Chi è rimasto

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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8 min readSep 17, 2015

Spagna

Il prologo naturale per capire le parole di Pau Gasol al termine del vittorioso quarto di finale contro la Grecia è databile 10 Settembre. Il fallo di Claver (segnatevi il nome, ne riparleremo), anche se di discutibile interpretazione, permetterebbe a Dennis Schroeder di impattare e di spostare emotivamente lo spareggio che porta agli ottavi. Il play degli Hawks sbaglia l’ultimo libero, permettendo alla squadra di Scariolo di arrivare con qualche affanno di troppo alla fase successiva e spostarsi in terra Francese per conquistare l’ennesimo trionfo iridato continentale.

Visto che siamo sentimentali abbiamo evitato accuratamente di inserire la parte degli applausi a Nowitzki per evitare di versare ancora una volta calde lacrime.

Poteva essere il viaticum giusto per trovare brillantezza agli ottavi, ma la Polonia è un avversario che si prestava in maniera perfetta a smussare gli angoli offensivi degli iberici e il match s’è protratto in maniera equilibrata fino al 59 pari di fine terzo quarto. Sembrava che anche questa volta prevalesse quell’aspetto un pochino naif che in una competizione così serrata può essere fatale: il dire, “talento a bizzeffe, ma agonismo e palle rivedibili”.

Distrutta da una stagione che dai due lati del Globo ha minato le certezze fisiche dei suoi protagonisti (Rudy Fernandez ha tare tali alla schiena che credo faccia fatica ad allacciarsi le scarpe), ha rischiato di vedersi anche un Gasol ridotto ai minimi termini da un infortunio al polpaccio. Quel termine, naif, è stato spesso accostato a una delle più grandi macchine di fondamentali prodotte dal Vecchio Continente ; ma il Gasol di questa edizione degli Europei è davvero extralusso.

Al netto di amnesie difensive frequenti ( che possono essere tollerate visto che il D.N.I. del nativo di Barcellona dice 1980), stiamo parlando di quello che se finisse oggi l’Europeo sarebbe a mani basse l’Mvp. E contro la Polonia ha allargato il suo raggio di tiro di un paio di metri: i risultati son stati questi…

Piove, governo di Catalunya ladro.

Spalle al muro ancora una volta, la Spagna riusciva a rimandare il plotone d’esecuzione, ma la pressione da sfavorita la portava al match contro la Grecia senza nulla da perdere. È dal 1999 che negli Europei questa squadra arriva tra le ultime quattro, ma mai come quest’anno lo fa snaturando le convinzioni, ponendosi da underdog e sfidando una Francia che non ha avuto troppi problemi a sbarazzarsi della Lettonia.

Ma, come dice Pau nel Vine di presentazione al pezzo, sono qui in Francia, #SomosunEquipo e in singola gara a eliminazione diretta non scommetterei per forza contro di loro: specie quando si inizia a sentire a minuti il tintinnio di medaglia.

Francia

5 motivi per cui la Francia può vincere questi Europei

1. il luogo

La fase iniziale del torneo si è divisa tra Germania, Croazia e Lettonia, ma la fase finale la si gioca tutti nel profondo nord della Francia, a Lille. Per una competizione così intensa, dove le gare si susseguono ravvicinate, avere il pubblico tutto per te è una risorsa enorme, soprattutto quando le partite si giocano allo Stade Pierre-Mauroy, uno stadio da calcio coperto e adattato per il torneo. Quanto al fomento i francesi non si fanno pregare.

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2. il lungo

Rudy Gobert, classe ’92, centro degli Utah Jazz, 2 metri e 13 ma forse pure un filo di più. Centro mobile, guardiano del ferro (il suo), martellatore di ferro (il tuo). Se avvistato in campo aperto si prega di chiudersi in casa.

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3. il piccolo

Tony Parker.

Neanche dovrei metterci un video.

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4. lo smilzo

Nicolas Batum vuole davvero tornare a vincere gli europei e vuole davvero dimostrare la continuità che da sempre è additata come il suo limite. Quindi non lo fate rodere.

