Chiediamoci
“La stupidità deriva dall’avere una risposta per ogni cosa. La saggezza deriva dall’avere, per ogni cosa, una domanda” — Milan Kundera
“Ci sono due modi per avere abbastanza. Uno è continuare ad accumulare sempre di più. L’altro è di desiderare meno”. Questa frase di Chesterton, grande scrittore e giornalista inglese, offre un’interessante alternativa pragmatica, quando ci si sente frustrati dalla sensazione di non avere abbastanza, rispetto ai desideri o alle ambizioni che si hanno. Desiderare meno può essere davvero un saggio rimedio a salvaguardia della nostra serenità in vari campi della vita.
A questi vari campi della vita, però, non possiamo ascrivere la condizione di tifoso di calcio. Come si può chiedere a un tifoso di desiderare di meno, di non sperare che la propria squadra del cuore possa arrivare il più in alto possibile. Un tifoso non sarebbe un tifoso se accettasse la logica del desiderare di meno. Gli allenatori parlano di “processo di crescita”, del fatto che bisogna avere la “cultura della sconfitta”, della “necessità di fare una programmazione”, di come “le differenze dei fatturati delle società parlino in modo eloquente”. Ma mentre gli allenatori disquisiscono di questo e altro, il tifoso soffre. Perché mentre tutti le componenti del calcio (calciatori, dirigenti, presidenti, allenatori) recitano una parte in una commedia (e da questa commedia ne ricavano soddisfacimento di propri interessi), il tifoso continua a sperare (esattamente come un qualsiasi spettatore seduto in una platea teatrale) di trarre godimento spirituale e filosofico dalla commedia a cui sta assistendo.
Sempre più spesso, però, chi recita la parte della commedia non ha davvero interesse a mettere a rischio ciò che ha conquistato.
Allora si accontenta, in nome di quel sano realismo che non si avvede di diventare, prima o poi, sordido cinismo. E il tifoso soffre e comincia a indirizzare questa sofferenza verso il proprietario della squadra del suo cuore, reo di non mostrare con cordoni della borsa allargati il necessario amore per la squadra che presiede. Se si vuol essere onesti, bisognerebbe ammettere che quasi nessuno avrebbe piacere di rischiare di dilapidare il proprio patrimonio per un amore invischiato in un gioco d’azzardo. Perché questo ormai è diventato il calcio italiano: un gioco d’azzardo. In tale gioco, quei pochi presidenti che hanno accettato di puntare numerose fiches sul tavolo verde (leggi Franco Sensi, Massimo Moratti) hanno finito per sperperare cifre che farebbero impallidire tutte le persone dotate di un minimo di buon senso. Franco Sensi si è giocato, addirittura, tutto il patrimonio familiare pur di far vincere un campionato alla Roma. E stiamo parlando di quello che fu uno dei più importanti patrimoni italiani.
Questa sciagura — perché il crollo dell’impero economico della famiglia Sensi di vera sciagura si è trattato — ha portato sì una vittoria di un campionato, ma anche di un grande fraintendimento sulle reali potenzialità che una squadra come la Roma storicamente ha sempre avuto. Un fraintendimento che James Pallotta, attuale presidente della Roma, non sta riuscendo a chiarire. Il fatturato della Roma non riesce a crescere e, per qualche misteriosa ragione, dello stadio di proprietà l’unica cosa certa è che se ne parla. Se ne parla, ma non si fa. E intanto il tifoso soffre.
La Lazio, invece, pare sia in mano a un presidente, Claudio Lotito, che gioca decine di sistemi (così raccontano fonti oculari) quando il “Superenalotto” giunge a dei montepremi discretamente milionari. Per la serie: la fortuna può bussare davvero a ogni porta. Anche la Lazio aveva in mente di costruire uno stadio tutto suo, ma di tale progetto pare si siano perse le tracce. Ma non si può chiedere di più a una persona che ha raccolto la Lazio sul baratro del fallimento a cui l’aveva portata il bancarottiere Sergio Cragnotti. E intanto il tifoso soffre.
Aurelio De Laurentiis, invece, ha l’aria di essere quello che si da più da fare: appare sempre di più come quei cani di piccola taglia che, da dietro un cancello di una grande villa, abbaiano a qualunque cosa si muova aldilà. Aveva promesso tante cose (un settore giovanile di livello, uno stadio nuovo di proprietà ipertecnologico da 20 mila posti, un nuovo centro di allenamento per la prima squadra e il settore giovanile), il buon De Laurentiis, ma fino a oggi tutto è rimasto come era ai tempi del Comandante Lauro. Tante promesse e tutti allo stadio San Paolo, ciclicamente rubricato come fatiscente.
