più che mai determinanti nei piazzamenti e nelle valutazioni, basti pensare a Minnesota con o senza Butler o al potenziale inesplorato dei Clippers, per questo sembra una chance sprecata quella di Detroit che dall’arrivo di Griffin invece che avvicinarsi alle caselle playoff, si è via via allontanata concludendo l’era Van Gundy nel peggiore dei modi.

Com’è andata la rookie class? (PS)

Ogni volta si esagera, ogni volta la rookie class uscente è la migliore dal [inserire anno a piacimento], e ogni volta si è costretti a fare i conti con una realtà che, a distanza di un paio d’anni dal draft, restituisce un’immagine meno idilliaca del talento reale mostrato dai nuovi arrivi sui parquet NBA.

Dal momento che in questa sede si promuove il ragionamento critico e pacato quella del 2017 è la miglior rookie class dai tempi almeno del 2008 quando David Stern chiamò, tra gli altri, Rose, Westbrook, Love, Eric Gordon, Brook Lopez, DeAndre Jordan, Dragic, con la possibilità, tra un paio d’anni, di considerarla la migliore da quando alla 1 venne scelto un ragazzotto di Akron, Ohio nel 2003.

A Philadelphia lo champagne, quello buono, lo hanno tenuto in cantina per tantissimo tempo fino a che hanno deciso di metterlo in fresco appena la lottery gli ha consegnato la prima scelta assoluta del 2017. Con Markelle Fultz sembrava tutto apparecchiato per brindare a Sam Hinkie e al suo visionario processo. Qualcosa però si è inceppato: Fultz si è dimostrato una ciliegina alquanto acerba al primo assaggio, lo champagne sembrava destinato a tornare in cantina per il momento, se non che la torta si è dimostrata da tre stelle Michelin e buona parte del merito va all’aver coccolato Ben Simmons per farlo sbocciare al momento giusto.

Ha giocato poco, ma quanto promette, eh?

Anche volendo mettere un asterisco al rookie dei Sixers (prima scelta al draft 2016, ma mai impiegato la scorsa stagione), i numeri del prodotto di LSU rimangono qualcosa di illegale. Primo tra i rookie per rimbalzi, primo per rubate, terzo per punti, quinto nella lega per assist (soltanto Russ, Wall, LeBron e Harden smazzano più assistenze a partita), 37 doppie doppie, 13 (TREDICI) triple-doppie, meno dei soli Westbrook e James: un dominio così totale sulle partite alla prima stagione NBA non si vedeva dal 2003 appunto, quando il Rookie of The Year lo vinse LBJ. Follia, se si pensa che Simmons è praticamente sprovvisto di un jumper, fondamentale tra i più facili da insegnare a questi livelli e potenzialmente l’arma definitiva per un progetto da laboratorio a cui non sembra mancare altro.

Un progetto da laboratorio dicevamo, tanto è servito per escludere qualsiasi altro contendente alla corsa per il ROY, anche se ti chiami Donovan Mitchell. Scorer più prolifico dei Jazz con margine, una usage irreale per un rookie del 28,8%, insieme a Gobert e alla meravigliosa visione del basket di coach Snyder, il motivo per il quale i Jazz saranno un cliente scomodissimo ai play-off. Se l’hype per il futuro di Mitchell non fosse abbastanza basterebbe guardare qualche highlights per convincersi che il futuro è anche suo.

Così come dovrebbe essere di Jayson Tatum il quale, dopo una fulminante partenza, si è assestato su prestazioni più umane, ma che lasciano comunque presagire un talento raro. In attacco così come in difesa ha le carte in regola per diventare un giocatore indispensabile nelle rotazioni di coach Stevens; considerando che nei Celtics soltanto Brown e Horford hanno un NetRating migliore e soltanto gli stessi due più Irving sono stati più in campo di Tatum, il concetto di futuro rischia di essere addirittura limitante e i play-off ci diranno se già oggi Tatum è un giocatore chiave per una contender (seppur mutilata dagli infortuni).

Bel duello.

E poi? Poi ci sono la strana coppia dei Lakers, Kuzma&Lonzo. Il primo arrivato in sordina ha stupito tutti, sfoderando un set di soluzioni offensive invidiabili che lo rendono già oggi il secondo violino dei giovani Lakers e un fit ideale per qualsiasi giocatore di livello decidesse di sposare la causa gialloviola. Il secondo — frastornato dalle luci della ribalta puntate addosso dal padre — ci ha messo un po’ prima di ingranare la marcia: nonostante le aspettative non del tutto ripagate, ha comunque stampato una stagione da 10+7+7 di media, ha le chiavi della squadra in mano, ha trasformato il suo tiro da indegno a mediocre con prospettive tendenti al decente e soprattutto sta sfoggiando una dimensione difensiva che a questi Lakers serve come il pane (primo in squadra per DefRtg).

