Bicchiere mezzo Cúper

Crampi Sportivi
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11 min readFeb 7, 2017

Il destino non esiste, siamo solo noi a voler credere che ci sia un disegno più grande di cui siamo protagonisti, che ci impedisce di arrivare dove vogliamo o ci regala grandi soddisfazioni. La realtà è che non c’è nessun disegno, solo la nostra forza di volontà e una serie di eventi totalmente casuali che si incastrano, ci mettono di fronte a bivi e producono un risultato. Ma niente è scritto.

Non sappiamo come la pensi Hector Cùper in proposito, ma la sua vita professionale offre continui spunti su questo tema, ponendoci davanti a quesiti che potremmo applicare alle nostre vite, volendo: è un genio che ha portato squadre sfavorite a contendersi grandi trofei o è uno scarsone che ha bruciato ogni possibilità gli sia capitata di vincere? Come noi: siamo stimabili per aver lottato e per lottare ancora o siamo dei falliti che non riusciranno mai in niente? Il problema, in entrambi i casi, pare essere il punto di vista.

Atto primo: Genesi

Partiamo da lontano: Héctor Raúl Cúper nasce a Chàbas, nella provincia di Santa Fè, il 16 novembre del 1955. Da calciatore ha legato il suo nome al Ferro Carril con il quale, guidato da Carlos Griguol, ha vinto 2 campionati argentini. Era un difensore tecnico, piccolo ma esplosivo, con 8 presenze in nazionale e centinaia di gare tra i professionisti, culminate negli ultimi anni all’Huracàn. E proprio i bonarensi di Parque Patricios, appena decide di smettere, gli offrono la prima panchina della sua nuova carriera e, conseguentemente, di una lunga sequenza di altre storie tutte uguali. Siamo nel 1992.

Due anni dopo l’esordio del tecnico, l’Huracan di Hector Cuper arriva secondo a seguito di una lunga cavalcata in campionato. Sarebbe potuto arrivarci partendo da 5 sconfitte consecutive e poi rimontando tutti, e raggiungendo un insperato secondo posto all’ultima giornata, giusto? Sarebbe stato romantico, appropriato, avrebbe addolcito l’idea del mancato successo. E invece no: da primi in classifica, all’ultima giornata, incontrano i secondi, l’Independiente, e vengono strapazzati con un 4 a 0 quando a Cùper e ai suoi sarebbe invece bastato un pareggio, per laurearsi campioni. Due di quei quattro gol li segnò Sebastiàn Rambert, nome che probabilmente non vi dirà nulla: si tratta di un attaccante che l’Inter (perché il destino non esiste ma il caos ha uno strano senso dell’umorismo) porterà in Italia un anno più tardi e in pompa magna, tanto che il suo acquisto farà passare totalmente in secondo piano quello di un altro argentino, Javier Zanetti.

La storia di Cùper comincia qui, con la doppietta di uno dei peggiori bidoni che abbia vestito la maglia di una delle squadre nel suo futuro.

Se avete un obiettivo nella vita, anche a voi avranno detto che, prima di raggiungerlo, pare che bisogni fallire cento volte. Detta così sembra facile perché uno si immagina cento vasi di coccio da distruggere, ognuno è un fallimento. E allora si figura con in mano una mazza ferrata e, con Fear of the Dark come sottofondo, via a frantumare tutto per poi correre ridente verso l’ultimo vaso, questo di ceramica finissima, che è la riuscita, il successo.

Magari fosse così.

Perché invece nella realtà, per ogni vaso frantumato, ci tocca raccogliere i cocci, trovarli tutti, anche i frammenti più piccoli, e riporli in una scatola da cui, una volta finito tutto il percorso, dovremo riprenderli e ripararli uno ad uno. E ogni fallimento, quindi, è come una lama che si conficca nel fianco, come l’eco assillante di una sola e unica domanda: vado avanti o mi fermo qui?

Hector Cùper, “el hombre vertical”, non si ferma. Ha di fronte a sé tutta una carriera di tempo per arrivare dove vuole, per vincere, per dimostrare di essere un grande allenatore. Infatti si rialza, va al Lanùs e vince la Copa CONMEBOL, facendosi notare per un trofeo e non per i due secondi posti nell’Apertura ’95 e in quella del ’96. Ora che ha vinto lo vogliono in tanti ma è luia poter scegliere, e sceglie Palma de Mallorca.

