Camminando verso l’utopia — Roman Riquelme

Crampi Sportivi
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8 min readFeb 6, 2015

«Ella [la Utopía] está en el horizonte. Me acerco dos pasos, ella se aleja dos pasos. Camino diez pasos y el horizonte se corre diez pasos más para allá. Por mucho que camine, nunca la alcanzaré».

«L’utopia è come l’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per due passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai».

(Eduardo Galeano, da “Parole in cammino”)

La vita e la carriera di Juan Román Riquelme sono una lunga camminata verso l’utopia. L’utopia dell’eleganza nell’era della forza; l’utopia di un sogno che dà luce alla tristezza; l’utopia di camminare mentre tutti gli altri corrono. Riquelme è stato “el verdadero” e, come dicono in Argentina, “El ultimo diez”: il vero, e l’ultimo, numero 10. Non perché siano spariti il talento, la classe, la bellezza dal gioco: i lampi di armonia non mancheranno mai. Ma il calcio di oggi si è evoluto verso schemi rigidi e ritmi frenetici: ha guadagnato di intensità e spettacolo globale, ma nel suo divenire ha lasciato qualcosa. Anzi, il futbol ha sacrificato proprio il fiore più prezioso, l’ars gratia artis del primo secolo di storia: la figura, il ruolo, l’essenza del numero 10. Il 10 di ieri aveva prerogative sacre, come un sacerdote dell’antica Roma. Non difendeva, perché altri portavano l’acqua. Non aveva l’obbligo della costanza, perché gli bastava un solo colpo. Usciva dalla categoria del “funzionale”, rientrava tra i privilegiati del “geniale”. Oggi è diverso. Il 10 moderno ha tocco di palla, visione e dribbling, ma anche forza, velocità e soprattutto spirito di sacrificio. Può non godere della sfera per minuti, spesso ripiega tra le linee o s’immalinconisce su un lato del palcoscenico per aiutare la fase difensiva. Il numero 10 è diventato più completo, ma in fondo così simile a un 7, un 8 o un 11 da aver perso il suo fascino geloso. E ora ha smarrito anche l’ultimo ricordo della sua purezza: il genio e il passo lento del Ultimo Diez.

Villarreal, 26 aprile 2006. È la notte più vicina all’utopia. Riquelme ha 28 anni, è in Europa da 4. È il faro di un gruppo di gatti senza collare che da un paesotto della Comunità Autonoma di Valencia vuole arrivare in cima all’Europa. Utopia. È la semifinale di Champions, gara di ritorno, e il Sottomarino Giallo ospita l’Arsenal più bella degli ultimi 20 anni. I Gunners espongono un 4–2–3–1: Henry davanti, dietro Reyes, Hleb, Ljungberg. Gilberto Silva tiene le chiavi, un baby Fabregas gli scorrazza di fianco. In panchina, per dire, ci sono Pirés e Van Persie. Gli altri, invece, rattoppano un 4–3–1–2. In mediana Josico, Marcos Senna e Sorín. Davanti Forlán, scarto del Man U, con “Guille” Franco. Nel mezzo lui, reietto del Barça. Dalla panchina, per dire, si alzano José Mari (altro scarto, del Milan) e Roger García. Roger ha il 10, ma non È il 10. Il 10 è Riquelme. L’ingegner Manuel Pellegrini, l’alchimista di quella squadra, lo ha messo nelle condizioni di fare ciò che vuole. Non è una Champions spettacolare: dai quarti alla finale i gol segnati sono solo 17, la metà esatta dell’ultima edizione (34). Ma è un’edizione bellissima, piena di equilibrio. Il Villarreal ha passato un girone di ferro (Manchester United, Benfica e Lille) con 3 gol fatti e 1 subito (sic). Tre 0–0, due vittorie per 1–0 e un pareggio 1–1. Passa ottavi e quarti per differenza reti: prima i Rangers, poi l’Inter. A San Siro i nerazzurri vincono facile, 2 a 1, e al ritorno sono in controllo. Ma a metà ripresa c’è una punizione dalla trequarti, e Riquelme pennella un destro malizioso. Al 10 basta un colpo. Toldo è fuori tempo, Rodolfo Arruabarrena spegne i sogni di Adriano. Il Madrigàl, come si vede da questa splendida ripresa, divampa.

