La vie en rose. Ovvero, “la mia vita senza Ibra”

Armando Fico
Crampi Sportivi
Published in
4 min readMar 8, 2017

Per quanto si possa obiettare, il calcio è una questione di intelligenza. E più che mai nel calcio moderno, una squadra di undici giocatori schierati in campo è paragonabile ad un’unità pensante, una sorta di cervello la cui capacità di percepire, interpretare ed interagire con la realtà circostante è data dalla somma dalle singole intelligenze calcistiche dei giocatori che la compongono.

Tramutare le potenzialità intellettive di una squadra in azioni concrete (quindi in gol e vittorie) è ovviamente compito dell’allenatore, il cui credo tattico deve fisiologicamente convergere sulle attitudini dei propri calciatori per esaltarli al massimo sia collettivamente che individualmente. Quando questo non succede, o non è possibile, si generano allora distopie come quella di Cavani al PSG, con l’uruguayano “costretto a regredire” al ruolo di esterno per l’inamovibilità al centro dell’attacco di Zlatan Ibrahimovic.

Una distopia durata tre lunghi anni, in cui il furente Matador ammirato a Napoli è stato sfiancato da un lato dall’assenza di carisma del suo allenatore Laurent Blanc (che lo allontanava dalla porta senza fiatare) e dall’altro dalla totale assuefazione del gioco del PSG alla figura proprio dell’attaccante svedese. In quelle tre stagioni Cavani segna comunque 81 gol, ma si trasforma — suo malgrado — in un “semplice” giocatore di supporto della manovra parigina. Stella tra le stelle, la sua vita al Parco dei Principi cambia improvvisamente con la partenza della strana coppia Ibra-Blanc e l’arrivo di Unai Emery il 28 giugno scorso.

Sotto la guida dell’allenatore basco Cavani viene infatti restituito al suo ruolo naturale fisiologicamente precostituito di prima punta, ma soprattutto si sente per la prima volta dal suo sbarco a Parigi al centro di tutto: dell’attacco, del gioco, del progetto, persino delle idee del proprio allenatore.

Come un Sisifo finalmente liberato dal suo grave, Edinson scala il pendio lungo cui stava scivolando in appena 45’, cioè il tempo di rifilare un poker al malcapitato Caen nel quinto turno di Ligue 1. In quelle quattro segnature c’è infatti tutta la sua capacità di interpretazione del ruolo del centravanti: movimento a scomparire dai radar difensivi e smarcamento sul secondo palo in occasione del primo gol; taglio ed anticipo sul primo palo per la sua tripletta; percussione centrale con tiro ad incrociare immediato per bruciare il possibile intervento del marcatore.

“Cavani è semplicemente un Sisifo che ce l’ha fatta”

Di cosa può essere capace Cavani quando si sente stella indiscussa della squadra lo sanno benissimo alle pendici del Vesuvio, ma forse solo in questa prima parte di stagione se ne stanno davvero rendendo conto anche dalle parti della Tour Eiffel. L’uruguayano è un attaccante capace di segnare in qualsiasi modo, ma sa anche essere leader e trascinatore in campo della propria squadra. Ciò che lo rende tale agli occhi dei compagni è l’approccio alle partite. In questo El Matador è quasi un calciatore unico al mondo. Torvo, accigliato, contrito: durante tutti i 90 minuti di gara, Cavani è un fascio di nervi pronto ad esplodere, che può fallire qualche occasione, ma sempre dando fondo a tutto sé stesso.

Alla luce di tutto questo, rimane un mistero come sia stato possibile che soltanto Emery e Mazzarri abbiano deciso di puntare su Cavani schierandolo centravanti. Escludendo gli inizi palermitani, infatti, dove l’immaturità tattica e l’inesperienza lo hanno “obbligato” sull’esterno, il suo impiego come ala offensiva è divenuto invece consapevole da parte di Blanc al PSG e in nazionale con Tabarez. Quasi come se ne dessero un po’ per scontata l’attitudine al gol e al sacrificio, sottodimensionando la sua capacità realizzativa rispetto a quello dei “loro” attaccanti centrali (rispettivamente Ibrahimovic e Suarez). Cosa che proprio un calciatore che sente la necessità di sentirsi protagonista come Cavani non merita, e sotto sotto nemmeno accetta.

Chiamatela pure debolezza, ma un tecnico sensibile ed intelligente come Unai Emery ha subito avvertito che quello lì era il nervo scoperto del Matador, riuscendo a comprendere anche che se voleva scatenare l’istinto animalesco di Cavani doveva solo riuscire a farlo sentire nuovamente importante per la squadra. In questo senso, la sua prima mossa è un capolavoro di psicologia: con Edinson già con le valige in mano, non solo non chiede alla società di sostituirlo, ma nemmeno pretende altri innesti che avrebbero potuto insidiarne la titolarità. Sul piano tattico, invece, i due rappresentano rispettivamente una best choice reciproca. Prediligono entrambi le ripartenze veloci palla a terra abbinate a una manovra dettagliatamente organizzata, i tagli alle spalle dei difensori, ed infine il pressing a tutto campo. Inoltre, a favorire la vena realizzativa di Cavani quest’anno è anche l’atteggiamento in campo degli uomini di Emery. Con un baricentro molto più alto rispetto al passato e la vocazione a sviluppare il gioco sulle fasce per la rifinitura finale proprio di Cavani, il PSG quest’anno ha finalmente sviluppato la tendenza alla verticalità del gioco senza portare troppo palla.

Ma ciò che rende Cavani il miglior attaccante possibile per il tecnico basco è l’intuitività della giocata. El Matador infatti ha l’innata capacità, propria degli attaccanti di razza, di intuire esattamente come l’azione si svilupperà e andrà a finire. Lì dove arriva il pallone c’è Cavani pronto a ribadirlo a rete. È quasi un imprinting, un’affinità ancestrale a legarlo al gioco di Emery. Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti: 37 reti in 36 gare. Una ogni 78 minuti.

Tuttavia, Edinson è anche uno che quando il gioco ristagna o si rivela improduttivo il gol lo crea dal nulla, oppure va a cercarselo da sé. La sua è una fisiologica tensione verso la finalizzazione dell’azione, e quanto più ampio è il suo raggio d’azione, le possibilità di vederlo andare in rete aumentano esponenzialmente.

In sostanza, Cavani non era diventato più scarso né se n’era mai andato. Semmai gli è stato restituito qualcosa: il suo ruolo. E con esso la dignità di una scelta, quella di approdare al PSG quando c’era ancora Ibrahimovic, che finalmente gli sta rendendo giustizia per il suo immenso valore. Una scelta di cui quindi in futuro non dovrà pentirsi…

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