Atto secondo: Ascesa

L’isola è bella, c’è un bel sole e parlano tutti spagnolo, è come essere a casa. In mano ha materia grezza, tutta da plasmare. Nessuno gli chiede nulla se non una salvezza tranquilla, magari uno slancio da primi 10 posti e la valorizzazione di qualche giovane. Ma poco ne sanno e poco immaginano, poiché alla guida del Maiorca Hector riesce a raggiungere un miracoloso terzo posto, ma perde purtroppo in finale di Copa del Re contro il Barcellona di Van Gaal e Rivaldo.

Ovviamente perde ai rigori, perché il caos è imprevedibile ma a Cùper regala sempre crocevia da dentro o fuori.

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La rivincita arriverà all’inizio della stagione seguente, quando se non altro la squadra di Hector si aggiudicherà la Supercoppa di Spagna. Riassumendo, dunque, a questo il bilancio dei successi e delle sconfitte è ancora in pari: due titoli persi e due vinti. Un ruolino di tutto rispetto, di fronte al quale si può vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, dipende appunto dalla prospettiva di chi osserva. Il detrattore, il pessimista, vedrà due sconfitte e il pattern del destino che si delinea, mentre lo spettatore neutrale vedrà un allenatore capace di portare la sua squadre in fondo a ogni competizione a giocarsi le sue chance.

Tuttavia la pagina più importante dell’esperienza maiorchina arriva con l’ultima Coppa delle Coppe della storia. Vi partecipano gli isolani, finalisti di coppa, perché il Barcellona è impegnato in Champions. La sgroppata pazzesca dei rossoneri, inzeppati di argentini come ha voluto il mister, si conclude a 9 minuti dai supplementari contro la Lazio. Esatto, contro la Lazio, perché il caos non segue schemi prestabiliti ma al suo opinabile senso dell’umorismo piace lasciare qui e là qualche barlume di crocevia futuri. Una sconfitta è una sconfitta, a questo punto, ma ci troviamo comunque di fronte alla domanda iniziale: quanto può essere brocco, o sfortunato, uno che porta una squadra mediocre fino alla finale di una coppa europea e la perde a pochi minuti dalla fine contro una super-corazzata?

Nuove domande, nuovi conti con se stessi. Di fronte ad un fallimento così, dopo aver costruito qualcosa di così grande, come si reagisce? Con una settimana di divano e pigiama, mangiando Nippon e bevendo qualche birra dell’est Europa comprata nel discount più vicino a casa. Poi gli amici iniziano a chiamare, piano piano si esce di casa, si ride e si prova a ricostruire un percorso per tornare li dove ci si era fermati, proprio sul più bello.

Valencia è il posto giusto. Una squadra nuova e ambiziosa con cui poter lavorare, la possibilità di investire e la Champions League da affrontare. A Cùper nessuno chiede niente di enorme, neanche li. Magari provare a vincere la Liga, ma il Real pur non essendo ancora galactico è comunque un osso troppo duro. Canizares; Carboni, Djukic, Pellegrino, Angloma; Gerard, Mendieta, Farinos; Kily Gonzales, Claudio Lopez, Juan Sanchez. La ricordiamo ancora tutti quella squadra, ricordiamo tutti quegli scalmanati che corrono e corrono, segnano e dribblano, picchiano e ripartono. Che grande squadra, che gran gioco. Perfetti. Tanto perfetti da stupire tutti, da lasciarsi alle spalle nel girone Bayern, Rangers e Psv, strapazzare la Lazio (vale come una rivincita?) che diventerà campione d’Italia, picchiare forte il Barcellona e arrivare allo Stade de France pronti a sfidare un Real Madrid che aveva invece faticato molto, rischiando di non superare neanche il girone.