C’è da dire non del tutto a torto, visto che basta un violento nubifragio per riconsiderare il San Paolo come teatro per le gesta della Canottieri Napoli, più che per il calcio Napoli. Per ora i complimenti giunti da ogni luogo per il bel gioco espresso dalla squadra di Sarri, per quanto foriero di nessuna vittoria, ha avuto il potere di far dimenticare ogni cosa. Per ora nessuno si chiede come una società da un ultimo bilancio di quasi 300 milioni di euro possa essere controllata al 90% da una “fiduciaria”. In pratica, in attesa di uno stadio di proprietà nuovo, non si sa di chi sia realmente il Calcio Napoli. Tutto ciò mentre la Federcalcio non si pone nessuna domanda su quello che, ricordiamolo ancora una volta, deve essere considerato un bene comune. E intanto il tifoso soffre.
Se continuiamo nel discorso della squadra di calcio come un bene comune, è davvero curioso come l’Udinese possa essere controllata da una serie di scatole societarie con sede in Lussemburgo. Questo gioco di scatole cinesi Gino Pozzo, regista di tutte gli affari dell’Udinese, non le ha potute fare con il Watford. In Premier League le norme sulla proprietà sono molte severe e Gino Pozzo ha dovuto rendere la sua proprietà molto trasparente. Analizzare le proprietà di Inter e Milan sta diventando un vero rompicapo persino per gli organismi di controllo dell’Uefa. Di Massimo Ferrero, patron della Sampdoria, si conoscono tutti i suoi insuccessi in campo cinematografico e la sua condanna per bancarotta fraudolenta, ma non da dove arrivino i soldi per gestire una società come la Sampdoria. E solo in un Italia in evidente declino etico/morale è stato possibile permettergli la gabola di mettere ufficialmente la figlia Vanessa a capo della società doriana.
In questo contesto, le amministrazioni trasparenti di Torino e Fiorentina diventano giochi contabili da piccolo negozio di generi alimentari che vogliono confrontarsi con le strategie di un ipermercato. Ma i tifosi di Torino e Fiorentina, giustamente, pretendono per il blasone delle loro squadre un destino migliore rispetto a quello attualmente occupato. Difficile rassegnarsi a un ruolo da eterni comprimari, specie se la realtà ti inchioda di fronte a dati incontrovertibili. Ha destato impressione la resa di Maurizio Sarri, dopo la recente sconfitta di campionato con la Roma: quasi a sancire che oltre certi limiti Aurelio De Laurentis proprio non può andare. Sembra tutto debba andare verso il desiderare di meno.
La sensazione è quella di una strana condizione in cui versa il tifoso, cioè quella di un innamorato che nulla può fare per migliorare la condizione dell’oggetto del suo amore.
Tale condizione d’impotenza sta facendo infuriare i tifosi sempre di più, una furia che ha come terminale i presidenti delle loro squadre del cuore. Se lo meritano sul serio? Proviamo a fare un elenco di nomi: Maria Franca Ferrero, Leonardo Del Vecchio, Stefano Pessina, Massimiliana Landini Aleotti, Giorgio Armani, Augusto Perfetti, GianFelice Maria Rocca, Giuseppe De Longhi, Patrizio Bertelli, Rosa Arona Magno Garavaglia, Miuccia Prada, Renzo Rosso, Luciano Benetton, Mario Moretti Polegato, Ennio Doris, Luigi Maramotti.
Questi 17 nomi fanno parte della lista delle venti persone più ricche d’Italia e hanno una cosa in comune: non hanno mai voluto occuparsi del mondo del calcio. Recenti autorevoli ricerche attestano che il calcio italiano incide per l’11% del Pil del football mondiale. Allora perché i super ricchi italiani se ne tengono lontani? Perché lasciano tutto in mano a misteriosi cinesi, giocatori di Super Enalotto, nebulose fiduciarie, scatole lussemburghesi, bancarottieri, operatori bottegai? I tifosi non possono desiderare di meno, ma se non si risponde a queste domande, allora bisognerebbe stare attenti quando si prefigura un Lotito, un Cairo o un Della Valle fuori dalle vicende delle nostre squadre del cuore.
Perché un vecchio adagio recita: “Quando Dio ci vuole punire, realizza i nostri desideri”. E intanto i tifosi soffrono.
Articolo a cura di Anthony Weatherill (con la collaborazione di Carmelo Pennisi)