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5. il maestro spirituale

Boris Diaw su una competizione di partite secche, giocate a un ritmo europeo, fatte di dettagli, di singole azioni, di freddezza, di testa, può spostare tutto, può spostare anche l’intero stadio e portarlo in un’isola in mezzo al mare, con la sola forza della mente.

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Serbia

Never underestimate the heart of a champion!” 4 settembre 2014 Mondiali di Pallacanestro in Spagna. Sasha Djordjevic allenatore della Serbia vede i suoi ragazzi inermi al cospetto dei fortissimi padroni di casa che si prendono anche il lusso di schernirli con molti dei loro “uomini simpatia”. La partita termina 89–73 per le Furie Rosse ma il loro dominio va aldilà del punteggio finale. La Serbia, qualificatasi al quarto ed ultimo posto disponibile del proprio girone, sembra avviata ad una veloce eliminazione agli ottavi di finale contro la Grecia (con la quale i rapporti non erano poi così buoni…) imbattuta fino a quel momento.

Ma “never underestimate the heart of a champion; Sasha che da giocatore non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi di perdere una partita, figuriamoci quella di essere toreati da chicchessia, riesce dopo un anno alla guida della nazionale serba a trasmettere ai suoi giocatori lo spirito dei gloriosi tempi andati. La Serbia surclassa la Grecia e conquista un incredibile secondo posto, perdendo solo la finale contro gli imbattibili USA. In quel 4 settembre 2014 nasce la grande Serbia che si appresta ad affrontare da imbattuta la Lituania, nonostante fosse stata inserita nel terribile gruppo B (insieme alla Germania di Schröder e Nowitzki, l’Italia, la Spagna, la Turchia l’Islanda), in questi Europei.

Il basket della Serbia è una gioia per gli occhi, basato sul movimento continuo, della palla e dei giocatori, che valorizza la grande intelligenza cestistica dei loro uomini. Se non si trovano gli spazi giusti per un buon tiro e l’azione sta per arrivare allo scadere dei 24 secondi, niente panico: palla a Milos Teodosic e ci pensa lui, o con tiro da otto metri o con un passaggio geniale o con il buon caro vecchio amico “pick and roll”, con quell’orco a centro area di Miroslav Raduljica. Oltre al divino Milos, questi Europei hanno visto la definitiva esplosione di una altro giocatore serbo, ossia il neo acquisto dei Minnesota Timberwolves (occhio nei prossimi ai Timberwolves ndr.) Nemanja Bjelica.

Bjelica è il prototipo del giocatore slavo d’antan: alto due metri e 10 ma con la proprietà di palleggio e di passaggio di un piccolo, e capacità di fare tutto su campo da basket ma al quale, per un motivo o per un altro, mancava sempre un centesimo per fare un euro. In questa stagione ha capito che le sue doti da sole sarebbero rimaste per sempre fini a loro stesse ed ha aggiunto al suo bagaglio una solidità mai vista prima.

Rifatevi gli occhi.

I serbi sono il miglior attacco dell’europeo e primi per distacco per assist, con 25,3 passaggi decisivi a partita (in questo avere Milos aiuta) e sembrano non avere punti deboli. Djordjevic è riuscito nel suo obiettivo: riportare ai giocatori serbi l’orgoglio per la divisa del loro paese ed in Serbia l’orgoglio per la propria nazionale di pallacanestro, proprio come accadeva ai suoi tempi. Basterà per conquistare l’oro?

Lituania

Quando il crollo del blocco sovietico ha frammentato l’Europa Orientale, i ritagli che hanno cominciato a dichiararsi indipendenti hanno dovuto trovare un simbolo attorno a cui radunare uno rinverdito spirito patriottico. Dalle parti del Baltico, i poco meno di tre milioni di lituani ne hanno scelto uno un tantino eccentrico da affiancare alla croce cattolica, che li separava definitivamente dalla ortodossa grande madre Russia. Quest’oggetto arancione a spicchi, di forte accento statunitense è la parte profana dell’identità lituana, ma non per questo degno di minor venerazione. Bastavano le panoramiche nell’infinito impianto di Lille durante i time-out per comprendere l’ossessione dionisiaca che il popolo verde prova verso questo gioco. Una prateria di bandiere e facce dipinte che fremevano per una battaglia che avrebbe portato la Lituania all’ennesima semifinale europea della sua breve storia sportiva, la quarta nelle ultime otto edizioni, quelle in cui la formazione baltica si è potuta presentare sotto la propria bandiera. Probabilmente la più insperata.

