Chris Froome: La biomeccanica contro l’istinto

Crampi Sportivi
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5 min readSep 17, 2014

Si è appena conclusa l’ultima edizione della Vuelta, vinta e dominata da Alberto Contador. Un miracolo sportivo considerando il grave infortunio rimediato al Tour De France dopo la caduta ai 76 km/h in piena discesa. Oggi però non siamo qui per elogiare l’ennesimo trionfo dello spagnolo, troppo semplice o forse troppo complicato. Quello che abbiamo visto in questa edizione della Vuelta travalica anche le imprese del madrileno, e ci riferiamo principalmente a quel corridore che sta cambiando da qualche anno il modo di interpretare le corse. Che piaccia o no, stiamo parlando di Chris Froome.

Chris Froome, insieme alla Sky, incarna alla perfezione il concetto di post-moderno applicato alla due ruote. Razionalità e calcolo, tecnologie avanzate applicate ad allenamenti intensivi, massimo profitto da ottenere dosando gli sforzi, intelligenza matematica in sopraffazione dell’inventiva irrazionale. Un bagaglio ideologico futuristico, che vede in quell’esile figura biancastra originaria del Kenya la sua massima espressione. Non stiamo parlando tuttavia di proiezioni lontane nel tempo, o di scenari pionieristici ancora da raggiungere, questo è il presente, e Chris Froome, seguendo certi parametri, ha già vinto un Tour de France.

team sky

Prescindendo da tutto ciò che ci può essere di negativo nell’interpretare il ciclismo in un certo modo, che spesso non porta neanche i suoi frutti — si prenda come esempio proprio quest’ultima edizione della Vuelta, che ha visto sconfitto il razionalismo di Froome sul talento di Contador — dobbiamo prendere consapevolezza di un semplice fatto: se le cose sono cambiate dovremmo capirne il perché, provare ad analizzarne le cause, prevedere scenari e soluzioni. Inutile perdere tempo a crogiolarsi in un’idea passata, raccontare quanto era bello quando non bisognava aspettare un km dall’arrivo per vedere scattare i corridori in salita.

Lo scenario che si trova a vivere oggi un fanatico del ciclismo, a parte rare occasioni, è quello della continua attesa. Un attesa che, proprio in vista delle sue caratteristiche, è in grado di caricarsi di significati ampi, di aspettative ad elevata intensità emotiva, di esplosioni frenetiche volte a dilatare singoli attimi — come il passaggio di un corridore e lo scatto del proprio beniamino — nel disperato tentativo di renderli immuni al tempo, semplicemente infiniti, eterni.

Che sia l’attesa sofferta dopo lunghe ore presso i lati di una strada, o quella più confortevole dal salotto del proprio soggiorno, la cosa non cambia. Fenomenologie identiche. Di queste attese, di questo passaggio di consegne tra due epoche diverse, Chris Froome è forse l’esempio più emblematico; non solo in riferimento alla gestione di corsa, collaudata attraverso azioni collettive nelle quali la squadra svolge un ruolo fondamentale, addirittura primario rispetto al singolo; quanto per la capacità di selezionare momenti prevedibili di corsa, studiare l’attimo giusto dell’attacco a prescindere da tutto quello che accade fuori da sé.

Un isolamento che aliena il corridore dalla realtà, che lo rende immune a stimoli esterni, capace solo di attivare meccanicamente la propria azione attraverso la supremazia del calcolo. È la trasformazione da uomo/corridore a bio-macchina, il passaggio dalla sintesi irrazionale guidata dall’istinto, al positivismo razionalista più sfrenato.

Tour de France 2012

Abbiamo imparato a conoscerlo nel tempo Chris Froome, e di esempi del genere ne ha forniti in quantità, inducendo all’inizio anche gli stessi “esperti” a cadere nell’inganno che certe sue azioni — come lo stare a ruota, il rimanere indietro o il perdere contatto dagli altri — fossero unicamente il sintomo di un affaticamento o di una cattiva condizione. Niente di tutto ciò.