Il Valencia è in finale, Hector Cùper è l’artefice di questo già di per sé importante traguardo sportivo. In questo momento storico, il 24 maggio del 2000, è ancora un allenatore talentuoso che ha fatto grandi cose a Maiorca e ora sta perfezionando le sue ambizioni a Valencia. A Parigi, quella sera, il Valencia miracoloso si spegne e in campo brillano solo i pre-galacticos di Del Bosque. 3 a 0 per i blancos e sogno Champions sgretolato.

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Più l’obiettivo è grosso e più è sonoro il tonfo che si fa cadendo. Alla maggior parte degli allenatori, anche ai più bravi, non capita di giocarsi una finale europea in tutta la carriera. Cùper ne ha già giocate e perse due, da outsider. Che si fa? Si molla tutto? Si abbassa l’asticella? Si opta per una vita normale, senza tante ambizioni, senza troppe aspettative, sperando che un giorno, magari non troppo lontano, le forze ritornino e qualcosa ci riporti davanti a quell’obiettivo ormai impolverato?

Questa opzione Hector Cùper non la considera nemmeno e l’anno dopo, pur senza Kily e Claudio Lopez, con una squadra che sembra ridimensionata ma che in realtà ha aggiunto pragmatismo, esperienza e cervello, è di nuovo in finale di Champions. Di nuovo girone dominato, qualche difficoltà con l’Arsenal, poi schiaffone al Leeds ed è ancora finale. Di forza, di impeto, come se non si potesse far altro che vendicarsi, andando contro il presunto, ostile destino. Perché l’abbiamo già detto: questo non esiste, ce lo costruiamo noi con le nostre scelte, etc. Stavolta il vantaggio è della squadra di Hector, su rigore ad inizio partita. Il pareggio arriva nel secondo tempo, sempre su rigore. I supplementari finiscono pari e si arriva lì dove nessuno vorrebbe arrivare, men che meno uno che ha già perso tre finali continentali. Affidare al caso il proprio destino: questi sono i calci di rigore. E il caso non vuole un Cùper vincente neanche stavolta. Coppa al Bayern.

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Atto terzo: Caduta

Sei caduto, ti sei rialzato, sei caduto di nuovo, da un’altezza anche più grande. Ti sei rialzato di nuovo e sei andato ancora più su, fino a sfiorare il successo ma sei caduto di nuovo, facendo un fracasso enorme e rompendoti qualche osso. E ora che si fa? Ci siamo convinti, alla fine, che questo successo non lo raggiungeremo? Che è il caso di calmarsi un attimo ed accontentarsi? Che l’ossessione è una brutta bestia? No, andiamo nel posto peggiore del mondo per quei tempi, dove in quel periodo storico non si riesce a vincere nemmeno con un Fenomeno alla guida, e quindi forse nemmeno portando il pallone con le mani in porta. Andiamo nell’Inter di Moratti, quella pre-Mancini e pre-Mourinho.

Ronaldo Luiz Nazario da Lima sarebbe stato il calciatore più forte di tutti i tempi se non fosse stato fisicamente così fragile. Poteva, veramente, vincere le partite da solo. Era mediamente professionale, soprattutto nell’epoca pre-Real, era anche un buon compagno di squadra, era il massimo del massimo che si potesse chiedere allo spirito calcistico del tempo. Come avere Messi o Cristiano Ronaldo oggi. Ma Hector Càper, “Hombre Vertical” ha le sue idee. Il campionato è quello 2001–2002, in una Serie A che parla romano da due anni abbondanti: le ultime due edizioni hanno visto trionfare Lazio e Roma, una cosa rarissima per la massima serie italiana dove l’egemonia periodica di una delle tre squadre del nord si è vista spezzata raramente e per lassi di tempo brevi, se non si torna troppo indietro con gli anni. L’Inter, quel campionato, lo morde, lo sbatte, lo carezza e lo cavalca in prima posizione all’ultima giornata. Juve e Roma alle spalle si preparano già a un tranquillo secondo e terzo posto. La Lazio, avversaria di giornata, è reduce da un campionato disastroso, giocato sempre al di sotto delle proprie possibilità. L’ultima di campionato appare una formalità, l’Inter può schierare gente come Ronaldo, Vieri, Zanetti, Cordoba e Toldo, è in una botte di ferro. È il cinque maggio.

