Caster Semenya e la battaglia dei sessi
di Alessandro Mastroluca
“Non basta chiedersi come sono fatte le persone di successo” scrive Malcom Gladwell nel suo classico Outliers. “Per chiarire quale sia la logica per cui alcuni ottengono il successo che sfugge ad altri, dobbiamo chiederci da dove vengono”. Nessuna federazione internazionale si è impegnata più della IAAF — troppo spesso permissiva in materia di pratiche dopanti come sta emergendo dai recenti scandali — a determinare la provenienza dei campioni. O meglio, in questo caso, delle campionesse. Per oltre mezzo secolo la federazione internazionale di atletica e il CIO hanno indagato il confine tra uomo e donna. Hanno cercato impostori, hanno trovato solo tutte le possibili declinazioni dell’intersessualità.
Per la prima volta, però, ai Giochi di Rio non c’è stato nessun test di genere, perché dopo il ricorso della sprinter indiana Chand contro la squalifica per iper-androginismo, il TAS di Losanna ha bocciato il sistema messo in pratica dal 2011.
Quello stesso sistema che aveva costretto Caster Semenya a terapie ormonali per abbassare i ivelli di testosterone naturale. È qui, tra etica e scienza, che si gioca la partita chiave. La IAAF, nella ricerca di una improbabile formula della femminilità, ha stabilito la soglia di 10 nanomoli per litro di sangue. I vecchi test per definire il genere si sono evoluti nei controlli per l’iper-androginismo. Nessuna verifica invasiva dei cromosomi e degli organi sessuali, ma un tentativo di far passare un test di femminilità per qualcosa di più simile a un controllo anti-doping.
Resta però una questione di fondo. Delle oltre 200 variazioni genetiche individuate dai ricercatori, più di venti si possono collegare allo sport. I cosiddetti PEP (performance-enhancing polymorphisms, i polimorfismi che migliorano la prestazione sportiva) possono influenzare altezza, flusso sanguigno, efficienza metabolica, massa e fibre muscolari, resistenza alla fatica, funzioni cardiache. E la lista potrebbe continuare. Il mondo celebra outliers nati con un patrimonio genetico ideale per lo sport: l’agilità di Bolt, l’acquaticità di Phelps, la bassissima frequenza cardiaca di Merckx. Nessuno ha mai messo in discussione le sette medaglie olimpiche ai Giochi invernali del campione finlandese di sci nordico Eero Mäntyranta, nato con una policitemia congenita, una variazione del gene EPOR che porta a produrre il 65% di globuli rossi più della media. È una “mutazione da medaglia d’oro” scrive David Epstein nel suo The Sports Gene. Pochi hanno obiettato che i suoi successi nascano da un fisico che naturalmente è in grado di ottenere quello che i suoi avversari avrebbero potuto replicare solo attraverso il ricorso illecito all’eritropoietina.
Quasi nessuno, invece, sembra disposto ad accettare le vittorie di Caster Semenya, della sprinter indiana Dutee Chand, delle quattro atlete che dopo una serie di controlli in Francia fra il 2011 e il 2012 hanno accettato di sottoporsi a forme di mutilazione genitale per poter rientrare nei canoni di femminilità imposti come norma. La IAAF, ha dichiarato la studiosa di bioetica Alice Dreger al New York Times, “sta trasformando il testosterone in una questione maschile, sta dicendo che una donna non può mai apparire mascolina”.
Perché la IAAF si concentra solo sul testosterone? E quella soglia di 10 nanomoli per litro ha davvero senso per distinguere l’uomo dalla donna? I ricercatori chiamati come “expert witness” a sostenere la posizione della federazione internazionale a Losanna hanno presentato i risultati di due studi realizzati in Russia e Corea del Sud. Il 99% delle atlete oggetto delle ricerche non superava le 3,08 nanomoli per litro. Lo studio coreano, tuttavia, ha individuato anche 198 atleti maschi con livelli di testosterone inferiore alle 10 nanomoli. Il confine si fa incerto, ha sottolineato Katrina Karkazis, l’esperta di bioetica dell’università di Stanford che ha testimoniato in favore di Chand. “Dietro la nuova regolamentazione sull’iperandroginismo della IAAF” ha detto, “c’è solo il tentativo di far apparire più giustificabile scientificamente e meno discriminatoria la vecchia politica, sempre basata su idee rigide e manichee sul sesso e sul genere”.
Quelle stesse idee alla base del primo test conosciuto di verifica del sesso, alle Olimpiadi di Berlino del 1936. La sprinter polacca Stella Walsh mette in discussione la femminilità della statunitense Helen Stephens che l’ha appena battuta. Stephens passa il test. Nessuno controlla Walsh, che sarà uccisa nel 1980 durante una rapina a Cleveland. L’autopsia rivela che era nata con genitali ambigui. “Stella era un uomo” titolano i giornali. In realtà è nata con una disgenesia gonadica mista. “Socialmente, culturalmente, legalmente, Stella Walsh è vissuta per 69 anni ed è morta come donna”.
