Benitez e il mito della caverna

Crampi Sportivi
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4 min readMay 7, 2015

Non è una vita semplice, in generale, quella del tifoso — questo fluttuare dalla preghiera alla bestemmia, dalla maledizione di tutti i morti del lignaggio di uno all’apoteosi immediata. Senza nemmeno cominciare a scomodare la questione dei cori contro il Vesuvio, la cui unica risposta naturale, da che mondo è mondo, è “La ginestra” di Leopardi, si può dire che un tifoso del Napoli fluttui un po’ più degli altri. La piazza, infatti, è calda, ribolle: vuole tutto e subito o niente del tutto, si sente ancora la capitale di qualcosa, fosse anche solo della pizza e non del Mc Donald’s, quasi non ci crede di avere un presidente incapace di far fallire la società. Si emoziona e sogna di gloria dopo due vittorie, si flagella (quasi si evira) dopo due sconfitte. Questo processo è noto, è la natura stessa del tifo, e non riguarda certo solo Napoli — tuttavia, nella gestione Benitez, stimolato da prospettive di vittoria forse inverosimili e forse, ancora peggio, disattese, s’è amplificato a dismisura.

Al primo giro a vuoto, la stagione scorsa, tutti addosso all’allenatore (“non capisce il calcio italiano”, “è troppo offensivo”, “non cura la preparazione atletica”, “è grasso!”). Al secondo, ad Agosto 2014, tutti addosso al presidente (“Pappone!”, “Tu non sei napoletano!”, “Caca i soldi, austerità!”). Da allora, la squadra stessa ha preso a emulare la psicologia del tifoso, e ha cominciato a fluttuare come un’onda: allo psicodramma iniziale, con l’uscita dalla Champions League e uno dei momenti più acuti di autismo della difesa, segue una delle migliori prestazioni degli ultimi vent’anni.

Ci siamo, si dice e si canta per strada, ora veniamo a farvi il mazzo a tarallo! E invece, una serie di pareggi fino alla sconfitta contro il cadavere del Milan (dice: siamo a un funerale, non infieriamo, facciamo i signori). Poi la gloria improvvisa della finale di Supercoppa (spoiler alert: si verifica qui la prima manifestazione dell’unica certezza), e di nuovo: stiamo arrivando, paratevi il culo voi là davanti che ce noi l’abbiamo grosso e lungo. Il 2015 inizia con un filotto di vittorie (unica eccezione la vittoria da Juve della Juve a Napoli), la squadra gira a mille, i nuovi acquisti Gabbiadini e Strinic si integrano velocemente — e di colpo il Pappone De Laurentis è di nuovo, quasi quasi, un nonno affettuoso pieno di caramelle invece che un ignavo Zio d’America.

Poi, senza uno specifico trauma scatenante, mentre il Napoli si trova a ridosso della Roma in campionato, qualificato per la semifinale di Coppa Italia e per i quarti di Europa League, il pathos oscillatorio s’impossessa di nuovo della squadra, e di rimando dell’allenatore, dei tifosi e del presidente. Il Napoli infila una lunga serie di pareggi e sconfitte, la piazza scoppia. Il Presidente allora sbotta: ritiro!

https://www.youtube.com/watch?v=vN3J0zt0G4o

Come che sia, dall’inizio della clausura, la squadra si mette a girare di nuovo, registra una prestazione for the ages a Wolfsburg, dove umilia la squadra che non molto tempo prima aveva dato quattro schiaffoni secchi al Bayern. Eccoci: per una volta il sorteggio è dalla parte degli azzurri, la finale di Europa League è vicina; Lazio e Roma rallentano, e il secondo posto torna plausibile, se non addirittura altamente probabile. Allora andiamo a Empoli carichissimi e prendiamo quattro babà al rum caraibico.

In questo caos oscillatorio, dicevo, c’è una certezza — prima di arrivarci, però, bisogna fare un passo indietro, per dare al pathos oscillatorio che affligge il Napoli la sua corretta dimensione filosofica. Dopo due anni di attenta osservazione, posso finalmente dire la verità sul doble pivote, punto nevralgico del 4231 beniteziano e fonte indefessa di gol subiti. Da integralista dogmatico qual è, sacchiano e platonico, infatti, Benitez legge e rilegge il mito della caverna. Lì dentro, mentre viene fuori il gioco della rappresentazione, un’ombra lo tradisce, e dove in mezzo era in realtà uno divennero due. Si può dire allora, con buona pace di Inler, che gli interpreti perfetti del ruolo non esistono, o se esistono sono idoli. Forse Alcibiade potrebbe piazzarsi lì in mezzo e dettare legge, ma la sua natura rischierebbe di risultare troppo avventata. Echilibrio!

Echilibrio! è anche il grido di battaglia di Britos quando imposta l’arrosto sul terrazzo di casa e nel centro sportivo a Castelvolturno. Da buon uruguagio conosce alla perfezione il rito dell’asado, dell’arrosto: distribuisce il pezzo grosso di manzo nel mezzo, lo gira e rigira perché non si bruci, perché la cottura avvenga poco a poco (sin prisa pero sin pausa), salsicce e costolette disposte sui lati a fluidificare. Pare infatti che poco prima della finale di Supercoppa con la Juve, Britos abbia riunito la squadra per un grande arrosto, per cementare l’unione, per tenere alto il morale e il colesterolo del gruppo. Poi lo si vede, durante i tempi supplementari della partita e poi ai rigori, agire come un capo ultras, calamitare le attenzioni del gruppo, orchestrarne gli umori. Quando Gargano, dopo aver segnato il rigore, si gira verso Britos e questi risponde facendogli il segno dei cojones appare, come un’epifania, l’unica certezza: è lui, Britos, detto anche Brividos, maestro dell’asado e dell’amnesia difensiva, giocatore più scarso della rosa dopo Rafael Cabral, la chiave di volta di questa squadra, il suo leader indiscusso e direttore d’orchestra — non Higuaín, detto anche Lamento o Sandra Mondaini, né Hamsik Il Capitano Triste, né Rafa Benitez detto Sancho Panza. E allora il passo successivo, la consacrazione definitiva di una squadra in preda a crisi d’identità e a fluttuazioni ondulatorie, deve passare per l’arrosto. Quando Britos, oltre all’asado rituale del Rio de la Plata, imparerà l’arte tutta partenopea del carciofo arrostito, solo allora la squadra sarà pronta per soddisfare i sogni bagnati che assediano i tifosi di notte.

https://www.youtube.com/watch?v=4Pi6HTg_loI&feature=youtu.be&t=579

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