Chi ha incastrato la working class?

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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7 min readNov 1, 2017

Il calcio è lo sport più seguito al mondo, ma sarebbe bello che gli stadi possano essere pieni un po’ ovunque. Ciò dipende in parte dalla passione, ma anche dal prezzo di un biglietto, un criterio ineludibile per l’ingresso allo stadio. E nei teatri dei sogni che la Premier League ci propone — sempre pieni di gente e atmosfere positive — c’è qualcosa che non va. Ne abbiamo parlato con Anthony Weatherill, nipote di Matt Busby (che già qui ci aveva detto la sua sul calcio europeo che cambia). Enjoy.

Secondo recenti studi statistici, il reddito mensile di un volenteroso appartenente alla working class inglese (recentemente ribattezzata tristemente “working poor”, a causa dell’alto costo della vita di città come Londra, Brighton e Oxford) si aggirerebbe intorno alle 1200 euro. Questa notizia letta casualmente su un giornale economico, mi ha rifatto venire in mente alcuni scambi di opinioni avuti con alcuni tifosi del Manchester United, che si chiedevano come fosse possibile per un cameriere (stipendio medio annuo di 16.000 euro) o un cassiere di banca (stipendio medio annuo 17.000 euro) permettersi un biglietto dal costo minimo (e sottolineo minimo) di 100 euro per assistere a una partita all’Old Trafford.

La conclusione, un po’ rabbiosa un po’ malinconica, fu che un tipico stipendio medio inglese ormai lo United lo poteva vedere solo in televisione, rievocando con amici e parenti come era bello andare all’Old Trafford a vedere le gesta di George Best o Bobby Charlton.

Allora, siccome un ricordo porta con sé un altro ricordo, ho tirato fuori da uno di quei cassetti dimenticati nel tempo il testo integrale del “Rapporto Taylor”, commissionato nel 1990 dal governo presieduto da Margaret Thatcher. Era l’aprile del 1989, quando 96 persone perirono, schiacciati verso le recinzioni e le pareti dell’Hillsborugh Stadium di Sheffield, nel corso della semifinale di F.A. Cup tra Liverpool e Nottingham Forest.

Il dolore che attraversò l’opinione pubblica inglese fu del tenore di quelli dei giorni più dolorosi che hanno attraversato la storia dell’Isola, un dolore che il primo ministro non poteva e non voleva ignorare. Margaret Thatcher, che non amava molto il mondo del calcio, decise che la misura era colma e diede ordine di istituire una commissione inchiesta presieduta dal giudice Lord Peter Taylor di Gosforth. I risultati dell’inchiesta, contenuti in quello che passerà alla storia come Rapporto Taylor, convinsero il governo di Sua Maestà che il calcio inglese andava completamente ripensato.

Da quel momento fu stabilito che gli stadi — ricordiamo che in Inghilterra sono di proprietà dei club — dovessero obbligatoriamente essere ristrutturati e dotati di posti solo a sedere. Inoltre, per ragioni di sicurezza, tutti i settori degli impianti dovevano essere coperti da telecamere di sorveglianza.

È stato bello, sia chiaro, che gli stadi inglesi abbiano assunto il tono e la fisicità di luoghi confortevoli e sicuri, ma tutto questo è stato l’inizio di una profonda divaricazione tra chi gestisce le società di calcio e i suoi tifosi. Tralascio in questa sede come i club si finanziarono per ammodernare i loro stadi (semmai sarà occasione di una qualche mia prossima riflessione sul mondo del calcio), perché vorrei concentrarmi su due punti del Rapporto Taylor che furono completamente disattesi.

La commissione d’inchiesta si raccomandò con i club di abbassare il costo dei biglietti, che stavano progressivamente avendo un’impennata verso l’alto; inoltre li invitava, anche per ragioni di sicurezza, a coinvolgere sempre di più i tifosi nella vita dei loro club di riferimento.

È quasi inutile ricordare come l’avvento di Rupert Murdoch e del suo mondo dorato di Sky abbia così tanto modificato il mondo del calcio inglese da farlo diventare più un prodotto che una competizione sportiva. Con i soldi del magnate australiano, i club della Premier League sono diventati delle ricche prede per uomini d’affari di ogni risma e nazionalità. I club della Premier League non solo hanno come mira quella di aumentare sempre di più i loro ricavi, ma hanno come obiettivo di far diventare i loro stadi sempre un luogo per pochi privilegiati (facendo diventare le società di calcio delle curiose varianti della figura di Robin Hood: togliere ai poveri per annoiare i ricchi).

Ormai la working class inglese, un tempo anima e cuore del tifo allo stadio, è diventata una parte, e nemmeno la più importante, dell’immensa platea televisiva planetaria della Premier League. Per la working class l’unica opzione possibile è il mondo virtuale. Niente più profumo dell’erba del campo appena bagnato, niente più ritrovarsi il sabato allo stadio per sentirsi una comunità, niente più sogni reali per chi nella vita spesso ha poco più del niente. Ecco allora gli uffici marketing dei club teorizzare strategie da “salotto” (dimenticatevi lo stadio come lo si conosceva) per vendere il calcio ormai diventato “prodotto” alla stessa stregua di una merce pensata per soddisfare un bisogno, a volte persino creato artificialmente. È bizzarro fino al patetico vedere come vogliano convincere noi tifosi a comprare un prodotto di cui siamo già convinti della sua bontà. Non vorranno davvero convincermi che è bello tifare Machester United? Ma io sono già contento di tifare Manchester United!