Ci sarebbe da parlare ancora del tiro di Bogdanovic, della solidità di Markkanen, delle monster dunk di Smith jr., delle skills difensive di Anunoby e Adebayo, ma il pronostico è una scienza inesatta e dal momento che la lega tra non molto sarà roba loro, ci sarà tempo per dialogare in futuro sull’incredibile rookie class del 2017.

Race to MVP (RG)

30,6 punti a partita (miglior marcatore della lega), a cui aggiungiamo 8,7 assist (quarto), 5,4 rimbalzi (sesto tra i play se consideriamo anche Ben Simmons). In meno di 36 minuti a partita giocati. Miglior record dell’intera NBA. Massimo di vittorie della storia della franchigia già migliorato di 6 W al momento in cui scriviamo. Se questa non è una stagione da MVP per James Harden, diteci voi cosa dovrebbe fare uno per vincere questo riconoscimento.

E infatti, certo di non essere smentito mi gioco il mio ultimo dollaro sulla vittoria del Barba. Che ha prevedibilmente tratto giovamento dall’affiancamento di Chris Paul, nel senso che nonostante il calo alle voci rimbalzi e assist — dovuto al contributo di CP3 — permette al numero 13 una miglior selezione delle scelte offensive, che si traduce in meno conclusioni forzate da 3 (dal 34,7% dello scorso anno siamo passati al 36,6%), meno palle perse (4,4: comunque tantine, contro le 5,7 dello scorso anno, che lo vedevano leader incontrastato della NBA). A ulteriore sostegno della tesi per cui l’MVP andrà ad Harden, anche il credito che vanta dallo scorso anno in cui era già il miglior assist-man e secondo miglior marcatore, ma si vide soffiare il premio da The Triple Double Machine Russell Westbrook. Poi oh, chi scrive è convinto che questi Rockets siano una squadra molto più da Regular Season che non da play-off: 15° per percentuale dal campo, 14° per percentuale da tre, 17° per percentuale concessa agli avversari, 18° per rimbalzi conquistati, 15° per stoppate. Ma i play-off saranno un’altra storia, per ora è giusto che il Podoloff 2018 vada a lui.

Ormai anche simbolo swag.

Questo ovviamente senza nulla togliere alla stagione di LeBron James, che però paga un rendimento della squadra decisamente al di sotto di quello dei Rockets (ma in linea con quello dello scorso anno, quando Cleveland arrivò in finale con un record nei play-off di 12–1, per cui occhio: a Est ci sarà poco da scherzare e parecchio da fare i conti coi Cavs). Quello che impressiona di LeBron, a dire il vero, è che da sempre l’impressione di giocare all’80–90% delle sue potenzialità per larghi tratti delle partite, per poi accendersi “alla bisogna”, e nonostante questo sta facendo registrare la sua miglior stagione da diversi anni a questa parte, coi suoi massimi in carriera per rimbalzi e assist. Cleveland ha tutto sommato metabolizzato bene sia la partenza di Kyrie Irving che il fallimento dell’operazione Isaiah Thomas, portando a casa una stagione da 50 W e insinuando in tutti noi la sensazione strisciante che non li si possa proprio tirare fuori dal ruolo di favoriti della Eastern Conference.

E gli altri? Beh, fa abbastanza impressione il fatto che — dopo la stagione monstre che ha disputato — Anthony Davis rischi di non prendere neanche un voto per il primo posto: le sue cifre parlano di 28,2 ppg, 11 rpg, 2,6 stoppate, il 53,5% dal campo e l’83% abbondante dalla lunetta. Oltre al massimo di vittorie come squadra da quando è in NBA (48), nonostante l’infortunio di Boogie Cousins che peraltro non stava giocando malaccio neanche lui, diciamo così. Così come è altamente probabile che non prenderà voti neanche Damian Lillard, che ha guidato i suoi Trailblazers a 49 W e al terzo posto nella sempre competitivissima Western Conference, oltre al secondo titolo divisionale in quattro anni. Per tacere di Russell Westbrook, per il secondo anno consecutivo in tripla doppia di media (primo nella storia NBA) e luce guida insieme a George e ‘Melo dei suoi Thunder, quarti a Ovest. Lo stesso discorso vale per almeno altri tre giocatori: Kevin Durant, DeMar DeRozan e Victor Oladipo. Ah, e poi ci sono i vari Joel Embiid, Giannis Antetokounmpo, Nikola Jokic. Insomma, tutta gente che per un verso o per l’altro meriterebbe di stringere il trofeo di MVP, che quest’anno, però, andrà giustamente al miglior giocatore della miglior squadra della NBA 2017–18.

