Cento anni di Tour de France: parabole eroiche in uno spazio mitico

Crampi Sportivi
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8 min readJun 29, 2013

Questo articolo è già uscito per Dude Magazine

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Secondo il nasuto pensatore I. Illich, l’evoluzione locomotoria dell’uomo avrebbe dovuto arrestarsi un attimo prima dell’invenzione dell’automobile. E a farsi un giro per Monti verso l’ora dell’aperitivo capisci che non è più il solo a pensarlo. La storia sembra avergli dato ragione.
Aldilà delle questioni legate alla nuova mobilità, ad affascinare della bicicletta è soprattutto una sua irriducibile carica estetica; e non ci riferiamo solo a un bel telaio (e ai baffi a manubrio e ai cappellini di dubbio gusto che questo si porta dietro). Qui stiamo parlando proprio della bellezza di vedere un uomo correre su una bicicletta.

La bici e l’estetica del post-umano Nel 1983 i Kraftwerk fanno uscire il singolo Tour de France. La canzone e il video sembrano riuscire sottilmente a cogliere questo fascino del mezzo. Nei Kraftwerk — costruttori di una complessa estetica che ruota attorno ai concetti di Energia Macchinica — l’uomo è tutt’uno con la macchina; le distopie novecentesche si ribaltano in utopia futuristica: robot, scenari spaziali, treni, autostrade, computer. E biciclette.
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Il video che i musicisti tedeschi proiettano durante i live, con delle inquadrature stringenti sui polpacci in pedalata, mette in evidenza questa fusione uomo-macchina: la bici diventa protesi umana, in grado di esaltare le capacità fisiche in virtù della sua forza meccanica. Un uomo su una bicicletta si avvicina a una condizione post-umana, diventa pura energia, quasi astrazione; vedere un uomo arrampicarsi su una montagna in sella a una bicicletta è una sfida alla fisica, è qualcosa che si avvicina molto al concetto di Trascendenza.
Prendete questa carica estetica, aggiungeteci un’epica narrativa e lo sfondo di un paese mozzafiato ed egocentrico come la Francia e avrete il Tour de France.

Tour baguette

Attraversamento e conquista dello spazio nazionale Quest’anno La Grand Boucle festeggia il suo centenario: lo farà partendo dalla Corsica, unica nicchia di paese finora rimasta esclusa nelle ultime novantanove edizioni, e finendo sui campi elisi parigini (stavolta notturni e sempre più lumière), dove tutti i luoghi toccati si riuniranno idealmente, in un paese che ancora oggi non ha vergogna di mostrarsi assolutamente centrato sulla sua capitale.
Non c’è forse un evento sportivo impregnato di nazionalismo come lo è il Tour de France.
Ogni cosa nel Tour, a partire dalla sua epica narrativa, si presta alla celebrazione della Francia; e questo è probabilmente legato al fatto che il Tour ha a che fare con lo Spazio e con la sua conquista mitopoietica. Ma non è il mito americano della beat generation: l’ebbrezza dello spazio che si apre indefinitamente e reca in sé il gusto della libertà. È piuttosto il mito europeo di uno spazio che si attraversa per sentirlo proprio, per chiuderlo in quella grande e confortante entità che è lo stato nazionale. Un entità astratta che demarca e stabilisce limiti stravolgendo lo spazio naturale, ridefinendone il senso.
La geografia del Tour è quella tracciata sulla mappa, gli elementi naturali sono degli accidenti che pongono una sfida che consente all’uomo di rimarcare sempre un controllo, una superiorità. Come fa notare il semiologo R. Barthes: «Le salite sono maligne, ridotte a percentuali aspre e mortali, e le tappe, che nel Tour hanno ciascuna l’unità di un capitolo di romanzo, sono prima di tutto personaggi fisici, nemici successivi, caratterizzati da quel misto di morfologia e di morale che definisce la Natura epica».

