Che fine ha fatto Adriano, l’Imperatore?

Crampi Sportivi
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6 min readFeb 17, 2016

Tempo fa ho fatto un sogno. Giocavo a calcio sull’orlo di un vulcano. Il campo girava tutto intorno al cratere, si giocava a una porta sola e non c’erano falli laterali: da un lato la palla si sarebbe persa nel ventre scuro del vulcano, dall’altro sarebbe scivolata giù lungo un pendio di rocce nere. Nella mia stessa squadra c’era Adriano. Era grosso come un supereroe Marvel, più Colosso che Hulk. Era l’Imperatore nella sua versione migliore, quello della stagione 2004/2005, quello dei 28 gol (di cui 10 in Champions League) in 42 presenze con la maglia dell’Inter.
Vederlo giocare su quel campo alla fine del mondo era uno spettacolo. Adriano era di nuovo come lo ricordavo. Era la risoluzione di un paradosso: la potenza della dinamite e la grazia di un ballerino del Bol’šoj, la forza di un carrarmato e il talento di un artista. Giocava senza paura di finire dentro il vulcano o giù per il pendio. Giocava sempre al limite.
Mi sono svegliato con un magone senza rimedio. In pausa pranzo, mentre mangiavo un anemico riso basmati davanti al pc, ho cercato su YouTube “Adriano Leite Ribeiro”. Il titolo del primo video riassume in due parole la parabola calcistica e umana dell’Imperatore: “Life Wasted”.

Dura 8 minuti e 58 secondi. Nella prima metà, la colonna sonora è Life Wasted dei Pearl Jam, il cui ritmo incalzante rende ancora più epiche le azioni mostrate e ne amplifica il tasso di fomento. Quello che stride è il testo. Il ritornello, “I escaped it/a life wasted/I’m never going back again”, suona beffardo e triste: so benissimo che quella gloria è svanita, che la grandezza di Adriano si è dissolta, che l’Imperatore non è più temuto, che non è riuscito a non sciupare la sua vita. Il peso del fallimento arriva irrimediabilmente nella seconda parte del video. La canzone è Gone, sempre dei Pearl Jam. Questa volta è una ballata acustica su cui si adagia la voce sconfitta di Eddie Vedder (“No more upset mornings/no more tired evenings/this American dream/I am disbelieving […] I’m gone”).

Alla fine degli anni ’90, per come ricordo io il calcio e per la percezione semplificata che ne avevo da bambino, gli attaccanti si dividevano in due categorie: il centravanti classico, grande e grosso, forte di testa ma con piedi non sempre eccellenti, a cui era richiesto di stare in area di rigore a caccia di palloni da spedire in rete; la seconda punta agile e veloce, tecnicamente abbastanza dotata, incaricata di un lavoro di supporto al centravanti, un assistente, una specie di Watson o di Alfred, a seconda che vi piaccia di più Sherlock Holmes o Batman. Mi rendo conto che si tratta di categorie un po’ riduttive, ma basta non vederle come dogmi, era soltanto una mia percezione. Una percezione che Luís Názario da Lima aveva fatto vacillare parecchio, ma che Bobo Vieri aveva poi riconfermato. Adriano si inserì proprio in mezzo ai due poli formati idealmente da Ronaldo e Vieri. Per me fu una cosa esaltante, perché al talento Adriano aggiungeva una forza fisica animalesca, primitiva. Nella preparazione al tiro, quel delizioso tocco di esterno sinistro per allontanare il pallone quanto basta per poter caricare il sinistro, c’era la memoria di un gesto ancestrale, qualcosa che ha a che fare con l’amigdala.

Guardarlo giocare era come assistere a un evento naturale, un uragano o un terremoto o un’eruzione vulcanica, una di quelle cose che succedono al di là della volontà umana.

È bellissimo guardare un uragano da lontano. Un po’ meno bello è trovarsi sulla sua strada. L’avranno pensato anche i difensori dell’Udinese, quando Adriano li spazzò via.

https://www.youtube.com/watch?v=MlKZtPXBXDw

Lo scontro fisico devastante, la corsa esplosiva, il sinistro rabbioso che piega le mani del portiere: mi pare che in questi sette secondi scarsi ci sia tutta l’essenza di Adriano.

Il fatto che delle forze primitive si facessero carne e muscoli mi lasciava (e mi lascia tuttora) senza fiato.

La cosa impressionante era che un carrarmato di quel tipo era capace anche di gesti morbidi come il velluto.

Nello stile di gioco di Adriano, il corpo, ancora di più della tecnica e della potenza di tiro, ha un ruolo fondamentale. Il suo era simile a quello delle divinità nella scultura classica.