Semifinale, stessa storia. Un solo gol incassato ad Highbury, da Kolo Touré. La banda scalcagnata di Pellegrini lotta fino alla fine. E all’ultimo, Clichy stende goffamente José Mari. Rigore. È il pallone del 10. Se segna, supplementari. E poi, chissà. L’orizzonte si avvicina. Riquelme va sul dischetto con l’aria tormentata. Davanti a sé un mulino a vento biondo, Jens Lehmann. Rincorsa troppo lunga, rigore troppo molle. Parato. Riquelme immobile mentre gli altri si contendono il rimpallo. È finita, l’orizzonte è sempre là. Irraggiungibile, come la Finale. Vince il Barcellona di Ronaldinho, l’Arsenal dei francesi cade a Parigi per mano di Belletti (perché a volte la realtà è più assurda dell’utopia).

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Riavvolgiamo il nastro. La prima utopia della vita di Juan Román Riquelme è uscire dalla povertà in cui vive con la sua famiglia. Gli andrà meglio che con la Champions League. Lo racconta Paolo Condò, in tre tweet meravigliosi che dicono molto della carriera di Riquelme.

Riquelme nasce a San Fernando, un’ora di auto dal centro di Buenos Aires. Tifa Tigre, la squadra del Dipartimento, ma lo notano subito gli osservatori della capitale. A 14 anni lo chiama l’Argentinos Juniors, il settore giovanile che ha formato tanti campioni tra cui un tale Diego Armando. Prima ancora che diventi professionista, Boca e River sono sulle sue tracce. Sembra destinato ai Millionarios ma sceglie il blu e oro degli Xeneizes. Come Diego. E qui è un altro incontro con l’utopia. Come tanti ragazzi della sua generazione, come Aimar, Ortega, Verón, Saviola, anche Riquelme ha l’utopia di essere l’erede di Maradona. E la storia comincia da predestinato. Il 25 ottobre 1997 Maradona, stanco e sovrappeso, gioca l’ultima partita della sua carriera. È il Superclasico tra Boca e River. Il Boca è sotto 1 a 0, nell’intervallo il mister Hèctor Veira toglie Diego e mette Román. Ha il numero 20, due volte 10. E due sono anche i gol del Boca, che rimonta e vince. Maradona si ritira cinque giorni dopo, e quel cambio nell’intervallo sembra l’ovvio passaggio di testimone.

https://www.youtube.com/watch?v=XHPlUvy-70c

E invece no, Diego è troppo lontano. Anche Riquelme, come gli altri della sua generazione, come in parte Leo Messi, vive schiacciato dal fardello di non essere Maradona. L’inzio di carriera, peraltro, è follemente simile. In nazionale, Diego e Román vincono il Mondiale Under 20 in terra asiatica (Giappone 1979, Malesia 1997). Nei club cominciano dall’Argentinos, poi giocano nel Boca, nel Barça e quindi in una squadra europea di fascia media: Napoli per El Pibe, Villarreal per El Mudo (tenete aperta l’icona sul soprannome). Solo che Diego diventa Diego. Román sbaglia quel rigore maledetto, rompe con Pellegrini, torna in Argentina. Dalla fine del 2007 sarà solo Argentina, sei anni al Boca e l’ultimo all’Argentinos. Sette stagioni di perle preziose, ma il treno per l’Olimpo, ormai, non ferma più.

Non che Riquelme vada ricordato come un giocatore mediocre, bello ed elegante ma poco più. Per nulla. Riquelme ha guardato il calcio mondiale dal basso in alto, e lo ha fatto nel biennio d’oro del Boca all’inizio del nuovo millennio. Sotto la guida di Carlos Bianchi quel Boca è una corazzata gagliarda, la più classica delle squadre sudamericane grintose e indomite, e Román la fonte del talento. Vincono tutto: tre campionati (due Apertura e un Clausura), due Libertadores, una coppa Intercontinentale. Il trionfo di Tokyo, nel 2000, è l’apoteosi del Boca e del suo diez. L’avversario è il grande Real Madrid, che con l’acquisto di Luis Figo è entrato nell’era dei Galacticos. Il Boca ammazza la partita, due gol di Martìn Palermo nei primi 5 minuti. Il secondo nasce da un lancio di 60 metri di Riquelme, la palla calciata sotto, così che dopo il rimbalzo frena e non scivola verso il portiere: Palermo deve solo scaricare il suo mancino alle spalle di Casillas. Roberto Carlos accorcia già all’11’, ma la difesa xeneize non si fa impressionare dalla brillantina merengue. È trionfo, e il mondo è stregato da quel 22enne con la faccia già vecchia, col passo e lo sguardo del leader consumato.

