C’erano una volta gli Spurs

Crampi Sportivi
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8 min readJul 12, 2016

San Antonio, estate 2018. Due tifosi sono fuori dall’AT&T Center. Uno si chiama Juan: è portoricano ed è arrivato a San Antonio nel lontano ’85 con la sua famiglia. L’altro è Jake, che invece in Texas c’è sempre stato: born and raised in S.A. Tuttavia, non sono lì nell’unica veste di fan.

Lavorano per una ditta di pulizie. Fuori è notte inoltrata e l’AT&T Center sembra così diverso. Forse perché non si chiama più così: ora è un semplice dome per concerti. I San Antonio Rampage, squadra di hockey, stanno pensando di comprarlo, ma per ora non ci sono i soldi per prelevarlo.

Da un paio di mesi l’impianto è ridotto così, tanto che l’amministrazione della Bexar County sta pensando di demolirlo: chi verrebbe a fare concerti a San Antonio?

Juan e Jake stanno pulendo la zona circostante all’arena come al solito durante il loro turno notturno. Mentre spazza per terra, Jake trova un piccolo banner, ormai rovinato. C’è sopra il numero 21. Improvvisamente il suo volto si riga di lacrime sottili ma fitte, come una terza maglia originale. Juan gli si avvicina preoccupato:

«Hai pestato un vetro? Non sarebbe la prima volta».

Jake riesce appena a passare al suo collega quel brandello di carta che ha trovato. La reazione dell’amico è quasi quella di chi ormai è rassegnato:

«Ancora? Devi capire che ormai è finita. Devi andare avanti».

Sono due mesi che l’NBA ha lasciato San Antonio. Tutto è successo molto velocemente, nel giro di qualche mese. Ma qualcuno se l’aspettava: è come se tutto fosse partito dal primo addio, quello più importante, quello del personaggio che ormai tutto il mondo — americano e non — ha identificato con San Antonio.

Nell’estate 2016, Tim Duncan ha salutato i suoi Spurs e ha smesso di giocare a basket dopo 19 anni di onorata carriera.

Quella massa di 213 centimetri per 113 chili, così emozionalmente imperscrutabile e dall’espressione perennemente riflessiva, ha scosso l’NBA. Lo ha fatto nei risultati: non c’è bisogno di un elogio tecnico di Tim Duncan, non c’è bisogno di sporcarsi le mani.

Cinque volte campione NBA, tre MVP delle NBA Finals, due volte in regular season, dieci volte nel primo quintetto NBA, chiaramente Rookie dell’anno nel 1998, ovviamente all-time leading scorer dei San Antonio Spurs.

Dopo la rivincita con Miami e l’ultimo titolo nel 2014, le due precoci eliminazioni per mano dei Clippers (2015) e dei Thunder (2016) hanno incrinato l’assoluta sicurezza degli Spurs, che in quegli anni erano considerati gli avversari designati dei Warriors sulla strada del titolo della Western Conference.

Duncan è stato — sempre — un riferimento assoluto per gli Spurs. E lo è stato incredibilmente anche nell’ultimo anno in regular season, quando le sue cifre sono comunque inetivabilmente calate: minor numero di partite giocate e di start in quintetto (escludendo i lock-out del ’99 e del 2012), la più bassa media-minuti (25.2 contro 34.0 in carriera), idem riguardo i rimbalzi (7.3 contro i 10.8 in carriera), blocchi (1.3 vs. 2.2) e soprattutto punti (8.6: la prima volta senza una doppia cifra).

Questo perché i problemi al ginocchio sinistro l’hanno tormentato, tanto che nei play-off alcune cifre si sono abbassate ulteriormente: 21.8 minuti di media, appena 5.2 tiri tentati, la più bassa FG% (.423), 4.8 rimbalzi e così via dicendo. La statistica che inquadra meglio le difficoltà (fisiche) di Duncan è quella dei punti: 5.9 di media, quando il peggior rendimento a canestro nei play-off della sua carriera è di 12.7 nel 2010–11.

L’ultima gara di Duncan con gli Spurs.

Invece quella volta, anticipato da una soffiata di Adrian Wojnarowski (famoso per i suoi scoop, ma anche per i suoi metodi controversi), l’annuncio del ritiro è arrivato.

«Credo di aver dato tutto quello che avevo. Il mio corpo non regge più certi ritmi e non voglio esser di peso a nessuno. Voglio ringraziare San Antonio per questi anni assieme».

Poche parole. Nessuna menzione per Gregg Popovich, ma del resto il loro rapporto è sempre stato così: indecifrabile per nessuno, comprensibile solo a loro, come una lingua antica mai afferrabile dal resto del mondo.

La cosa più brutta è che la portata storica e narrativa del suo ritiro è stata messa appena in ombra dall’arrivo di Durant ai Warriors, qualcosa nel cuore di chi l’ha tanto amato o ammirato ha creato la sensazione che Duncan non fosse omaggiato a dovere. Lui, in fondo, non se l’è presa.

Uomo di poche parole, ha ripreso in mano la sua laurea in psicologia e si è messo a lavorare, stupendo un po’ tutti quegli addetti ai lavori che non vedevano l’ora di vederlo a fianco di Gregg Popovich, magari a bordocampo invece che dietro a una scrivania, comunque nell’organigramma degli Spurs (anche se si è allenato qualche volta con la squadra. Così, per far spirito di gruppo). Quando gli chiesero come mai avesse rinunciato a quella pensione dorata e ricoperta di gloria, Tim fece spallucce:

«Amo il basket, ma se non posso essere un giocatore, non voglio un ruolo di ripiego. Preferisco fare quello per cui posso essere veramente utile».