L’Imperatore usava il corpo come uno scudo per proteggere la palla e come un’arma per vincere i contrasti. Marcarlo poteva risultare parecchio difficile.

Il suo corpo era divino, sacer e sanctus come quello degli imperatori romani. Questi ultimi erano votati alla vittoria purché il loro comportamento fosse pius: in questo caso avrebbero goduto della protezione divina. Una cosa simile può dirsi di Adriano: finché si comportò da atleta, fu inarrestabile. Il declino arrivò quando iniziò a vivere come uno studente Erasmus: feste, alcool a fiumi, ritardi agli allenamenti (a cui si presentava in condizioni pietose). E iniziò anche il declino del suo corpo non più sacro.

Le azioni esaltanti, i dribbling, i gol, le cannonate di sinistro acquistano un retrogusto amaro, hanno il sapore del rimpianto, di quello che avrebbe potuto essere e invece non è stato.

Quando il sinistro infuocato di Adriano apparve per la prima volta al Bernabeu, nell’estate del 2001, fu chiarissima ai miei occhi la promessa di un futuro brillante per quel ragazzetto arrivato dal Flamengo con un soprannome buffo, Pipoca (la madre lo chiamò durante una partita in strada per dirgli che i popcorn erano pronti). Per un interista, Adriano racchiudeva in sé una sorta di nuova versione di Ronaldo, il grande amore nerazzurro per antonomasia. Alla tecnica del Fenomeno univa una potenza sovrannaturale, un fisico indistruttibile che il fragile Ronaldo non aveva mai avuto.

Quello che nel 2001 non sapevo era che anche Adriano era fragile, nonostante le spalle larghe e lo sguardo torvo da cattivo dei film d’azione. Ci sarebbero voluti alcuni anni per capire che la fragilità dell’Imperatore era tutta nella testa, o nel fondo dell’anima, al di sotto della corazza dei muscoli, nascosta dalle scintille prodotte ogni volta che il suo sinistro impattava con il pallone. Adesso che so com’è andata a finire la storia (nonostante si sia aperto un nuovo capitolo con la recente firma per il Miami United) mi sono chiesto quand’è che Adriano si è smarrito, quand’è che nel suo cuore si è rotto qualcosa, quand’è che si sono aperte crepe profondissime nella sua psiche di cristallo. Non riesco a individuare un momento preciso. Probabilmente è stata l’improvvisa morte del padre a scavare in mezzo al petto di Adriano una voragine gigantesca che lui ha tentato di colmare con alcool, festini, compagnie discutibili. Da un certo momento in poi, l’Imperatore è finito dentro a un buco nero che ha inghiottito il suo talento adamantino e la sua esistenza.

L’ultima tappa della mia nostalgia di Adriano è stata il suo account Instagram. E qui è arrivato il colpo di scena: l’Imperatore è felice. O almeno così sembra, perché, come dice la mia fidanzata, le foto sono belle perché mentono un po’.

Adriano è tornato a casa, da dove era partito quindici anni fa.

Il ritorno alle radici, in quella Vila Cruzeiro dove Pipoca aveva mosso i primi passi da calciatore, sembra aver fatto tornare il sorriso sul volto dell’Imperatore. Come uno studente fuorisede che ha nostalgia del luogo in cui è nato, della sua famiglia, dei suoi amici, Adriano ha sofferto molto, nei suoi anni in Europa, la lontananza da casa.

Gli anni bui sembrano ormai alle spalle grazie alla vicinanza degli affetti.

C’è poco spazio per il calcio. Alcune foto ritraggono l’Imperatore in Francia, nel tentativo di rilanciare la sua carriera al Le Havre (trasferimento saltato perché il presidente in pectore Christophe Maillot non è riuscito a fornire le garanzie economiche necessarie a rilevare le quote di maggioranza del club).

C’è spazio invece per i ricordi legati al pallone.

Ma quello che, adesso, sembra contare di più per Adriano sono la famiglia e gli amici, il ritorno a una dimensione domestica (o, al massimo, di quartiere).

Per ora, nessuna traccia fotografica della firma per il Miami United. La voglia di tornare quello di un tempo c’è, forse.

Non credo che la gloria calcistica del passato possa rinnovarsi (“you can’t repeat the past”, direbbe Francis Scott Fitzgerald). Quello che è tornato è il sorriso di un ragazzone di 34 anni che sta tentando di sfuggire a quell’ombra che, fino a non molto tempo fa, sembrava potesse inghiottirlo e farlo scomparire.

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