Bora Milutinovic, cittadino sotto ogni cielo

Crampi Sportivi
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4 min readFeb 2, 2016

Illustrazione di Mathew Kurian/The National

«Amo il football ma ho sempre con me la valigia pronta».

Esistono alcuni, non molti, principi imprescindibili che ci formano e guidano le nostre scelte, le nostre decisioni in un modo che percepiamo come lineare.
Basterebbero queste parole per descrivere la vita di Bora, o meglio le linee guida di quella dell’allenatore serbo: l’amore per il calcio e il viaggio.

Bora Milutinovic, all’anagrafe Velibor, nasce a Bajina Bašta, nel 1944 nell’ attuale Serbia. Ma diventerà messicano, come pochi altri uomini prima di lui, anzi, forse come nessuno prima di lui. Prima di intraprendere la carriera da allenatore, o più spesso da commissario tecnico, è stato un modesto centrocampista, con un altrettanto discreto bagaglio di esperienze in Francia.
Inizia la sua carriera da allenatore nel 1977, con i Pumas (UNAM), ma è come commissario tecnico del Messico che si presenta al mondo.

Al campionato del mondo “casalingo” del 1986 riesce a far qualificare la propria nazionale, conducendola fino ai quarti di finale; il Messico si arrende solo alla Germania Ovest (2° in quel mondiale) e solo dopo i calci di rigore; niente male per essere alla prima esperienza internazionale, ma Bora lascerà la panchina in quello stesso 1986; il tempo necessario per riprendersi dalle fatiche di uno storico traguardo allenando due squadre di club: San Lorenzo e Almagro e poi Udinese.

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La sua doppia esperienza argentina e italiana, però, dura solo lo spazio di un mondiale. Nel 1990, infatti, lo ritroviamo sulla panchina del Costa Rica, esperienza che ha dell’incredibile. La nazionale del 1990 è una squadra composta da giocatori che non solo non avevano mai giocato all’estero, ma che non avevano neanche mai abbandonato il territorio nazionale: come ricorda Milutinovic stesso, si dovette procedere alla richiesta dei passaporti per i giocatori.

Era la prima volta in assoluto che quella nazionale si qualificava per le fasi finali del campionato del mondo. Esprimendo in conferenza stampa, di fronte ad una platea di addetti ai lavori sbigottita, tutta la sua sicurezza sul passaggio del turno della propria squadra, nuovamente, Bora, si prepara a sorprendere con la solita Cenerentola del torneo.

Dopo un esordio vincente contro la Scozia i Ticos perdono contro il Brasile in una partita al Delle Alpi in cui si presentano a corto di divise, tanto che lo stesso Milutinovic dovette chiedere a Boniperti delle maglie di riserva, e che portavano gli stessi colori sociali della squadra presso la quale Boniperti era di casa. Così davanti al mondo incredulo si presentarono 11 giocatori vestiti con i colori che per la stragrande maggioranza dei tifosi erano quelli abituali di ogni domenica pomeriggio; incitati dalla folla resero difficile la vita dei brasiliani (22 tiri contro gli zero tentativi della Costa Rica), si piegarono solo a causa di un autogol de ‘el Chunche’ Montero.

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Nella partita decisiva per la qualificazione alle fasi eliminatorie del torneo, trova davanti a sé una Svezia convinta della goleada e della sua indiscutibile superiorità, ma in ogni caso finisce 2 a 1 per i Costaricensi, che approdano agli ottavi di finale.

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Bora allenerà per i successivi due mondiali: Stati Uniti (paese organizzatore del mondiale 1994) e Nigeria; con entrambe si qualificherà alle fasi eliminatorie del torneo, e con entrambe le sue nazionali verrà eliminato agli ottavi di finale; ma è l’avventura con la Nigeria, nei mondiali di Francia ’98, che rappresenta una vera e propria delusione per il serbo: per la prima volta nella mente di Bora fa breccia qualche dubbio sul proprio operato e sulla validità della sua missione.

Egli era infatti riuscito, per l’ennesima volta, a far assumere alla propria nazionale il ruolo di outsider del torneo, ma stavolta con una squadra piena di talenti (West, Okocha, Babangida, Kanu), una squadra di cui aveva collaudato i meccanismi, era stato capace di mettere insieme tutti quei diamanti grezzi imponendogli il rispetto delle posizioni e una parvenza tattica che quando viene meno, e lo si intravede chiaramente proprio in quegli ottavi contro la Danimarca, fa inceppare tutto il meccanismo, nonostante le Super Eagles fossero riuscite a regolare sia Spagna che Bulgaria durante i gironi, presentandosi agli ottavi di finale come la più classica delle mine vaganti proprio per il gioco espresso.

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La delusione per l’avventura nigeriana può essere smaltita solo in un modo dal grande Bora, vale a dire con l’ennesima impresa impossibile, con un nuovo salto nel vuoto, ed è così che Milutinovic diventa il nuovo allenatore della nazionale cinese.

«Prima del Mondiale entrai in una chiesa per parlare con Dio. Mi ha chiesto: cosa vuoi, Bora? E ho risposto: segnare come la Francia! E Dio mantenne la parola. Francia e Cina furono, in questo Mondiale, le uniche due squadre a non segnare gol. Certo che io mi riferivo a realizzare gli stessi gol della Francia nel 1998».

L’avventura cinese di Bora Milutinovic si conclude alla fase a gironi del mondiale di Corea e Giappone 2002, dopo tre sconfitte consecutive, senza nemmeno l’ombra di un gol, ma questo ha poca importanza. Ciò che rimane, invece, è che la Cina si qualifica per la sua prima volta ai gironi di un mondiale, che Bora entra, in questo modo, nella leggenda del calcio asiatico, e che raggiunge per la quinta volta consecutiva con cinque nazionali diverse le fasi finali del torneo di calcio più prestigioso; impresa eguagliata solo da un altro grande allenatore, Felipe Scolari. Della vita di un uomo del genere, non si può che raccontarne solo un segmento, un lasso di tempo circoscritto, come una breve pausa tra le esperienze che formano la sua vita, la vita di un cittadino sotto ogni cielo.

Articolo a cura di Danilo De Sensi

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