Analizzare un’azione di Chris Froome è come rimanere spiazzati dalla conclusione di un film che non ti aspettavi, rimani leggermente spaesato, incredulo, poi a mente fredda provi a rianalizzare le cause, le motivazioni che hanno spinto a mettere in scena quello che hai visto, e forse capisci che in fin dei conti aveva ragione il regista.

Nella quattordicesima tappa di questa edizione della Vuelta è successo esattamente questo. Il giorno prima dell’arrivo, in salita verso La Campenora Valle de Sabero, Chris Froome dichiara: “A me non interessa quello che faranno gli altri, io correrò a modo mio come fosse una lunga cronometro”.

A 1,7 km dall’arrivo a rompere gli indugi è Alejandro Valverde che decide di staccare il resto del gruppo — essendo uomo da classifica generale, la logica presuppone che gli altri big seguano l’azione dello spagnolo quantomeno per rimanere a ruota — ed infatti succede proprio questo. Contador, Rodriguez e Aru seguono l’attacco di Valverde riducendo progressivamente la distanza accumulata nei pochi metri. Tutti, tranne uno: Chris Froome. Il corridore della Sky rimane in coda al gruppo con il volto schiacciato in direzione del computer posto sul manubrio della proprio bici, incurante di tutto quello che accade intorno. La conclusione teoricamente è solo una: Chris Froome è in crisi e perderà ulteriormente contatto, ma le cose vanno nell’esatto opposto. A pochi metri dall’arrivo, la telecamera stacca l’inquadratura sul gruppo dei big per un attimo per concentrarsi sull’arrivo in solitaria di Oliver Zaugg — minuto 16:15 — dopo venticinque secondi la ripresa è nuovamente puntata in direzione del gruppo, e come un fantasma riemerge la figura di Chris Froome che alza il ritmo e si mette in testa a tirare. Non ce n’è per nessuno. In pochi attimi il livello si alza ulteriormente e con un frequenza elevatissima di pedalate — minuto 19,20 — Chris Froome stacca Alberto Contador e il resto del gruppo. A fine tappa guadagnerà 7 secondi su Contador, in definitiva una sciocchezza, che non influirà minimamente sul resto della corsa.

Ma il risultato qui non ci interessa. La capacità di isolarsi dalla realtà, di affrontare un tappone di montagna come fosse una lunga cronometro, di selezionare e dosare lo sforzo unicamente in base alle precise caratteristiche del percorso, ignorando quello che fanno gli altri, fanno di Chris Froome il corridore post moderno per eccellenza. Un approccio tecnologico, matematico, e una freddezza immune a stimoli esterni che stanno di fatto lacerando in due l’opinione dei tifosi: tra chi vede nell’approccio prettamente calcolo-centrico alle corse il sintomo del degrado di questo sport, e chi invece interpreta tale prospettiva unicamente come l’inevitabile conseguenza della biomeccanica applicata al ciclismo, tema quindi da approfondire, analizzare, e non da giudicare attraverso pregiudizi di sorta.

Probabilmente nel futuro prossimo assisteremo sempre più al progressivo aumento di una certa mentalità che vede nell’ideologia del calcolo l’arma in più in grado di fronteggiare azioni dettate solo dall’istinto, visto come la causa principale di uno spreco prezioso di energia da conservare, in tempi in cui il doping non viene più perdonato.

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A prescindere da considerazioni e pareri una cosa però appare chiara: se corridori come Alberto Contador e Vincenzo Nibali continuano a dettar legge accumulando trionfi e vittorie, rimanendo ai vertici del ciclismo internazionale, in fin dei conti, al di là di tutto, nella continua lotta tra ragione e follia, biomeccanica e istinto, ad avere la meglio al momento è ancora la seconda. E a noi va bene così.

Andrea Minciaroni quasi antropologo, quasi redattore. In trasferta a Perugia, vive e studia a Roma. @andreminciaroni

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