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Vantaggio Inter. Pareggio Lazio. Vantaggio Inter. Pareggio Lazio. Poi Lazio e Lazio. All’ultima di campionato, in quella che poteva definirsi senza ombra di dubbio una finale, la squadra di Cuper non ce la fa e viene sconfitta. E stavolta non è una squadretta che sorprende e nemmeno una buona squadra che va oltre le aspettative. Stavolta è una rosa costruita con vagonate di miliardi, con il miglior giocatore del mondo e un monte ingaggi da far paura.

In quella partita Ronaldo, sostituito da Kallon a pochi minuti dal termine, scoppia in lacrime, un po’ per lo scudetto appena perso e un po’ perché ha maturato la decisione di non poter coesistere in nerazzurro con quell’uomo: o me o lui, pensa.

La società sceglie lui, nel senso dell’allenatore. Ronaldo, in verità reduce da un infortunio terribile e una tenuta fisica precaria, chiede pubblicamente di essere ceduto. Per Cùper lui era uno dei tanti, nella sua squadra non poteva esserci un singolo più importante del resto dei giocatori. Forse anche per questo decide di privarsi di Seedorf accettando uno scambio con Coco. La società gli da fiducia ma l’anno successivo è di nuovo secondo posto. L’amore è finito, gli rimarranno altre sei panchine della stagione successiva prima di venire sollevato dall’incarico prima della fine dell’annata, e anche del suo contratto.

Ora basta, penserete. Quando uno fallisce troppe volte, a un passo dal successo, non riesce più a ricominciare: incolpa il destino e accetta la propria condizione di normale, di uno tra tanti, di non vincente. Fa un passo indietro, si accontenta, non si arrampica più perché sa che cadrà di nuovo e si farà sempre più male perché è così che va il mondo.

Cùper pian piano sparisce dai riflettori e accetta sfide sempre meno ambiziose: salvare il suo Maiorca, sperimentare il campionato croato, traghettare il Betis a una salvezza tranquilla, salvare il Parma e guidare la nazionale georgiana: tutte cose che non gli riescono granché bene. Per trovare una nuova occasione, piccolina, se ne va in Grecia dove porta l’Aris di Salonicco in finale della coppa nazionale. Ma ormai gira così, questo bilancino del successo non si riesce proprio a rimetterlo in pari: perde anche quella e se ne va.

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Epilogo

L’ennesimo ritorno in Liga coincide con il tracollo dell’immagine di uomo forte e perbene: viene infatti indagato in una vicenda di calcioscommesse, per cui sembra abbia dato delle soffiate alla camorra su alcuni risultati della sua squadra. Uno di questi risultati, peraltro, non si concretizza e Cùper riceve una “visita” da un capoclan che lo redarguisce, probabilmente con toni pacati e di fronte ad un bicchiere di brandy. Qualche tempo dopo verrà accusato di riciclaggio di denaro sporco.

Il campionato turco è solo l’anticamera degli Emirati che nel gergo calcistico significano solo una cosa: la tua carriera è ormai finita. Non importa se vincerai qualcosa, se farai bene o male, rispetto al “calcio vero” è come giocare un torneo tra amici, solo coperto di banconote. Di Héctor Raúl Cúper non parla più nessuno, ogni tanto il suo nome riecheggia nel marasma degli amarcord, ma oggi non c’è più. Infatti quasi nessuno sa che dal 2015 allena la nazionale egiziana.

A questo punto, se questo fosse un film, ci sarebbe una dissolvenza al nero e tre secondi di silenzio. Poi stacco improvviso su Cùper che siede sulla panchina dell’Egitto: è la finale di coppa d’Africa. Di fronte c’è il Camerun. Improvvisamente il mondo si è ricordato di quell’allenatore argentino in grado di portare qualsiasi outsider a giocarsi il titolo. Tutti, dal primo all’ultimo, si augurano che quel signore dai capelli bianchi possa alzare quel trofeo. Tutto è pronto, l’arbitro fischia l’inizio. La telecamera riprende lo stadio e, in un piano sequenza, si avvicina sempre più, all’uomo in panchina. Il movimento si conclude con un primo piano di Héctor Raúl Cúper che prima guarda il campo, poi in macchina. Sorride, e con la testa fa cenno di no.

Fine.

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