Baseball e numeri, la ratio scientifica del Ball Game

Crampi Sportivi
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8 min readAug 23, 2013
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Nota: Se la parola Diamante non ti rinvia ad altro che a qualcosa che è “per sempre” e se l’unica partita di Baseball che hai visto nella tua vita è quella in qualche puntata dei Simpson, datti una spolverata generale di Ball Game su Wikipedia, qui

Tutti gli sport a stelle e strisce sono fortemente connotati da numeri e statistiche, usate principalmente per descrivere prestazioni di atleti e di squadre. Questo tipo di approccio trova conferma nella singolare mania che gli americani hanno di stilare classifiche e statistiche relative a praticamente tutti gli ambiti dello scibile umano. Spiegarsi il mondo attraverso i numeri è un metodo razionale che permea tutta la società e che mi azzarderei a definire figlio di un modo di fare business-oriented . Nello sport, luogo dell’ignoto per eccellenza, il numero è quindi la base da cui partire per capire le cose e poterle prevedere. La differenza rispetto ai nostri costumi sportivi, dove forse prevale un approccio più psicologico nelle valutazioni di una squadra e di un individuo al suo interno, l’hanno riassunta bene alcuni degli italiani che giocano in NBA mostrando a tratti insofferenza verso l’uso aprioristico delle statistiche a cui sono sottoposti, spesso all’insegna del brutale concetto: “se non fai questi numeri non giochi”.

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Lo sport che riassume alla perfezione questo modo di vedere le cose è il baseball. L’importanza dei numeri è tale che è difficile parlare di baseball senza snocciolare cifre e statistiche. Questa prassi, diventata imperante grazie all’avvento delle TV e dei suoi analisti, è comune anche ai classici tifosi da bar. La spiegazione sta nella dinamica del gioco che, nonostante sia uno sport di squadra, si basa in larga parte sul rapporto diretto tra battitore e lanciatore. Un giocatore, per esempio, che batte un fuoricampo o che si fa eliminare al piatto compie un gesto individuale — che si estende e si ripercuote sull’intera squadra- che si può tradurre in un dato certo. Sebbene le statistiche non difettino anche negli altri sport è più difficile trovare un valore oggettivo che esprime, per esempio nel football, l’azione del quarterback. Naturalmente esiste una statistica che ne valuta i suoi passaggi ma nessuna di esse potrà mai calcolare l’incidenza dei compagni di squadra nello svolgimento dell’azione se non in maniera approssimativa. Pertanto nel baseball si può con un basso margine di errore capire quanto sia bravo un giocatore e quanto sia funzionale alla propria squadra guardando le sue statistiche. Quelle fondamentali che bisogna sforzarsi di mandare giù sono cinque. La media battuta o batting average AVG (si calcolano il numero di battute valide/il numero di apparizioni in base), il numero degli RBI runs-batted-in o punti battuta a casa (quando un battitore permette ad esso stesso o ad un suo compagno di segnare un punto o run), il numero dei fuori campo o home-run, HR, e, solo per quanto concerne il lanciatore, la ERA o earned-runs-average la media che valuta quanto è bravo un pitcher (ovvero quanti punti quel lanciatore concede all’attacco avversario diviso il numero degli inning giocati per nove). Per complicare le cose aggiungerei la Slugging Percentage, SLG, che misura la ‘potenza’ di un battitore relativamente al numero di basi totali guadagnate (qui c’è la formula che la spiega).