Non lo chiamano “Il teatro dei sogni” per caso.

In questa situazione di puro business (ricordate la logica della franchigia in cui ho parlato nella mia lettera aperta al presidente dell’UEFA?), è mera utopia pensare che i tifosi possano essere chiamati a essere parte attiva dei loro club di riferimento. Il calcio nasce per essere uno sport popolare, per tutti coloro che potevano e possono immaginare una traiettoria che finisce tra i pali di una porta di uno stadio o tra due pietre che delimitano la zona del gol in un piccolo campo di periferia di ogni parte del mondo. Limitare l’ingresso in uno stadio per una questione di reddito è una delle cose più tristi accadute nel mio Paese.

Temo che questa politica dell’espellere le classi più popolari dalla vita dello stadio stia per prendere piede anche in Italia. Il famoso modello Premier League sta avendo sempre più fan tra i presidenti/padroni dei club della Serie A. È di non pochi giorni fa la dichiarazione, in un’intervista, di un presidente di una nota squadra di vertice del campionato italiano, che auspica la costruzione di uno stadio non molto grande (massimo 40.000 persone), da destinare ad un pubblico selezionato dal censo, che sarà ben disposto ad ergersi a élite del tifo proprio perché disposto a pagare un biglietto costoso (ecco farsi ancora largo la stategia dello stadio/salotto, piuttosto che dello stadio casa dei tifosi).

Del resto, come ha dichiarato questo presidente (diciamolo il nome di questo presidente: è Aurelio De Laurentiis), ormai il futuro è nella televisione, che ci garantirà sempre più necessari nuovi introiti (ritorna, come nella mia lettera aperta, la bufala dell’allargamento necessario dei ricavi). Tutti, nel nome dei necessari ricavi, vogliono costruire stadi piccoli, confortevoli e stupefacenti cornici di un pubblico facoltoso(e annoiato dalla vita di tutti i giorni) sempre più alla ricerca di un esclusivo avvenimento live. In questo quadro auspicato e perseguito, è quasi ovvio che presidenti come Aurelio De Laurentis dichiarino di volere la riduzione a 16 squadre (con una sola retrocessione) del massimo campionato nazionale.

ADL vuole lo stadio da 20 mila posti, ma a Napoli non sarebbero contenti.

È chiara l’intenzione di dividersi in meno squadre il ricco bottino dei diritti tv della Serie A, creando così anche la premessa per perseguire meglio il sogno (secondo me impossibile e anche un po’ pirata) di creare un campionato europeo esclusivo per club. A questo punto, qualcuno mi direbbe che ciò è un guardare al futuro, tentando così di condannare le mie preoccupazioni e le mie idee a un deprecabile anacronismo.

Ma io penso che non sia anacronistico ritenere che il calcio sia dei tifosi, che a un pur prestigioso Manchester United-Milan preferiranno sempre Milan-Inter o Milan-Juventus.

Credo che sia mortifero, per il nostro amato gioco, pensare a puntare sempre più in alto i ricavi, pensando alla logica franchigia/spettacolo, invece che a puntare sempre più in profondità del cuore dei tifosi. Il cuore dei tifosi non ha bisogno di un ufficio marketing che gli ricordi la loro passione; il cuore dei tifosi ha solo la necessità che la loro storia e i loro sogni siano preservati (allora vedrete quanti più ricavi ci saranno! Molti di più della logica fanchigia/marketing/stadio-salotto).

Spero che la Serie A non decida sul serio di seguire il modello Premier League, che mantenga lo spirito originario del calcio che metteva su un confronto assolutamente paritario tutte le classi sociali; spero che tutti i tifosi sentano suonare questo campanello d’allarme che io sento ogni giorno sempre più forte. Per favore, non facciamoci convincere che un bisogno diventi una necessità.

Il primo campionato della massima serie inglese fu disputato nel 1888/89, e vide la vittoria, su 12 squadre, del Preston North End. Immagino la gioia che provarono quei tifosi di Preston, una piccola città della regione del Lancashire di poco più di 100 mila abitanti. Non deve essere stata molto diversa da quella provata poco tempo fa dai tifosi del Leicester, che rivendicarono il fatto che, grazie al calcio, ora il mondo si era accorto di loro e della loro comunità. A Preston era nato anche Robert William Service, che fu un più che discreto scrittore e poeta e che credeva nella forza dei sogni.

Service ebbe modo di scrivere: “Sii padrone dei tuoi piccoli disturbi e conserva le tue energie per le cose grandi e utili. Non è la montagna che ti sta davanti che ti logora, è il granello di sabbia nella tua scarpa”.

N.B. Ho rivisto poco tempo fa uno di quei tifosi con cui discussi dell’aumento dei biglietti per assistere le partite all’Old Trafford. “Non posso — mi ha detto in quell’occasione — andare con mio figlio allo stadio; non posso vedermi con lui la partita in tv perché Sky non posso più permettermelo e, siccome ha meno di 16 anni, non possiamo andare insieme al pub a vederla (la legge inglese vieta l’ingresso al pub ai minori di sedici anni). Mi addolora non poter vedere insieme a lui la squadra per cui ho tifato tutta la vita. Come farò a trasmettergli i valori dello United se non potremmo più vivere insieme le sue gesta sportive?”. Anche questo si vive a Manchester nei felici giorni del mondo Sky e degli aumenti dei fatturati. Tutto questo mentre un ufficio marketing si sta preoccupando come creare un nuovo tifoso dello United a Pechino.

Articolo a cura di Luca Manes

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