Bradbury, l’uomo che gli dei vollero sull’Olimpo

Chiara Di Paola
Crampi Sportivi
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5 min readJan 10, 2018

Olimpiadi invernali 2002: Salt Lake City, disciplina Short track. Steven Bradbury, pattinatore australiano dai capelli biondo platino sparati in aria, naso affilato e sopracciglia arcuate, torna a gareggiare in un’Olimpiade dopo aver rischiato, per ben due volte, la vita: una profonda ferita all’arteria femorale e la frattura del collo nel 2001, sembravano (o forse era così) aver compromesso la carriera di un atleta piuttosto promettente, ma che si presenta a Salt Lake City come uno tra i tanti, andato oltre le aspettative per essersi qualificato ai quarti di finale.

“A parte Bradbury, che sembra essere un gradino sotto, gli altri tre se la giocano”. A dirlo è la voce del commentatore televisivo, apprestandosi a raccontare una manche che sembra quindi piuttosto scontata, anche per lo sfavorito di turno.

Al via, come da pronostico, Steven non parte benissimo e si colloca subito in ultima posizione, dando poco da pensare ai tre là davanti, che invece fanno a spallate fino alla fine. Bradbury arriva ultimo e così sembrerebbe chiudersi la sua avventura olimpica: a traguardo già tagliato, però, arriva la notizia della squalifica di Marc Gagnon. Dovreste vedere la faccia di quest’australiano miracolato mentre esce gongolante dalla pista.

Nello short track le cadute e le squalifiche all’ultimo secondo non sono certo una novità, ma per lui — fortunato già ad aver partecipato a questa competizione, per non dire a essere ancora vivo — la semifinale è un risultato più che soddisfacente.

Semifinale sia, dunque. Si qualificano all’ultima gara i due vincitori di questo turno di corsa. Steven Bradbury parte malissimo ed è — neanche a dirlo — ultimo per tutta la gara, ma a due giri dal traguardo la ruota della fortuna gira ancora una volta dalla sua parte. Il penultimo in gara scivola in curva e permette a Steven di collocarsi in quarta posizione. Ancora troppo poco, la fortuna lo sa e così completa l’opera nel migliore dei modi. Nel giro finale cadono i due in testa alla corsa e la quarta posizione si trasforma in seconda: Bradbury alza le braccia al cielo e vola in finale.

Se prima gongolava, ora il sorriso è smagliante.

Va bene la fortuna, ma questo ragazzo sembra protetto da una schiera di santi in paradiso. Di sicuro c’è qualcuno di forte lassù a fare il tifo per lui: ai quarti ci ha pensato una squalifica, mentre in semifinale gli serviva il secondo piazzamento e — in una qualche maniera — secondo è arrivato.

Per vincere la finale, invece, c’è un unico modo, ma il pensiero che questo pattinatore — che doveva essere eliminato ai quarti di finale — possa conquistare un oro olimpico, non sfiora nessuno, nemmeno per un attimo. Il destino ha già giocato abbastanza per lui: alle Olimpiadi vincono i campioni, non le macchiette o quelli baciati dal cielo.

“Apolo Anton Ohno si limiterà a vincere” commenta senza lasciare speranze agli avversari l’ex pattinatore azzurro Diego Cattani, in co-conduzione per la finale di questa gara olimpica. La sorte ha fatto il suo, ora tocca a Bradbury.

Pronti, via. La finale inizia ma Steven ancora una volta sbaglia l’avvio di gara e — dall’ultima posizione, quella che più gli compete — corre quasi con sereno distacco. Ma, e forse lui lo sa, l’ultima posizione è anche quella che paradossalmente gli ha sempre consentito di vincere. Lui la guarda quasi da lontano la corsa finale di Salt Lake City, lascia che siano gli altri a impensierirsi e sbracciarsi fra di loro. A due giri alla fine, ci siamo. Bradbury è ancora in coda al trenino di gara.

Ultimo giro. Bradbury è ancora in coda, ma la fortuna non ci sta e così, a pochi, pochissimi metri dal traguardo, a un passo (mai così letterale) dal sogno olimpico, non uno, non due, non tre, ma tutti e quattro i pattinatori davanti a Bradbury scivolano rovinosamente; provano a rialzarsi ma lui — con la serenità di chi ci è abituato, di chi forse lo sapeva — li guarda a terra e taglia il traguardo.

Il secondo si rialza con un tentativo disperato: “No, Bradbury, fermati!”.

Oro olimpico. Oro. Olimpico. La fortuna ha sentenziato, il primato è tutto suo. Non gongola come ai quarti, non sorride come in semifinale, stavolta anche lui esulta sbalordito. Nel palazzetto sono tutti, davvero tutti esterrefatti: commentatori, pubblico, avversari… non ci crede nessuno. “Non ero sicuro di cosa avrei dovuto fare… se avrei dovuto festeggiare o nascondermi in un angolo”, dichiarerà lui stesso. Bradbury è anche, in fin dei conti, il primo ad aver capito il significato del premio che la Fortuna quel giorno ha scelto di fargli.

“Non ero certamente il più veloce, ma non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara. L’ho vinta dopo un decennio di calvario”.

Ingiustizia o giustizia? Se lo chiedono tutti. Ironia o ammirazione? Macchietta o campione? Dove ha soffiato la fortuna? Forse, verrebbe da dire, avevano ragione gli antichi greci, non a caso inventori dei Giochi Olimpici, quando parlavano di Tiche. Destino, sorte, fato, provvidenza, disegno, fortuna. Figlia di Oceano e Teti, Tiche determina il destino degli uomini non secondo un potere cieco e casuale, ma secondo il volere di Zeus. Tale destino ha scelto di affidare la medaglia più prestigiosa che uno sportivo potesse sognare a chi — quei sogni — li ha portati avanti nonostante tutto. Nonostante due incidenti quasi mortali, un decennio di calvario; nonostante ogni pronostico, ogni campione.

Tornato in patria e accolto — come vuole ogni mito — dai migliori onori (francobolli a lui dedicati, libri, interviste), “The Last Man Standing” è lì a ricordare a tutti che non è vero che vincono solo i campioni; che non sempre i pronostici hanno ragione, che la fortuna soffia con una direzione ben precisa. E che, a volte, i miti sono ancora realtà.

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Chiara Di Paola
Crampi Sportivi

Calcio e montagna. Penna e radio. Redattrice di Rete Sport, studentessa di Lettere all’Università La Sapienza di Roma, appassionata di sport e scrittura