Campione per dono, non per scelta

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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7 min readNov 25, 2014

Se la sua storia potesse esser raccontata tramite un libro, sarebbe un romanzo di formazione. Uno di quelli che ti fanno analizzare al microscopio al liceo, nel quale il protagonista passa attraverso varie fasi della sua vita nel suo viaggio verso l’età adulta.

Lewis Hamilton si è aggiudicato domenica il suo secondo titolo Mondiale ad Abu Dhabi, il primo su una macchina della casa di Stoccarda dopo 59 anni. L’ultimo fu un certo Juan Manuel Fangio.

Non solo come uomo, ma come pilota, Hamilton è maturato e di strada ne ha dovuta far tanta per arrivare fino a questo punto. Viene in mente un passaggio di “On The Road” di Jack Kerouac:

«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati».

«Dove andiamo?»

«Non lo so, ma dobbiamo andare».

Hamilton rappresenta quel personaggio un po’ irrequieto che da qualche parte doveva andare per crescere, per soddisfare quell’irrefrenabilità che spesso lo ha condannato all’errore nella sua carriera in Formula 1. Ora che è andato in Mercedes, dopo un viaggio di tanti anni con la McLaren, sembra aver raggiunto la sua meta, dimostrandosi il più forte tra i piloti in circolazione.

Predominio

Partiamo da un dato: la Mercedes è stata debordante. Poche macchine hanno dominato con tale forza in Formula 1. Basta qualche dato: quest’anno Rosberg ha fatto undici pole position, Hamilton sette. L’unico degli altri venti piloti a ottenere la piazzola più importante in una qualifica è stato Felipe Massa in Austria con la Williams. L’ultima volta che negli anni recenti solo tre piloti avevano ottenuto la pole è stato il 2011, quando la Red Bull ha dominato con Vettel e Webber, mentre è toccato proprio a Lewis Hamilton essere “l’unico degli altri”. Ed è comunque una statistica che si è ripetuta solo sei volte negli ultimi trent’anni.

Lo scenario diventa più desolante se guardiamo le vittorie. Quest’anno i piloti a trionfare in almeno una gara sono stati solo tre: i due della Mercedes più Daniel Ricciardo, che si fregia di tre primi posti. Qui il dato diventa più pesante dal punto di vista storico. La statistica si è ripetuta solamente nel 1988, quando la McLaren-Honda ottiene 15 vittorie su 16 gare. L’unico a batterla almeno una volta in quella stagione è stato Gerhard Berger, che vince a Monza con la Ferrari. I parallelismi, però, non sono finiti qui.

A questo vanno aggiunte le doppiette (11), le prime file in qualifica (12) e la percentuale di gare a podio della casa di Stoccarda (64,5%). Agli altri sono rimaste le briciole. Nonostante le statistiche raccontino un’egemonia, in realtà il Mondiale è rimasto aperto fino alla fine. Al contrario dei domini targati Williams, Ferrari e Red Bull, nel 2014 ci sono stati due piloti competitivi a combattersi. Viene in mente il paragone con la McLaren-Honda a cavallo tra anni ’80 e ’90, anche se due come Senna e Prost non sappiamo se nasceranno ancora — figuriamoci capitare nella stessa epoca e squadra.

Sbagliando s’impara

Prima di entrare in Formula 1, Lewis Hamilton è stato un figlioccio sportivo di Ron Dennis. La McLaren ha sempre guardato con attenzione alla sua carriera prima nei kart, poi in GP2, dove ha vinto il campionato nel 2006. Entrato in F1 l’anno successivo, l’inglese si è giocato subito il titolo Mondiale e ha messo nell’angolo il bi-campione uscente Fernando Alonso, all’epoca suo (stupito) compagno di squadra. Nel 2008, il 23enne Hamilton diventa campione in un finale mozzafiato sulla pista di Interlagos.

Nonostante una velocità straordinaria e un Mondiale in bacheca, i rimpianti per Hamilton sono stati tanti. Al suo primo anno in F1, si gioca il titolo ma lo perde con due errori madornali nelle ultime due gare in Cina e Brasile. Nel settembre 2010 è in testa, ma quella voglia di spingere a tutti i costi lo tradisce e lo costringe a un paio di ritiri decisivi. Nel 2012, la testa ci sarebbe, ma è la macchina a tradirlo: ritiri per cause tecniche a Singapore e Abu Dhabi, quando è in testa a entrambe le gare. Se ci mettiamo anche la collisione con Hulkenberg in Brasile quando è primo, sono 75 punti che avrebbero potuto cambiare la sorte di quel campionato.

Quello che ha sempre identificato Hamilton è il tentativo, durante le gare, di mantenere una velocità sempre al limite, anche a costo di: a) di tamponare qualcuno all’uscita dei box; b) sbagliare l’entrata dei box; c) ingaggiare un duello di contatti con Massa durante tutto il 2011; d) avere contrasti duri con i proprio compagni; e) sbagliare box ed entrare in quello della tua vecchia squadra.

Il peggior anno in F1 di Hamilton si caratterizza per le beghe con Felipe Massa, l’uomo che è stato campione del Mondo per 10" prima che lo diventasse lui.

