Bisogna saper perdere (per vincere?)

Simone Nebbia
Crampi Sportivi
Published in
3 min readJul 16, 2017

14ª tappa — 15 luglio
Blagnac > Rodez 181,5 km
Vincitore: Michael Matthews
Leader: Chris Froome

Allora ricominciamo da capo. Lo sport divide le sue discipline in sport individuali e sport di squadra. Queste proprio le basi della conoscenza. Là dove ci si trovi di fronte al caso di un atleta che misura sé stesso con un avversario altro o contro un elemento come può essere il tempo, la quantità, lo spazio, allora ci troviamo nell’ambito degli sport individuali; quando invece un gruppo di individui forma un team con il fine di fronteggiare lo stesso esemplare di competitività, in una forma di collaborazione complessiva attorno al comune obiettivo, siamo nell’orbita degli sport definiti di squadra. Tutto chiaro?

No. In verità no. Perché fatta la regola esistono le eccezioni. A pedali. Il ciclismo si segnala come una delle anomalie di sistema, una forma ibrida che contempla l’uno e l’altro campo, nell’esercitazione pratica del suo sviluppo: esiste il corridore singolo — colui cioè che affronta a testa bassa e denti stretti salite discese e pianure, per vincere corse di un giorno o tour di settimane in cui il tempo viene considerato cumulativo tappa dopo tappa — e la squadra fatta di altri corridori, ognuno con un proprio ruolo gregario affinché il singolo arrivi nel modo più semplice e comodo a giocarsi la vittoria. Tutto chiaro?

E no, ancora una volta non ci siamo. Perché se ci troviamo di fronte a uno sport individuale, la squadra ha un’importanza relativa e il singolo è in grado di vincere anche da solo contro un team anche ben composto; ma se ci troviamo in uno sport di squadra, allora il singolo soffrirà di avere una squadra che difetterà non solo nelle doti — il che sarebbe normale amministrazione di diversi livelli qualitativi — ma anche in quantità, meglio ancora in numero di elementi che potranno aiutarlo nella “comune” — detto con un certo eufemismo — impresa. Tutto chiaro?

E insomma, no, mi sa di no. Perché se nelle corse in linea di un solo giorno il singolo può anche non avere una squadra al servizio e giocarsi come jolly la propria tattica di gara, nelle corse a tappe senza una squadra, o con una disparità evidente tra la propria e quella avversaria, vincere è impresa assai ardua. Perché anche in una tappa tutto sommato breve come quella che da Blagnac portava fino a Rodez, di 181,5 km, il ritmo forsennato fa una selezione là dove nessuno se la sarebbe aspettata e la maglia gialla, in un giorno nervoso ma tutto sommato interlocutorio, cambia misura di spalle e da Fabio Aru — senza tutto il resto dell’Astana — torna a Chris Froome — sostenuto da un Team Sky compatto e nutrito. Tutto chiaro dunque?

No, proprio no. Perché in una tappa come questa e con l’ultima settimana ancora da correre prima dei classici Champs-Élysées, con ancora da affrontare tappe molto difficili e in difetto palese di forze in campo, a volte per vincere si deve cercare di perdere, tornando in una posizione defilata da attaccante. E non da attaccato. Chissà mai che l’Astana non abbia immaginato tutto questo perché perdendo la battaglia ha intenzione di vincere la guerra, pur se la condizione di Aru, che cede secondi preziosi un po’ a tutti sul traguardo tagliato per primo da Michael Matthews, ha lasciato qualche sospetto di tenuta. Ma se anche questo fosse un trucco? Se anche questo non fosse chiaro? Sarebbe, del ciclismo, l’ennesima straordinaria anomalia.

--

--