Ciò che non è straziante è superfluo

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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5 min readNov 22, 2016

Antonio e Miguel sono due nomi come tanti. Probabilmente non ne esistono di più diffusi e comuni in terre ispaniche. Ecco perché l’incontro-scontro tra due che si chiamano così può essere elevato ad archetipo di un gioco alla guerra che nel centro e sudamerica ha conosciuto una fioritura leggendaria.

La rivalità tra Messico e Porto Rico nella boxe è sia un poema e sia un macrocapitolo manualistico sulla rivalità sportiva in generale e non solo. Due scuole implacabili che hanno prodotto un numero talmente elevato di fuoriclasse tale da non risultare quasi credibile a livello percentualistico. Con gli yankees a Nord a far loro da supervisori e ospiti e Cuba frenata dal regime e impossibilitata a sfornare professionisti, messicani e portoricani hanno comandato per lungo tempo.

Porto Rico è un paese piccolo, che non arriva nemmeno a quattro milioni di abitanti. Eppure la sfilza di fuoriclasse e campioni mondiali che ha tirato fuori dalle corde e dai sacchi delle sue palestre è esorbitante, quasi inverosimile. Sono portoricani Wilfred Benitez, Wilfredo Gomez, Esteban De Jesus, Felix Trinidad, Carlos Ortiz. Lo era anche l’eccentrico e controverso Hector Camacho, sottratto alla vita da un proiettile. Miguel Angel Cotto è uno tra i più recenti di questi campioni di uno stato che nel 2012 ha scelto praticamente di allegarsi alla gestione statunitense.

Margarito è esponente dell’altra scuola. Inutile dilungarsi, parlano i nomi: Julio Cesar Chavez, Marco Antonio Barrera, Erik Morales, Pipino Cuevas, Carlos Palomino e oggi Castillo, Alvarez, Marquez. Chi più ne ha più ne metta.

Luglio 2008, Las Vegas. Cotto è primo nel ranking tra i Welterweight. Margarito quarto, e vuole strappargli la corona WBA. Cotto parte meglio e attacca per primo. Very short, very quick. Il portoricano è più veloce, ma ad un certo punto dell’incontro qualcosa cambia. L’inerzia passa al messicano, e Cotto comincia a chiudersi. E’ un ermetismo fatale.

Nella natura di un pugile messicano fare la guerra non è importante, è l’unica cosa che conta. La terra di Villa e Zapata concepisce raramente un pugilato di corsa, ancora meno di chiusura. Il Messico attacca e lo fa sempre e comunque, oltre la soglia del dolore. Ecco perché la boxe messicana regala sempre un grande spettacolo, spesso sotto il segno del sangue sacrificale e della carneficina.

Margarito è lento e inelegante, ma picchia come un martello con una costanza che per Cotto diventa presto una tortura. Per antiestetico che sia, una cosa non gliela si può negare: il coraggio. Margarito ha una soglia di sopportazione del dolore che non è ascrivibile al genere umano. E Cotto si apre, non solo simbolicamente, prima nel round settimo al naso, poi nell’ undicesimo, il penultimo, e questa volta non più solo al naso, e con gravità. Diventa una maschera di sangue. Nella sequenza più cruda Margarito gli rifila dieci colpi di cui nove al viso o alla testa prima che il portoricano accenni a una timida ripresa.

Il liquido rosso gli scende dal sopracciglio sinistro come acqua da un ruscello coprendogli per intero il volto, passando sopra i suoi occhi che sembrano non collegarlo più mentalmente all’incontro. L’ arbitro lo sta contando e lui sembra più che cosciente, ma ormai è chiaro che il primo atto della tragedia andrà a Margarito. Cerca di asciugare col braccio parte del sangue che ha sul volto almeno per poter guardare in faccia l’uomo che sta per finirlo. Ed è quello che accade: Margarito lo finisce. Non ha neanche bisogno di forzare, perché il portoricano dopo una resistenza stoica ma brevissima indietreggia con costanza fino all’angolo e poi si accovaccia a terra. Nel tornare in piedi dopo che l’arbitro ha decretato il finale, scuote la testa. Le telecamere indugiano anche sul figlio che abbraccia la madre, è tutto un pianto greco. Las Vegas è la città delle illusioni costruite.