E gli Spurs? A San Antonio avevano appena firmato Pau Gasol con la speranza di poter sostituire degnamente Duncan. Invece, quella gara persa contro gli Oklahoma City Thunder il 12 maggio del 2016 sarà l’ultima apparizione degli Spurs in post-season.

Durante una partita di pre-season, Kawhi Leonard “viene rapito dagli alieni”, come dirà Shaq in una considerazione post-gara: semplicemente, si è fatto male e non sembra riuscire mai a tornare del tutto durante quella stagione. Un vero problema, perché di sostituti non ce ne sono. Ginobili e Parker risultano ancora in squadra, ma non hanno il passo e la condizione atletica d’un tempo. E Gasol non s’inserisce a dovere, venendo addirittura tagliato alla fine della stagione.

Se persino i Thunder nel 2014–15 sono rimasti fuori dai play-off nonostante Westbrook, la nuova Western Conference non fa sconti agli Spurs, che accumulano mezza partita di ritardo dagli scaltri e giovani TWolves, rimanendo fuori da tutto.

Quell’estate le cose non vanno meglio. Leonard non riesce a riprendersi e a tornare il devastante robot di prima, e Ginobili stavolta smette per davvero, Parker decide di tornare in Francia. San Antonio torna a essere quella sorta di landa desolata senza “abbastanza mariachi” (cit. Buffa) per esser attrattiva.

Va bene, però The System — il nome dato all’organizzazione degli Spurs, forse neanche troppo bonariamente — c’è ancora. R.C. Buford still there. Il problema è che nell’estate 2017 arriva un buco nero finanziario a segare finanziariamente le gambe dei proprietari dei San Antonio Spurs.

L’owner è Peter Folk, che fa parte della Caterpillar. Purtroppo la sua azienda attraversa un brutto periodo a causa del prezzo del petrolio, che va sempre più calando a causa dell’emersione delle energie rinnovabili. Ne risente anche la squadra, che comincia ad attraversare un futuro che appare incerto nonostante la guida illuminata di Buford alla scrivania e di Popovich in campo.

E così la settima città per abitanti negli Stati Uniti si ritrova in difficoltà. Senza The System, gli Spurs sembrano tagliati fuori. E nel frattempo c’è un’altra franchigia che spinge per tornare: sono i Seattle SuperSonics, finalmente hanno convinto il commissioner Adam Silver, che aspetta solo la morte di qualche piazza per rimetter dentro loro (a furor di popolo).

Il problema è che a Est non ci sono spazi: Philadelphia è tornata a disputare il post-season grazie alla cura Colangelo e a Ben Simmons, rookie dell’anno nel 2017. I Cavs assistono all’ultima recita di LeBron e sono comunque ai play-off. Chicago ha avuto i Big Three più inaspettati del mondo e ha raggiunto le NBA Finals nel 2018. Persino Milwaukee si è tenuta stretta Giannīs Antetokounmpo, con il greco da play atipico, che stupisce sempre di più.

A quel punto, Silver volge lo sguardo a Ovest: la piazza candidata sarebbe Oklahoma, che però ha tenuto Westbrook e si regge in piedi grazie alla guida di Billy Donovan. Invece, dove c’era l’erba, ora c’è un disastro. The System non ha la più forze per sostentarsi e R.C. Buford — capita l’aria che tira, oltre a vicissitudini con la proprietà — si è trasferito a Washington per riprovarci da capo con gli Wizards. E ora che si fa?

Niente, finisce tutto qui. Nel marzo 2018, con una stagione conclusa con un misero 25–57, gli Spurs escono di scena. Fuori dalla NBA, mentre Seattle viene riaccolta con grande entusiasmo. Il neo-presidente onorario dei SuperSonics, Jamal Crawford, vorrebbe quasi rinunciare al suo ritiro, ma si limita a scrivere un altro column per celebrare il tutto.

Il più colpito è Gregg Popovich, che ci ha provato fino alla fine. Non è che lui sia stato solo un vincente con San Antonio: il suo primo anno alla guida degli Spurs nel 1996–97 non fu convincente (17–47), ma l’incontro con Duncan gli ha cambiato la carriera.

Tutti hanno cercato di avere una parola da Duncan, ma lui continua a occuparsi della sua fondazione senza rilasciare dichiarazioni. Al massimo collabora con la sua vecchia università di Wake Forest, ma non mette bocca sulla fine degli Spurs. Lo sai che è rammaricato, come quando l’hai visto farsi abbracciare da Chris Paul dopo l’eliminazione in gara-7 contro i Clippers.

Ma non vedrete mai Tim Duncan strapparsi le vesti. Mai.

Juan si prende un momento fuori dall’ex AT&T Arena e sospira. Jake non smette di piangere, ma il suo collega non sa come fermarlo. E Jake si lascia andare ai ricordi:

«Se ripenso agli anni ’80, quando volevano spostare la squadra perché dicevano che la città non aveva appeal, dovrei esser grato. Non dovrei piangere. Abbiamo vinto cinque titoli NBA e trent’anni fa tutto è lentamente iniziato quando abbiamo scelto un ammiraglio per salvarci. Però sai cosa? Niente mi ha fatto male come l’addio di Tim».

È come se gli avessero strappato tutto di nuovo. A lui, che — come molti altri possono aver fatto in quegli anni — ha chiamato suo figlio Timothy, in ricordo di quella che è stata l’Ivory Tower accanto a Fort Alamo. In ricordo di quel ragazzone venuto dalle Isole Vergini, che avrebbe dovuto nuotare per vivere e invece ha santificato la storia di una franchigia che gloria non aveva mai conosciuto fino a quel momento.

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