Naturalmente le statistiche dei singoli giocatori confluiscono in quelle dell’intera squadra, ma spesso per i tifosi restano due concetti separati. Diversamente non si capirebbe come mai un giocatore che fa ottimi numeri sia comunque un idolo delle folle anche se la propria squadra non è detto che sia vincente. Prendiamo, per esempio, l’epica lotta per superare il record di HR messi a segno in una sola stagione — detenuto per 37 lunghi anni da Roger Maris con 61 fuoricampo- che si disputarono nel ’98 Sammy Sosa dei Chicago Cubs e Mark McGwire dei St. Louis Cardinals. Vinse quest’ultimo con la cifra abnorme di 70 — come forse la quantità di steroidi di cui faceva uso- ma nonostante ciò i Cardinals disputarono una stagione anonima finendo terzi nella propria divison e mancando i playoff. Le gesta di McGwire, però rimarranno per sempre nella memoria collettiva di un’intera nazione.

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Questa attenzione particolare dei tifosi alle prestazioni individuali dei giocatori, durante l’epoca dei power-hitters, si può leggere, però, anche come il prodotto dell’avvento massiccio di sponsor, tv, merchandising, e agenti che per ovvie ragioni preferivano metterete in risalto i campioni piuttosto che le squadre. Resta il fatto che, indipendentemente da ciò che li rendeva attraenti, quei numeri erano il linguaggio universale utilizzato per spiegare le cose e per permettere alle leggende stesse di esistere. Ma di lì a poco tutto sarebbe cambiato.

Sul finire degli anni ’70 un tale di nome Bill James si accorse che le statistiche così come erano state concepite fino ad allora non bastavano più; o meglio: ne esistevano altre che riuscivano ad andare più in profondità tanto da arrivare a stabilire, secondo lui, l’assoluta verità sulle prestazioni di un giocatore e di una squadra sia passata che presente. Era appena nata la Sabermetrica. Gli acronimi in questo sport sono una passione con cui prima o poi bisogna fare i conti e anche questo termine non se ne sottrae. Sabermetrica deriva infatti da SABR, l’acrononimo di Society for American Baseball Research. Ben presto intorno a questa scienza , che sembrava fatta apposta per i nerd armati di equazioni e database usciti dalle università della Ivy League, si sviluppò una accolita di appassionati. David Grabiner ne scrisse il manifesto e nacque Baseball Prospectus, che diventerà la bibbia della nuova religione. Ma cosa propugna la sabermetrica e in cosa si distingue dal passato? Senza scendere nel dettaglio i sabermetrics sostengono che la AVG, per esempio, serva a poco per definire le prestazioni di un battitore e che anzi possa essere fuorviante. Se le partite di baseball si vincono segnando punti e se per segnarli bisogna andare in base allora il concetto più importante è la percentuale con cui un giocatore va in base (OBS on-base-percentage) magari riuscendo a correlarla alla potenza del battitore, la SLG, inventando così l’equazione che sta alla base della OPS (on base plus slugging). Piano piano una valanga di acronimi (BABIP, WAR, PECOTA etc etc) cominciano ad invadere il mondo del baseball e molti tifosi parimenti cominciano a storcere il naso. Ma è solo con Billie Beane, manager degli Oakland A’s che la sabermetrica entra nel mainstream, grazie ad un libro prima e un film poi intitolato ‘Moneyball — The Art of Winning an Unfair Game’.

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Beane intuisce le potenzialità che offre la sabermetrica per valutare le prestazioni dei giocatori da un punto di vista diverso rispetto a quello comunemente adottato. Scopre così che esiste una serie di atleti sottovalutati non solo dall’opinione pubblica ma perfino dagli scout e dai vari coaching-staff, che sono in grado, invece, di fare buoni numeri se analizzati con i parametri della sabermetrica. Applicare questi concetti, in un club ‘povero’ come il suo, significa scovare dei giocatori che possono garantire alte prestazioni ma che, essendo ignorati dai più, costano poco. Nel 2002 Beane sulle ali della sabermetrica, dopo aver perso stelle del calibro di Jason Giambi (2001 AL MVP), Johnny Damon e il closer Jason Isringhausen, che divenuti free-agent avevano negoziato contratti principeschi con le superpotenze Yankees, Red Sox e Cardinals, allestisce una squadra che perfino il proprio staff tecnico considerava un suicidio. La stessa squadra, invece, dopo un avvio stentato riesce a vincere 20 partite di seguito conseguendo un record per l’American League. Purtroppo la favola si interrompe ai playoff, quando la compagine californiana viene eliminata al primo turno.