Siamo a teatro: tragedia latina, fine del primo atto. I pugni e il sangue però sono veri.Margarito invece è tutta una festa: il suo volto azteco si dirige all’ angolo per autoproclamarsi. Battere un portoricano in un derby così teso non è mai facile. Miguel Angel Cotto in particolare di sconfitte non ne aveva subite. Mentre HBO fa andare il replay il commentatore definisce l’incontro a modern boxing classic. Ha ragione perché, per intensità e brutalità, e nondimeno per aver scardinato il pronostico, farà storia.

Un caso si mette di mezzo. Margarito era stato trovato con il gesso nelle bende prima di affrontare Mosley. Glielo avevano fatto togliere e, senza di esso, sembrava un altro animale rispetto a quello che aveva demolito e spaccato in quattro Cotto. Il portoricano era diventato sospettoso e in un faccia a faccia televisivo con Margarito davanti al giornalista Max Kellerman su HBO lo aveva accusato di aver usato il gesso anche contro di lui, cosa riscontrabile da un fotogramma che mostra una crepa nelle fasciature. Margarito negava e Cotto, che accettava la risposta, lasciava intendere che avrebbe regolato i conti sul ring. Non fu mai dimostrato che Margarito avesse usato il gesso anche contro Cotto, ma tutto lo lascia intendere. C’è un siparietto di commovente fattura nazionalistica che chiude lo sceneggiato di HBO: il giornalista chiede a entrambi se rispettivamente hanno sempre combattuto in nome del proprio paese, e nessuno dei due fighter si sottrae: siempre. Cotto è più contratto, Margarito nervoso: un preludio.

Come è, come non è, dopo quella notte del 2008 qualcosa in Miguel Cotto — mancino atipico perché combatte in guardia ortodossa — era cambiato. Alla rivincita il portoricano si era presentato cosparso di tatuaggi, lui che non ne aveva. Erano passati tre anni. In tre anni un ragazzo che è in procinto di compiere la piena maturazione virile può cambiare sorprendentemente, irrimediabilmente. Negli occhi la stoica tranquillità di chi ha già vinto. Occhi diversi e più maturi di quelli del ragazzo martellato tre anni prima. E’ imperturbabile da ogni punto di vista. Margarito invece, che nel primo incontro portava i capelli a spazzola, è con i dread. Look poco pugilistico, specialmente se confrontato al cranio minaccioso un po’ alla Hagler del portoricano.

Cotto mette nell’incontro qualcosa che non aveva messo nel primo: la continuità, la resistenza. Il messicano ha movenze da psicopatico, e questa volta è lui ad aprirsi. Nervoso e iracondo, con o senza gesso nella bende, non rinnega la linea che lo ha portato fino in cima: il coraggio prima di tutto. Un anno prima era stato vinto da Pacquiao che insieme alla gloria gli stava portando via anche un occhio. Ora quell’occhio Miguel Cotto sta finendo di rovinarglielo, finché i medici nel Decimo round si prendono la responabilità di fare l’unica cosa avrebbero dovuto fare assai prima: fermare l’incontro.

Cotto esulta quasi non facendolo, è provato, quasi malinconico. E’ la maschera marziale di serietà che ha attraversato tutta la sua carriera.

La parabola di Miguel Cotto nel vendicare la sconfitta è un gesto pugilistico come più non potrebbe esserlo: per rinascere l’uomo che era in lui ha dovuto darsi la morte. Il suo non è un iter di uomo contro uomo, né di uomo contro nazione. Il pugile è come lo Scorpione perchè attraverso l’autolesionismo ritrova la sua forza; per potersi rigenerare rivolge a se stesso il suo tormento. E’ ciò che accade paradigmaticamente ai comuni mortali quanso subiscono una ferita sentimentale, familiare, lavorativa, affettiva,giuridica. Nel pugilato questa materializzazione è una prassi comune, e ci ricorda che a volte nella vita è come secondo Emil Cioran: ciò che non è straziante è superfluo. Ecco perché Cotto non è stato il più brillante né certamente il più forte tra i pugili della sua generazione, ma sicuramente uno tra i più amati.

Un ringraziamento sentito a Niccolò Pavesi che mi ha spiegato dettagliatamente la controversia del gesso di Margarito e tecniche e abitudini delle tre grandi scuole di pugilato del centroamerica.

Articolo a cura di Luigi Luca Borrelli

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