Si va per la quarta? (GA)

La grande domanda è una e trina: il 31 maggio, ci troveremo con il quarto atto di Warriors vs. Cavs? Credo che la speranza di diversi sia per un cambiamento di scenario, anche se la dimostrazione di forza di Golden State nella passata stagione è stata abbastanza lampante. E infatti gli scenari più sorprendenti sembrano aprirsi a Est, dove la dinastia Cavs sembra aver messo alle spalle i giorni più luminosi. Poi però c’è quello con il 23 che nell’Ohio ha dimostrato di poter fare come vuole: l’Eastern Conference è sostanzialmente a sua disposizione.

“Game of Zones” l’ha sintetizzato piuttosto bene l’anno scorso.

L’ultima volta che LeBron non aveva le chiavi della Eastern Conference era il 2010, quand’era nell’ultimo anno della sua prima avventura ai Cavs (e uscì in semifinale contro i Celtics dei Big 3). Da quel momento in poi, LBJ ha sempre alzato il trofeo a Est e si è giocato sette finali NBA di fila, vincendone tre. E vista la sua forma — con lui che dice di non dare i Cavs per spacciati, giocando per la prima volta in carriera tutte le 82 gare in stagione — non mi sentirei di dire nulla che gli vieti nuovamente l’accesso all’atto finale, nonostante i Cavs abbiano il quarto seed a Est.

Tuttavia, se a Ovest i Warriors hanno la possibilità di confermarsi campioni della Western Conference senza eccessivi problemi, a Est le insidie sembrano esser diventate molto di più. L’infortunio di Kyrie Irving ci ha privato di quello che sarebbe stata una serie — forse anche una finale di Conference — molto invitante. Però… però ci sono dei ragazzi che meriterebbero un filo di considerazione, anche se l’hype li sta prontamente seguendo in questa post-season.

Non so voi, ma io vedo diverse similitudini tra la stagione 2013–14 di Golden State e quella 2017–18 dei 76ers, quando all’epoca s’intravedevano degli elementi molto interessanti dei Warriors, giunti alla seconda post-season, ma ancora senza Steve Kerr in panchina. Al tempo stesso, i 76ers sono finalmente di nuovo ai play-off dopo sei anni e per di più da terzi a Est (52–30). The Process sembra ormai giunto alla sua fase finale, quella del raccolto. Sam Hinkie dovrebbe avere una statua onoraria davanti al Wells Fargo Center, perché il suo lavoro negli anni passati sta dando i suoi frutti e ora i fans si stanno godendo una grande annata a Philadelphia (oltre agli Eagles e al loro SuperBowl).

I 76ers hanno avuto un’annata di crescita, ma senza play-off nel 2016–17 (28–54), dove comunque Embiid aveva già mostrato cosa potesse fare. Ora, con Simmons, Fultz, Saric, Redick e persino l’arrivo di Marco Belinelli, Philadelphia non appare troppo lontana dalla finale di Conference. Sfiderà Miami e poi potrebbe incrociare la vincente di Boston-Milwaukee. Una finale contro LBJ e i suoi Cavs sarebbe entusiasmante.

Dall’altra parte, James Harden e i Rockets sembrano la vera insidia per Golden State, che per la prima volta ha fallito il traguardo delle 60 vittorie sotto Steve Kerr e non avrà il fattore campo dalla sua per tutta la durata dei play-off a Ovest. Gli infortuni si sono succeduti senza mai definitivamente lasciare la Bay Area e qualche nuvola c’è… sono pronto a esser smentito, ma nonostante il 65–17, non penso che i Rockets riusciranno a superare GS. Perché quando c’è da accendere l’interruttore, i Warriors sembrano esserci.

Case in point: i Warriors 2017–18 sono stati la prima squadra nella storia della NBA a recuperare due gare concluse parziali di svantaggio da 20+ punti all’intervallo (contro i Pelicans e contro i 76ers).

Sarà ancora Cavs vs. Warriors? Il tempo ce lo dirà, ma i play-off promettono di non deluderci mai, ergo siam pronti.

Articolo a cura di Gabriele Anello, Giacomo Manini, Marco Antonio Munno, Roberto Gennari e Paolo Stradaioli

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