L’anno seguente, un gol di Samuel Koffour nei supplementari regala la Coppa al Bayern. Dannati tedeschi. Román però è sui taccuini di tutti gli scout: finisce al Barça nell’estate successiva, ma si fermerà solo un anno. Il fatto strano è che al termine di quel biennio magico, Riquelme non prende parte al Mondiale di Corea e Giappone. Il sentiero che ha il colore albiceleste della nazionale argentina, luccicante dell’oro della Coppa del Mondo, è un altro su cui Riquelme ha camminato verso l’utopia. Nel 2002 El loco Bielsa, l’allenatore che oggi fa impazzire Marsiglia, aveva uno squadrone ma non convocò Riquelme: il suo 3–3–1–3 non prevedeva un “10” classico. Loco, e sfortunato: a casa dopo il girone. Nel 2006 invece Riquelme ci sarà, dopo la grande stagione di Villarreal. José Pekerman plasma la squadra a immagine di Román, gli affida anche il numero giusto. Dopo un gran girone, l’Argentina soffre col Messico ed esce contro la Germania. Riquelme viene sostituito da Estebàn Cambiasso a metà ripresa; si arriva ai rigori, e in porta c’è sempre lui, il mulino a vento che oscura l’orizzonte: Jens Lehmann. L’errore decisivo è proprio di Cambiasso. Sarà l’unico Mondiale di Riquelme: nel 2010 sarebbe ancora in buone condizioni, ha fatto da chioccia a Messi e Di Marìa nella vittoria olimpica di Pechino 2008. Ma al timone c’è Maradona, e le strade dei due idoli della Bombonera si incrociano di nuovo. Stavolta, però, niente staffetta all’intervallo, ma muro contro muro. Diego non chiama Román, Román dice in tv che «io e Maradona non andiamo molto d’accordo, non abbiamo gli stessi principi. Finchè lui è l’allenatore, non lavoreremo insieme». Amen. Nonostante una campagna di stampa fortissima, Maradona non torna sui suoi passi. Il 10 finisce a Messi, la Selección è travolta dalla Germania. Capiterà ancora, citofonare a casa Sabella. Ma per Riquelme, l’occasione di giocare la Coppa non capiterà più. Utopia.

Riquelme ha inseguito un’altra grande utopia per tutta la sua carriera. Parlare solo coi piedi, in un mondo pieno di parole inutili. El Mudo, dicevamo: Il Muto. Poche dichiarazioni, fuori e dentro il campo. Entrava sul rettangolo verde, zitto, sempre con le scarpe slacciate, e le stringeva solitario al centro del campo prima che iniziasse la danza. Ascoltava lo stadio fremere, invocare il suo nome. Poi cominciava la partita, e per il Muto parlava l’eleganza del tocco, la precisione del lancio, la sapienza della geometria. Solo in un’occasione lo si vedeva urlare: dopo un gol su punizione alla Bombonera. Una delle sue punizioni perfette, dolci come il miele, tagliate come la pietra, che si infilavano chirurgiche e lievi. Come questa,:

https://www.youtube.com/watch?v=mWfUsNdOJqY

https://www.youtube.com/watch?v=Ek0aoSsz8TA

Attenzione, Riquelme non urlava sempre, dopo una punizione. Per esempio, nel 2000 segna questo golletto al River, al Monumental, in Libertadores. Esulta come al solito, corsa e braccia larghe. Ma è muto, non urla.

https://www.youtube.com/watch?v=yqpjCi444jc

Una frase straordinaria, pronunciata da Jorge Valdano, ha descritto Riquelme meglio di qualsiasi saggio o libro. «En la época de las autopistas, Riquelme prefiere viajar mirando el paisaje, más interesado por el camino que por la llegada». «Nell’età delle autostrade, Riquelme preferisce viaggiare guardando il paesaggio, più interessato al cammino che alla meta». Ritorna spesso questa immagine del cammino. E non solo perché al Mudo, in campo, di correre non andava proprio. Lo dice anche Galeano, con la frase che completa l’aforisma da cui eravamo partiti in questa passeggiata nella vita e nella carriera di Juan Román Riquelme:

«A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare»

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