Il Tour de France è la celebrazione di questa volontà umana di sfidare il naturale e di vincerlo.
Ma il Tour è anche competizione, e la competizione porta in sé la narrativa e gli eroi che la accompagnano. Sullo sfondo di un esercito di corridori a doversi stagliare clamorosamente è sempre un individuo, a rimarcare che lo Sport è collettivo ma la Storia no, quella è individuale.
È così che si generano quei momenti di bellezza pura che scrivono la storia del ciclismo: la fuga. Immaginate di correre in bicicletta per circa duecento km, tra valli e salite, e di farlo a un’andatura che vi possa far restare ragionevolmente nel gruppo di testa, poi immaginate di dover cercare in fondo a voi una dose d’energia che vi consenta di raddoppiare la vostra velocità, correre in avanti per altri venti km e tentare di vincere la gara.
Come in una sorta di improvviso contatto col divino, l’uomo riceve quell’energia elettrica che gli consente di compiere lo scatto in avanti.
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Mito in rovina Sono le fughe, con il loro carattere prometeico, a scrivere la storia epica del ciclismo. La bellezza della fuga incarna forse uno sport ormai passato, diverso dal ciclismo di oggi, uno sport nel quale la sovrastruttura dei team non era ancora così opprimente da togliere lo spazio vitale per l’emersione del singolo.
Quasi come un dogma indiscutibile o come una traiettoria già disegnata e senza possibili margini di deviazione, la competizione sportiva è oggi rinchiusa dentro barriere ideologiche dominate da programmazioni robotiche, dall’attenzione al singolo dettaglio, dall’asfissiante saturazione tecnologica data dal tentativo perpetuo di ridurre lo sforzo in favore del risultato. Il ciclismo, forse per prerogative proprie e per la lotta senza sconti al doping, negli ultimi anni si delinea quale sport sottoposto a costante revisione calco-logica, quale variabile matematica da sottoporre a sperimentazione continua. Fattori che stanno riducendo progressivamente la creatività, l’inventiva, l’estro dei singoli corridori, relegando ai margini l’elemento fondante di questa disciplina: lo spettacolo.

Assistere a fughe epiche in solitaria è cosa rara e addirittura controproducente se quella sovrastruttura si impone oggi come unica forma di espressione sportiva. Per caratteristiche tecniche e logistiche, il Tour De France nelle ultimi edizioni, soprattutto quello vinto lo scorso anno da Bradley Wiggins che di quella saturazione ne è la colonna portante, ha incarnato queste luci ed ombre, queste contraddizioni che esplodono oggi attraverso i collegamenti diretti tra il corridore e l’ammiraglia con l’uso delle radioline, nelle modalità di gestazione e conduzione della corsa dominate dall’attendismo, dal dettaglio sempre più particolare di biciclette trasformate in protesi futuriste. Caratteristiche che conducono progressivamente ad un mito in rovina come lo definisce Marc Augé, dove scenari identici si ripetono all’infinito fino a rompere la drammaturgia della corsa, quell’elemento che per l’antropologo francese è in grado di rendere vivo il mito attraverso l’ispirazione sublime e la tragica debolezza dell’eroe/corridore.

Il team Sky — che ancora una volta in queste edizione del Tour imporrà quasi sicuramente il proprio dominio — è il massimo esempio di tutte queste contraddizioni che strutturano quello che è il ciclismo oggi. L’attenzione è riposta allora negli eroi in grado di sconfiggere una macchina da guerra collaudata come struttura impenetrabile, come barriera inaccessibile, come negazione della creatività. Vincenzo Nibali è riuscito a sconfiggere la forma mentis del ciclismo moderno nell’ultima edizione del Giro D’Italia, attaccando sempre e comunque appena se ne presentava l’occasione, trasformando la corsa rosa in narrazione epica e leggenda. La sua assenza pesa allora, non solo sulle ambizioni italiane, ma in generale per chi considera il Tour de France non solo una corsa a tappe ma uno spazio trasformato in iperluogo, in terreno multidimensionale dove la corsa in sé è solo una piccolo tassello di un mosaico disegnato per ergere la competizione quale parabola umana e metafora esistenziale.

Rivitalizzare quel mito in rovina, nonostante tutto, è forse ancora possibile, bisogna però volgere lo sguardo ad altri corridori, ad altri team, ad altre culture sportive, o forse più semplicemente capire che per celebrare cento anni di storia bisogna almeno per una volta relegare ai margini la razionalità del calcolo, rimettendo al centro della scena lo spettacolo, il vero pathos della corsa. Senza Nibali, forse l’unico in grado di compiere un impresa simile è Alberto Contador, che nonostante tutto si candida come l’avversario più temibile della razza aliena degli Sky e del loro capitano Chris Froome.