Nel frattempo in puro spirito yankee la sabermetrica è diventata un’industria. Esperti della materia penetrano all’interno di pressoché tutti i management MLB per studiare prestazioni e suggerire miglioramenti; anche gli agenti dei giocatori si fanno trovare pronti e Scott Boras, uno il cui nome fa tremare i polsi dei proprietari — è di un suo assistito il contratto più pagato della storia del baseball, Alex Rodriguez $275 milioni in 10 anni con i New York Yankees- allestisce perfino un campus con tanto di personale proveniente dalla NASA o dall’MIT per catalogare giocatori e prestazioni; per non contare l’eruzione di siti web dedicati interamente alla materia con tanto di tabelle e grafici per tutti i gusti.

Eppure non tutti sono favorevoli allo smodato uso delle statistiche perché forse in esse scorgono la presunzione di comprendere e

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prevedere tutto. Ben presto l’opinione pubblica si spacca tra tradizionalisti e sabermetrics. Alla fine della scorsa stagione va in scena perfino una cruenta battaglia su chi — tra Miguel Cabrera e Mike Trout- fosse più meritevole di vincere il titolo di MVP dell’American League per l’anno 2012. Cabrera, ‘candidato’ dei tradzionalisti, non solo aveva vinto la triple crown (ovvero primo nelle classifiche di AVG, RBI e HR) per la prima volta dal 1967, ma aveva anche condotto la propria squadra, i Detroit Tigers, alla vittoria finale nelle World Series. Qualche anno fa tanto sarebbe bastato per guadagnarsi il titolo, visto che la squadra di Trout, gli Anheim Angels, non era nemmeno arrivata ai playoff. Ma evidentemente i sabermetrici non la pensavano così; statistiche alla mano sostenevano che Trout a differenza di Cabrera possedeva una migliore WAR (Wins-above-replacement) ovvero un concetto ‘metaemprico’ che misura il numero di vittorie in meno che la squadra ottiene quando quel giocatore manca, per farne risaltare in maniera inversa la sua importanza. Alla fine l’ha spuntata Cabrera ma i sabermetrici ancora non si danno pace per la sconfitta subita.

Ultima in ordine di tempo, e ripresa perfino dal New York Times, è la battuta di Ken ‘Hawk’ Harrelson, ex giocatore All-Star e adesso commentatore TV dei Chicago White Sox, il quale facendo il verso ai sabermetrics ha affermato che l’unico acronimo che conta è la TWTW (the-will-to-win).

Mark Gonzalez

Harrelson, che non è nuovo nel coniare termini stravaganti durante le sue telecronache, ha interpretato il pensiero di molti che, perfino negli spogliatoi, guardano con sospetto alla piega che sta prendendo l’applicazione della sabermetrica, che rischia in fondo di minimizzare quelle componenti ‘immateriali’ che contribuiscono parimenti al compiersi di questo sport, così come di tutti gli sport. Del resto, seppure espressione dei suoi tempi e sempre al passo con essi, il baseball resta l’icona dei valori americani e delle sue tradizioni e i tifosi, almeno all’inizio, sono restii a cambiare tradizioni e rituali; nel caso specifico anche per lo sforzo al quale sono sottoposti nella comprensione degli acronimi e delle formule che essi sottintendono. Ma la strada è segnata e tornare indietro sarà quanto mai complicato.

Nicola Palmiotto Laureato in lettere classiche per scommessa (persa), soffre d’insonnia e pertanto ha imparato ad amare gli sport americani. Odia lo slow-food e tifa per l’AS Bari (ahi-lui) e per l’AFP Giovinazzo di hockey a rotelle.

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