Due anni dopo, la tedesca Dora Ratjen migliora il record del mondo di salto in alto agli Europei di Vienna. È nata con caratteri sessuali dubbi, è stata cresciuta come una ragazza ma successivamente verrà arrestata per frode e la medaglia d’oro sarà confiscata. Dalla metà degli anni Quaranta, alle atlete si comincia a richiedere un “certificato di femminilità”. Il principe Franz Josef of Liechtenstein, allora membro del CIO, avrebbe voluto che gli fosse risparmiato lo spettacolo di donne che cercano di sembrare uomini”. Altri ancora, scrive Susan K. Cahn, docente di storia all’università di Buffalo, in Coming On Strong: Gender and Sexuality in 20th-Century Women’s Sports, “erano disturbati dalla presenza delle atlete sulle piste di atletica perché violavano l’ideale bianco e borghese di femminilità”.
Dopo i successi dell’Unione Sovietica, che inizia a partecipare alle Olimpiadi solo dal 1952, in Occidente cresce il sospetto di “imbrogli sessuali”. Dal 1966, allora, i controlli non vengono più affidati alle singole nazioni. Le atlete più mascoline vengono fatte sfilare nude davanti ai medici o fatte sdraiare con le ginocchia al petto. La pentatleta britannica Mary Peters, che si è dovuta sottoporre ai quei controlli, l’ha definita “l’esperienza più degradante di tutta la mia vita”.
Dall’anno successivo la IAAF passa ai meno invasivi test cromosomici. Ogni risultato diverso dall’ortodosso XX porta alla squalifica. È bianco o nero, senza appelli o eccezioni. Non può far nulla per difendersi nemmeno la sprinter polacca Ewa Klobukowska, che nel 1967 si vede cancellate tutte le vittorie, compreso l’oro e il bronzo vinti alle Olimpiadi di Tokyo nel 1964, e viene espulsa dal mondo dello sport a 21 anni perché ha un cromosoma in più.
Nel 1985 l’ostacolista spagnola Maria Jose Martinez-Patino fallisce il test. Presenta cromosomi XY. Perde i record nazionali e la borsa di studio sportiva, oltre agli amici e al fidanzato. “Sapevo di essere una donna” dirà. È nata, infatti, con una sindrome da insensibilità agli androgeni. Ha organi sessuali maschili, ma i recettori degli androgeni non funzionano: produce più testosterone, dunque, ma il suo corpo non può usarlo. La IAAF allora sponsorizza due simposi medico-scientifici che di fatto vanno incontro ai critici. Il test di genere così com’è risulta arbitrario e discriminatorio. La federazione abbandona la pratica nel 1991.
Il CIO però continua e nel 1996 sostituisce il test cromosomico con un altro, per identificare il gene SRY sul cromosoma Y, considerato a lungo l’interruttore in grado di attivare lo sviluppo in senso maschile. Ma le mutazioni del gene SRY spiegano solo in parte i Disordini dello Sviluppo Sessuale. Il genere diventa sempre più una forma di negoziazione e i test non riescono più ad assorbire la complessità e determinare i confini fra quel che è consentito e quel che non lo è.
Nemmeno i nuovi controlli sull’iperandroginismo bocciati dal TAS di Losanna, che ha messo in discussione il fondamento stesso della regolamentazione: siamo davvero sicuri che il testosterone giochi un ruolo chiave nella prestazione sportiva? È una domanda esplosiva, considerato che gli atleti scoperti a far ricorso al testosterone sintetico vengono squalificati per doping. Gli esperti chiamati dalla IAAF hanno confermato che non esistono regolamentazioni sul testosterone naturale maschile, perché non ci sono prove che gli atleti con un livello eccezionalmente elevato abbiano un effettivo vantaggio competitivo. Ma nessuna ricerca, hanno dovuto ammettere, ha dimostrato nemmeno che livelli eccezionalmente alti portino a prestazioni inusuali fra le donne. Di sicuro c’è solo che la presenza di donne con cromosomi XY soprattutto nell’atletica leggera è 140 volte più alta che nella popolazione mondiale.
Eppure il privato di Caster Semenya, esposto come prova di una battaglia politica, è per i critici della IAAF un modo per mantenere antiche discriminazioni dietro l’etichetta del “rispetto per l’essenza delle classificazioni di uomo e donna nell’atletica”: una classificazione che include, per la federazione internazionale, criteri come la misura dei seni o la larghezza dei fianchi.
“Se davvero si vogliono identificare i fattori significativi che determinano un vantaggio, allora tutti gli atleti dovrebbero vivere nello stesso posto, con gli stessi livelli di ricchezza e le stesse risorse” ha detto Bruce Kidd, ex mezzofondista canadese che si batte per l’uguaglianza nello sport.
È la stessa posizione dei giudici del TAS, “non soddisfatti dalle prove sul vantaggio che il testosterone può produrre sulla prestazione sportiva”. Non è chiaro, scrivono, “se questo vantaggio è più significativo di quello che deriva da numerose altre variabili come la nutrizione, l’accesso a strutture specializzate e a coach di livello, oltre alle variazioni biologiche e genetiche”.
“E’ davvero un gran casino” ha concluso Kidd. E in questa confusione, la ragione spesso annega e i pregiudizi di genere, nel conflitto tra le parti, sono gli unici che continuano a resistere.