The Decision

Se Lewis Hamilton potesse esser accostato a un’altra star dello sport mondiale, forse il paragone più immediato sarebbe con LeBron James. La stella dei Cavs decide nel 2010 che è tempo di lasciare casa — quindi Cleveland — e dimostrare che possa vincere altrove. Una volta compiuto tale percorso a Miami con gli Heat, con i titoli vinti nel 2012 e nel 2013, LBJ è tornato nell’Ohio l’estate scorsa.

Hamilton ha preso una decisione simile nel 2012. Di fronte alla poca affidabilità della McLaren in quella stagione, che forse gli è costata il titolo (o almeno la possibilità di giocarselo), l’inglese ha preso la decisione di portare i propri talenti lontano da Woking. Una scelta sofferta dopo 12 anni al servizio della casa inglese, ma presa per crescere. Per dimostrare — come LeBron — di poter essere forte anche altrove.

Una scelta difficile anche per quello che la Mercedes ha mostrato fino a quel momento. Subentrata alla Braun GP campione del Mondo nel 2010, la casa di Stoccarda non ha mai fatto vedere granché in quei tre anni. Un’unica vittoria (in Cina nel 2012 con Rosberg), cinque podi e tante, tante difficoltà tecniche, soprattutto con il consumo dei pneumatici, vera croce in casa Mercedes per molti anni. Poi il cambiamento delle regole, una macchina perfetta e un motore ibrido straordinario hanno fatto il resto.

Lungimiranza.

L’amico-nemico

In una sorta di Red e Toby adattato al mondo della Formula 1, Hamilton si è trovato in squadra con Nico Rosberg. I due sono sempre stati grandi amici: entrambi classe ’85, si sono conosciuti all’età di 12 anni, quando correvano nei kart. Il tedesco è entrato in Formula 1 un anno prima di Hamilton, ma non ha mai avuto una macchina veramente vincente. Ciò nonostante, si è sempre dimostrato un buon pilota.

L’anno scorso la Mercedes si è goduta il secondo posto nel Mondiale costruttori e tre vittorie, ma Hamilton è rimasto davanti al compagno in classifica. Quando Rosberg si è ritrovato quest’anno con un’astronave al posto della comune monoposto, in lui è scattato qualcosa. Ha cominciato a maneggiare i trucchi psicologici di chi vuole vincere il Mondiale (vedi le qualifiche di Monaco), ma ha cominciato anche a tirar fuori giri strepitosi. In qualifica, è finita 12–7 per Nico.

Se Rosberg non ha vinto questo Mondiale c’è un motivo. A Rosberg manca una qualità decisiva per un grande pilota di F1: la capacità di gestire un duello. In Bahrain ha tentato più volte il sorpasso a Hamilton, fallendo. A Spa il tedesco parte in pole, ma si fa superare in partenza e poi buca in un contatto la posteriore sinistra del compagno. A Suzuka e ad Austin ha subito la rimonta di Hamilton, dimostratosi per l’occasione, una volta di più, un vero cavallo da corsa.

Il bilancio finale delle vittorie parla di un 11–5 in favore di Hamilton. Se si vanno poi ad analizzare le posizione guadagnate nel 2014, si ottiene un dato interessante. Chi parte dietro ovviamente sarà più in alto in questa speciale graduatoria, ma la differenza tra Hamilton e Rosberg è netta: l’inglese chiude con un saldo di +2, il tedesco con uno di -50.

A Rosberg si possono concedere la speranza di un futuro da campione del Mondo (l’anno prossimo?) e l’onore delle armi. Specie quando ad Abu Dhabi, di fronte all’ERS capriccioso e a una macchina inguidabile, ha voluto comunque concludere la gara. 15°, sì, ma con la testa alta. E alla fine ha riconosciuto i meriti del compagno.

Il futuro

E ora? Lewis Hamilton entra di diritto nella storia. Per un semplice motivo: era dal 2000 che un bi-campione del Mondo non vinceva almeno un titolo con due macchine diverse. All’epoca, è stato Michael Schumacher a riuscirci, proprio l’uomo che gli ha lasciato un sedile in Mercedes. Se guardiamo l’intera storia della Formula 1, insieme a questi due ci sono nomi del calibro di Prost, Brahbam, Clark, Fittipaldi, Lauda, Pique e soprattutto Fangio (cinque titoli con quattro macchine diverse!).

L’anglo-caraibico ha sconfitto anche i suoi fantasmi. La pressione non è più un suo nemico ma ha anzi imparato a gestirla e a trarne persino profitto: è stato due volte a -29 dall’avversario per il titolo e ha saputo riprenderlo. All’alba dei trent’anni la maturità è raggiunta. Poco importa se il suo profilo è sempre improntato al glamour, con tanto di Nicole Schwerzinger al suo fianco e il suo cane Roscoe come miglior amico.

La storia è stata scritta. E alla mente tornano le parole di Luca Baldisserri nel 2008, all’epoca nello staff Ferrari: «Al ragazzino permettono di tutto». Non sappiamo se alla fine gli è stato permesso di tutto, ma di certo il ragazzino è diventato uomo. E ha un talento che può permettergli di fare qualunque cosa. Compreso vincere un altro titolo Mondiale.

Articolo a cura di Gabriele Anello

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