Nulla è per sempre

Sebastiano Iannizzotto
Crampi Sportivi
Published in
5 min readJun 5, 2017

Definiamo la nostra identità di esseri umani e di tifosi per negazione. È qualcosa che ho imparato quando andavo alle elementari. Erano gli anni ’90, i miei compagni di classe tifavano tutti per la Juve e io, invece, ero l’unico che teneva per l’Inter, nonostante il pressing di due zii per farmi abbracciare il lato oscuro della forza (pressing culminato nella visione in pizzeria della finale di Champions del ’96, Ajax — Juventus). Se dovessi cercare le radici di una certa attitudine anti-juventina, forse dovrei tornare proprio a quegli anni: se i bambini sanno essere molto crudeli, quelli juventini forse riescono a esserlo un po’ di più.

Per uno cresciuto con un certo risentimento nei confronti dei colori bianconeri (il fallo di Iuliano su Ronaldo e le lacrime del 5 maggio sono stati due punti di non ritorno), trasferirsi a Torino è stato un po’ come scegliere di vivere all’inferno. Ho imparato a convivere con i festeggiamenti per gli scudetti, praticamente ogni anno da quando sono arrivato sotto la Mole. Ma non sarei stato pronto a sopportare quelli per il Triplete.

Non è un grande momento storico per tifare una squadra che non sia la Juventus. In questa stagione, forse ancora più delle precedenti, l’impressione di forza e di imbattibilità emanate dalla Juve è stata assoluta e irrimediabile. Come se fosse qualcosa che trascende i ventidue giocatori in campo: una forza che trascina alla vittoria indipendentemente dalla volontà degli avversari, indipendentemente, anche, dalla volontà degli stessi Higuaín, Dybala, Buffon, Chiellini, Dani Alves. Questa forza primitiva si è manifestata dappertutto: in Serie A, in Coppa Italia e, soprattutto, in Champions League.

L’Europa è sempre stata il rifugio degli anti-juventini, la speranza di rivincita incarnata in maglie blaugrana o in nomi teutonici difficili da pronunciare. Non credo a quelli che dicono “nelle competizioni europee tifo per le squadre italiane”, neanche quando la giustificazione è l’avanzamento nel ranking UEFA che si traduce in un posto in più in Champions.

Non si tratta di gufare. È più una questione di trovare uno sbocco per l’insoddisfazione causata dallo strapotere bianconero in campionato. Rosicare non è il male assoluto: è una forma di compensazione.

Nel caso di Juventus-Real Madrid, per me, la questione in ballo era la difesa dell’unica impresa degna di nota compiuta dall’Inter in ventotto anni di tifo: il Triplete del 2010.

Più mi avvicinavo al 3 giugno, più si faceva strada la paura, alimentata dall’aura di imbattibilità che avvolgeva la Juventus. Nella mia percezione erano come quell’Inter lì, quella di Mourinho: solidi come una station-wagon tedesca, così sicuri dei propri mezzi da sconfinare nell’arroganza. Ogni volta che la Juve è scesa in campo, in questa stagione, l’ha fatto con una sorta di sfrontatezza controllata e, soprattutto, senza alcun timore degli avversari, tanto da non soffrire nemmeno il peso del blasone del Barcellona. Per questo la data del 3 giugno ha assunto sempre più i connotati di una cancellazione: il nostro record riscritto con i colori bianconeri; il Millennium Stadium di Cardiff, che già nel nome ha qualcosa di futuribile e fantascientifico e più contemporaneo, avrebbe soppiantato il Santiago Bernabeu di Madrid, un luogo che, a differenza del primo, porta il peso di tantissima storia e di tantissime storie.