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La squadra di Kazlauskas si è presentata a Lille nell’inedito ruolo dell’outsider, con una squadra decisamente meno competitiva rispetto a quelle che hanno scritto la storia del basket continentale, ma ha dimostrato che anche volendo non è in grado di recitare un ruolo da comprimaria in questo genere di competizioni. E infatti, dopo un girone deludente e una prova opaca contro la Georgia, salvati dal kalashnikov di Maciulis, eravamo tutti già pronti per il de profundis di una squadra senza stelle e soprattutto senza leader. Invece la Lituania ha ricordato per l’ennesima volta a tutta l’Europa il motivo per il quale sul Mar Baltico il basket non è considerato un semplice sport ma una vera e propria religione. E come ogni culto che si rispetti ha i suoi riti e i suoi cerimoniali. Quello praticato dai lituani si chiama Flex Offense.

La Flex non è uno schema offensivo, è un modo di vivere. Ti insegna a rimanere in continuo movimento, a lavorare senza sosta sui fondamentali (perché bisogna conoscerli tutti), a non considerarsi mai insostituibili e a credere dogmaticamente nel sistema. Ieri sera la squadra lituana grazie a questi suoi principi base è riuscita a sopravanzare un’Italia dotata di un tasso tecnico notevolmente superiore ma incapace di replicare l’inimitabile senso del collettivo dei baltici. Ovviamente si è dovuta appoggiare ai suoi giocatori più rappresentativi, a quel Maciulis ormai nella parte terminale della propria carriera ma che rimane il perfetto rappresentante della scuola cestistica lituana, capace di essere pericoloso sia spalle a canestro sia dietro la linea da tre, di difendere su qualsiasi cambio e di infondere sicurezza a tutti i suoi compagni e all’ultimo discendente della nobile casata dei pivot della terra dei boschi, ora trasferito in Canada, che è rimbalzato dalla disastrosa prova contro la Georgia dominando il pitturato con una doppia doppia di quelle non banali, da ventisei più quindici. Ma non è leggendo le statistiche dei top scorer che si può comprendere la pallacanestro lituana, bisogna scavare, trovare le motivazioni di un’efficenza offensiva che porta a tirare con il 61% da tre e ad assistere ventotto conclusioni sulle trentasei mandate a bersaglio.

I baltici ti colpiscono esattamente dove sei più vulnerabile, perché hanno le caratteristiche tecniche per farlo e la lucidità tattica per leggere instancabilmente le scelte difensive e adattarsi conseguentemente. E punire gli errori, quelli che l’Italia ha commesso troppo spesso, nonostante abbia avuto anche il pallone per le semifinali.

Sembra che dopo l’incredibile vittoria in quella storica semifinale olimpica nel 2004 la nazionale azzurra non riesca più a sconfiggere questo piccolo ma fiero paese verso il quale, forse perché praticamente coetaneo, ho sempre avuto un’immensa ammirazione. Fin dalle prime volte che li ho visti in campo sono stato rapito dalla loro capacità di coordinare la leggerezza del gesto con la sua lucida funzionalità, come se fossero degli elfi dei boschi cresciuti a dismisura o un manipolo di discepoli di Dalcroze discesi da Hellerau. Comunque sia, una tribù eletta, nata per avere un pallone tra le mani e che in ogni momento può decidere di insegnare ai comuni mortali quali sono le regole auree per vincere nello sport chiamato pallacanestro. Contro la Serbia assisteremo ad una sfida tra i due modi più puri di considerare la pallacanestro come espressione collettiva di un popolo, di due nazioni intere per cui una partita significa molto più di un semplice confronto agonistico.

A cura di Sebastiano Bucci, Valerio Coletta, Francesco Zanza e Lorenzo Bottini.

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