Champagne, leoncini e Thomas

Paolo Stradaioli
Crampi Sportivi
Published in
5 min readJul 30, 2018

Per quanto la sensazione di dominio sia rimasta intatta, per quanto la natura egemonica di una squadra incapace di bucare una tappa sia rimasta la stessa, per quanto le gambe abbiano assistito gli uomini di Sir Brailsford, la caratteristica che più mi ha colpito in questa sesta edizione del Tour de France vinta dal Team Sky negli ultimi sette anni (grazie Vincenzo ❤), è stata la fluidità con cui la squadra inglese ha interpretato le tre settimane in terra francese, alla luce del dogmatismo tattico mostrato negli anni passati.

Il capitano lo decide la strada e con Froome incapace di attentare all'accoppiata Giro-Tour spazio per un Geraint Thomas tirato a lucido, mai così competitivo su tre settimana in tutta la sua carriera. Gregari dosati alla perfezione, con Poels (lontano dai giorni migliori) speso a inizio tappa, Castroviejo più incisivo nella prima parte del Tour, Kwiatkowski fenomenale luogotenente nelle tappe mosse, Bernal in continua crescita fino a trasformarsi in un trattore nell’ultima settimana.

Quando tirare le somme diventa una necessità, sono i Pirenei a fare da cornice ai numerosi tentativi di mettere in difficoltà la corazzata in total-white, tentativi vani ma non certo per mancanza di qualità.

Lo scenario è sinistramente simile a quello delle Alpi: nella prima tappa dopo il giorno di riposo il gruppo si prende una giornata di ferie, in fuga sono 47, una specie di fuga-bidone ma senza il bidone, il distacco dalle posizioni nobili di classifica è esagerato per chiunque. Andate pure, noi stiamo bene qui. Ovviamente in fuga c’è anche Alaphilippe, vero idolo del pubblico di casa di questa edizione del Tour. Sulla discesa del Portet d’Aspet un veterano come Gilbert imposta malissimo una curva, impatta violentemente contro il muretto e viene catapultato nel dirupo. Interminabili minuti di silenzio e poi la bella notizia: tutto ok, solo un gran volo, arriverà in fondo per poi alzare bandiera bianca. Al Tour non ci si ritira in corsa. Sul Col du Portillon è Yates a salutare tutti, una vittoria di tappa darebbe un senso al suo Tour. Questo però è anche e soprattutto il Tour di Alaphilippe. Yates si sdraia in discesa, Julien lo passa e arriva in fondo a braccia alzate.

L’atmosfera si scalda nella tappa successiva, una tappa in provetta; 65km praticamente senza pianura, un’apnea da Bagnères-de-Luchon a Saint-Lary-Soulan. Vince Nairo, almeno una gioia, tempo due giorni e si pianterà definitivamente dando l’impressione di essere il peggior Quintana degli ultimi sei anni e non è un buon segno. Intanto però vince, in solitaria, mentre dietro se le danno di santa ragione. Bardet non è mai della partita, ci prova ma non è cosa. Alla prossima Romain, hai ancora tantissimo da dare. Il duopolio Sky si spezza, Froome cade sotto i colpi di Roglic e Dumoulin, lui che aspettava solo un pretesto per attaccare il compagno di squadra, lui che alla fine è costretto ad arrendersi all’evidenza: questo è il Tour di Thomas.

La tappa di Pau è un’appendice di cui nessuno sentiva il bisogno a parte Démare, chirurgico a sfruttare le pene di un Sagan debilitato da una caduta (e capace di portare la maglia verde a Parigi solo perché è un maledetto lottatore). Il francese si è dannato l’anima (forse con l’aiutino) per non naufragare sulle montagne, adesso si porta a casa il macinato che tanto bramava.

Ci sarebbe un’altra chance per attaccare Thomas, condizionale d’obbligo perché il gallese non mostra il minimo segno di cedimento, titanico nel suo modo di reagire a ogni scatto dei rivali. Ci provano Landa e Bardet da lontano ma è un’impresa disperata, ci provano Dumoulin e Roglic sull’Aubisque ma niente da fare. Una lunga discesa verso l’inevitabile cronometro di Espelette, forse troppo lunga per i gusti di chi comanda la gara. Primož Roglic, il più underdog tra i favoriti, corona un Tour corso da predestinato con una discesa che per tecnica e follia rimane una delle istantanee più iconiche di questa edizione. Diciannove, sudati e meritati, secondi guadagnati sui migliori. Un proiettile.

Un po’ come Froome quando sta bene, e nella crono finale sta una meraviglia, dopo tre settimane passate a ricevere insulti, sputi, rappresaglie, critiche, la vendetta sembra dolcissima per chi dopo la vittoria del Giro è comunque riuscito a fare podio nella Grande Boucle. Sembra, perché Tom Dumoulin è campione del mondo di specialità e su una bici da crono ha quella forma affusolata che si sposa perfettamente con la strada. Un misero secondo, tanto divide l’olandese dal britannico, tanto basta al capitano della Sunweb per portare a casa la tappa e un secondo posto che fa pendant con quello del Giro. Non che servisse per certificare l’ascesa di un campione nel circus, ma tant’è.

Soffre tremendamente Roglic, specialista stremato dalle fatiche di un’impresa più grande di lui, costretto a rinviare l’appuntamento con il podio francese ma anche in questo caso le sensazioni sono di un ragazzo che rivedremo spesso in testa ai grandi giri.

Impietoso invece il bilancio per la Movistar, con Quintana protagonista di una crono-horror sufficiente solo per salvare il decimo posto nella generale. Leggermente meglio Landa, che si difende come può contro il tempo, chiudendo il suo Tour al settimo posto, alle spalle di un ottimo Kruijskwijk e di un rivedibile Bardet, mai realmente in grado di azzannare un Tour che rimane in casa Sky, perché Thomas non viene colto da crisi identitarie e scrive la parola fine sul Tour de France 2018.

Kristoff regala l’ultima cartolina dagli Champs Elisee, tra i velocisti di un certo peso mancava solo il campione d’Europa all’appello, nel giorno che la Francia, il Galles e il mondo celebra un ciclista formidabile entrato nel pantheon dei grandi sottovoce, silente, palese solo nel momento decisivo.

Well done G!

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