Quando ho detto agli amici juventini che avrebbero vinto (scatenando la corsa ai gesti apotropaici più disparati), ci credevo davvero. Ero rassegnato. D’altronde nessun record è per sempre. La storia ha continuato ad andare avanti, mentre l’Inter si è fermata a quel 2010. Il problema, forse, è proprio questo: ci siamo incastrati nella nostalgia e nella sua degenerazione più deleteria, ovvero la nostalgia giustificatrice. Da sette anni non vinciamo più nulla, ogni stagione è deprimente, quindi cerchiamo rifugio in quel momento di gloria. Snoccioliamo la formazione scesa in campo contro il Bayern come se fosse una specie di preghiera. Ci crogioliamo a rivedere la finta di Milito, quel movimento così peculiare, adesso anche in formato gif, un loop continuo in cui ci siamo rinchiusi per non guardare in faccia un presente di miserie. Ripensiamo a Mourinho come a un vecchio amore del liceo: qualcosa teneramente nostro che ci ha accompagnato, tenendoci per mano, nell’età adulta per poi andare via con un sorriso, lasciandoci senza punti di riferimento, sperduti in un mondo troppo grande e complicato.

L’idea di perdere tutto questo è stata terrificante, all’inizio. Con l’aggravante che il nuovo pezzo di storia l’avrebbero scritto i rivali di sempre, l’incarnazione del male, la nostra nemesi.

Tutte queste convinzioni sono state messe in dubbio sabato. Più guardavo negli occhi gli juventini, più mi convincevo che, forse, era giusto dire addio al Triplete. Guardavo le sciarpe e le bandiere, qualcuno indossava la maglia di Del Piero come una specie di talismano, e in me si faceva strada la convinzione che era giusto dire addio a quel pezzo di storia, che era giusto, in un certo senso, passare il testimone alla squadra più forte hic et nunc. Mi sarei messo il cuore in pace, avrei subito valanghe di post trionfanti e tronfi. Perché una cosa è cambiata rispetto al 2010: i social network sono diventati un’estensione del nostro pensiero e delle nostre vite, quando non le hanno sostituite del tutto.

Del 22 maggio 2010 ricordo tutto: la corsa al mattino su fino all’Alhambra, come una specie di pellegrinaggio; l’attesa consumata spulciando i quotidiani spagnoli; le birre bevute a un tavolino stretto stretto con i miei amici e due ragazzi di Monaco di Baviera; la maglia (l’unica originale che io abbia, stagione 1999/2000) indossata mentre Zanetti sollevava la coppa; la telefonata a mio padre e mio fratello, in Italia, che piangevano; l’ubriacatura e il cielo notturno di Granada visto dalla terrazza di casa. Ieri ho ripensato a tutto questo e, per la prima volta in 28 anni, ho provato empatia per i tifosi juventini. Ho immaginato l’attesa, le aspettative, la paura. Probabilmente gli stessi sentimenti che io ho provato in quella giornata di sette anni fa.

Sabato sera ero pronto: avrei sofferto un po’, ma avrei lasciato andare il Triplete. Azzeriamo la storia, ricominciamo daccapo, basta nostalgie, basta pelle d’oca nel ripensare a Maicon che galoppa sulla fascia, basta sognare la santa triade Sneijder-Milito-Eto’o. Eppure. Come si fa a lasciare andare i ricordi? Come si fa a cedere un pezzo del tuo cuore?

Sulla partita non c’è molto da dire: quell’impressione di imbattibilità è svanita di colpo. Una squadra di fantasmi, una certa inconsistenza che un interista comprende e riconosce subito.

Mentre tornavamo a casa, abbiamo incrociato tanti tifosi: alle fermate degli autobus, seduti sul marciapiede a mangiare un kebab, con le facce cupe e le sciarpe ancora al collo. Nella sconfitta li ho sentiti ancora più vicini. Quella delusione è qualcosa che tutti, in fondo, abbiamo provato.

Alla fine, alla soddisfazione per la sconfitta altrui, si è aggiunta anche un po’ di mestizia. Un sollievo triste, che è arrivato come qualcosa di inevitabile, come un gol al novantesimo. Sono le regole del gioco.

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