Percorso, squadre, corridori Sarà un corsa molto più dura rispetto a quella dello scorso anno, dove anche una macchina pensata come indistruttibile potrebbe cedere ad un percorso più insidioso, più adatto ad attacchi decisi in grado di demolire quel muro di suono retto da ritmiche che il team britannico impone ogni volta che la strada inizia a salire, ogni volta che qualche dissidente prova a ribellarsi uscendo dalla pancia del gruppo.

Come già detto si partirà dalla Corsica il ventinove giugno, 3.300 km da affrontare in ventuno tappe. Per rompere la consuetudine i corridori dovranno affrontare subito nella prima settimana due tappe sui Pirenei con gli arrivi ad Ax Domains e a Bagnares-de-Bigorre, dove si inizierà a capire chi sarà in grado di onorare la corsa fino a Parigi. Dopo la prima cronometro individuale e tre tappe insidiose con gli arrivi a Tours, Saint Armand Montrond e Lione, la presa della Bastiglia si festeggerà con il ritorno del Mont Ventoux, storica salita del Tour, teatro di imprese di diversi campioni, da Poulidor a Merckx fino a Pantani.
Sempre Barthes lo descriveva così:

«Il Ventoso è un Dio del male al quale bisogna sacrificare. Vero Moloch, despota dei ciclisti, non perdona ai deboli, esige un ingiusto tributo di sofferenze. Fisicamente il Ventoso è orrendo: calvo (affetto da seborrea secca, secondo L’Equipe), è lo spirito stesso della Secchezza; il suo clima assoluto ne fa un terreno dannato, un luogo di prova per l’eroe, qualcosa come un inferno superiore in cui il ciclista definirà la verità della sua salvezza: vincerà il dragone, sia con l’aiuto di un dio, sia per puro prometeismo, opponendo a questo dio del Male un demone ancora più duro.»

L’ultima settimana, come da tradizione, sarà la più spettacolare e, dopo un’altra cronometro individuale, gli ultimi tre giorni promettono fuochi d’artificio. Prima l’arrivo all’Alpe d’Huez da scalare due volte di fila, il giorno dopo l’arrivo a Le Grand Bornard dove si affronterà la Col de la Croix Fry e, per chiudere il trittico alpino, l’inedito arrivo ad Anency Le Semonoz con una salita finale di 10,7 km con pendenza media dell’8,5. Non mancheranno tappe per velocisti, oltre a quella di Parigi non vanno dimenticati gli arrivi a Marsiglia, Montpellier e Albi.

Ventidue squadre ai nastri di partenza oltre alla già citata Sky, la Saxo-Tinkoff di Alberto Contador che potrà contare su otto validi gregari tra i quali Roman Kreuziger e Micheal Rogers per sfidare la supremazia del team inglese. Tra le fila italiane un posto di tutto rispetto merita la Cannondale che conterà ancora una volta su quello che è oggi considerato la promessa numero uno del ciclismo, un corridore destinato a scrivere pagine di storia: Peter Sagan. Non dimentichiamo poi La Bmc, che si affiderà agli spunti del campione del mondo Philippe Gilbert e dell’inossidabile Cadel Evans, vincitore dell’edizione di due anni fa. Altri possibili protagonisti sono Alejandro Valverde della Movistar, Joaquim Rodriguez per il team russo della Katiuscia e Andy Shleck per la Radioshack, certamente in condizioni non ottimali ma da elencare senza riserve per quello che ha dimostrato negli ultimi anni sfiorando la vittoria diverse volte. Classico corridore francese da trance agonistica durante il tour è invece Thomas Voeckler, tanto odiato dai giornalisti per la sua teatralità eccessiva quanto amato dal pubblico per lo stesso motivo.
Sarà quindi una corsa in grado, almeno sulla carta, di promettere battaglia. Gli organizzatori hanno capito che appiattire la memoria di uno degli eventi sportivi più importanti al mondo piazzando gli arrivi in quota a metà strada invece che nel finale o inserendo cronometro sopra i 50km avrebbe impoverito l’anniversario di una corsa storica. Noi ci aspettiamo che prevalga lo spettacolo rispetto al calcolo e all’attendismo, nel tentativo, per quanto possibile, di dimenticare l’era Armstrong e restituire al pubblico quello che si aspetta dal ciclismo: parabole sportive trasformate in leggenda.

Andrea Minciaroni e Emanuele Atturo || Illustrazione di Andrea Mongia (Studio Pilar)

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